Categoria: idee e progetti

Il seme dell’odio

Hannah Arendt, osservatrice al processo ad Eichmann, il “contabile dello sterminio”, che si atteggiava a grigio burocrate, scrisse di “banalità del male”. Probabilmente, al di là delle polemiche che suscitò all’epoca la sua rappresentazione di uno dei responsabili dello sterminio di milioni di persone, Arendt non poteva sospettare la fortuna che avrebbe avuto nei decenni successivi la sua amara constatazione su quanto conformista, insignificante, convenzionale, incolore fosse il male.
Oggi sappiamo che Eichmann era ben più che un mero “contabile”, bravo nel rendere più veloci, semplici, efficaci le modalità con le quali a ritmi da catena di montaggio, si raccoglievano, selezionavano, spogliavano, uccidevano e bruciavano i corpi di milioni di persone eliminate come polli allevati in batteria. Con la stessa, quieta, indifferenza. Resta il fatto che tanti furono gli esecutori materiali dello sterminio, come tanti vi collaborarono mettendo a frutto le proprie competenze tecniche, giuridiche, mediche, amministrative. Chi non collaborò attivamente sapeva ed approvava. La grandissima parte di queste persone non era né sadica né incline alla violenza.
Tanta cinematografia statunitense degli anni successivi ha confezionato un’immagine della dittatura nazista deformata dalle esigenze di propaganda del momento. La Germania Ovest era un’alleata preziosa durante la guerra fredda con l’Unione Sovietica. Il cinema costruì la narrazione, falsa ma potente, di una Germania schiacciata dal tallone dell’elite hitleriana e dalle SS, dove il popolo e l’esercito erano ignari ostaggi di una macchina feroce.
Sappiamo che non è così. Sappiamo che la “soluzione finale” era narrata nei cinegiornali, sappiamo che la deportazione e l’uccisione degli ebrei europei era approvata e plaudita, sappiamo che tutto venne codificato in un solido apparato legislativo.
Sappiamo che il Terzo Reich godeva dell’appoggio di un’ampia maggioranza della popolazione, perché era quel che era. Punto.
Altrimenti non vi sarebbe stata Auschwitz.
I 12 anni di nazismo venivano ridotti ad una parentesi di follia. Irripetibile.
Nel 1963 Arendt, nello specchio di Eichmann vide riflessa la normalità dello sterminio. Una banale procedura. Così banale che potrebbe ripetersi.
Non allo stesso modo, ma con la stessa ineluttabile semplicità. Semplice come la vita di ogni giorno, come la quotidianità che si nutre di ripetizioni, di piccoli rituali, di procedure consolidate.
Capita di chiedersi se non rischiamo di trovarci presto di fronte al bivio nel quale si separano complici e vittime, perché il tempo delle nuance, delle sfumature, delle gradazioni di grigio sta finendo.
Siamo abituati a pensare che il male sia estraneo alla vita quotidiana, estraneo alla normalità. Siamo convinti che il male non sia mai incolore. Persino quando lo è fingiamo che non lo sia, fingiamo che rappresenti l’eccezione, mai la regola.
La guerra, che pure è divenuta una costante di questi nostri anni, con truppe italiane che combattono su tanti fronti, viene raccontata come “male necessario”, o finanche come “male minore”. L’articolarsi della narrazione bellica intorno ad ossimori come la guerra umanitaria o edulcorazioni come l’operazione di polizia internazionale dimostra la volontà di nascondere la verità sui massacri delle truppe italiane.
Tutti sanno che la polizia picchia e tortura in modo ben più sistematico di quanto non rivelino vicende che solo la tenacia dei parenti delle vittime rende noti. Finché può lo Stato e le sue guardie armate negano l’evidenza, negano che Cucchi, Uva, Aldrovandi e tanti altri siano stati massacrati intenzionalmente. Negano perché temono lo sdegno che certi delitti potrebbero suscitare.
Negano e nascondono perché sono convinti di non avere il sostegno di una maggioranza significativa.
Sino ad oggi. Un giorno di questi potrebbe accadere che smettano di coprire con un tappeto il sangue per rivendicare la violenza sistematica di polizia, carabinieri, militari.
L’attuale ministro dell’interno, Matteo Salvini, ha approvato l’operato delle forze dell’ordine nel caso di Stefano Cucchi. Se il ministro di polizia sostiene che le botte a Cucchi sono giustificate, non sono ancora cambiate le leggi, ma potrebbero essersi modificati i rapporti di forza. Salvini ritiene di avere l’appoggio popolare: numerosi indizi inducono a ritenere che le sue convinzioni non siano prive di fondamento.
Questa lunga estate sembra scivolare via senza troppi contraccolpi, ma il sottile senso di inquietudine che attraversa le piazze dove, sin troppo timidamente, qualcuno prova a mettersi di mezzo, allude alla delicatezza del momento. La lunga storia della guerra ai migranti è come una pietra che rimbalzi a lungo quieta lungo un declivio, facendosi quasi frana, senza tuttavia mai correre all’impazzata. Pare che quest’estate di colpo il pendio sia divenuto più scosceso e la corsa stia accelerando. Non è questione di numeri ma di sostanza.
Le statistiche disegnano grafici inequivocabili: dallo scorso anno gli sbarchi sono nettamente diminuiti. Nell’estate del 2017 il governo Gentiloni inaugurò la stagione di lotta alle ONG impegnate in operazioni di serch and rescue nel Mediterraneo e strinse accordi con le milizie di Zawija e Sabratha, affinché bloccassero il traffico di migranti sotto il loro controllo.
Quest’anno il terreno era già stato sgomberato e reso disponibile a nuove operazioni di guerra non dichiarata. Il nuovo ministro ha solo completato l’opera, inserendo un tassello che né il suo predecessore Minniti, né, a suo tempo il suo camerata Maroni avevano osato portare sino in fondo.
Lo scontro esplicito con l’Europa è il perno su cui ha girato l’operato di Salvini e del ministro dei trasporti, il pentastellato Toninelli.
Impedire lo sbarco di centinaia di persone ripescate in mare da un’unità della Marina Militare Italiana va al di là della guerra alle ONG, criminalizzate come complici dei trafficanti. Negli ultimi mesi di governo già Minniti aveva chiuso i porti ad alcune ONG e, quando diede il via libera agli sbarchi, scattarono inchieste, blocchi delle imbarcazioni, accuse gravissime agli equipaggi.
Nel 2011, dopo un lunghissimo braccio di ferro con l’Europa, un altro ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni, si arrese e, in una sola notte, fece trasportare da Lampedusa alla Sicilia e, di lì, nei campi tenda settemila profughi della guerra per la Libia.
L’attuale governo è in sostanziale continuità con quelli precedenti di centro-sinistra e di centro-destra o siamo di fronte ad una frattura, ad una novità radicale, ad un salto di qualità?
Il dilemma, sebbene appaia autentico, nel dibattito politico estivo assume il sapore agre dell’interrogativo retorico. Rappresentare il governo Salvini-Di Maio nel segno della discontinuità radicale sui temi dell’immigrazione è operazione utile sia a destra che a sinistra del quadro istituzionale. Salvini, in continua campagna promozionale, vuole dimostrare di essere riuscito dove tutti gli altri hanno miseramente fallito, la disastrata opposizione Dem spera di rifarsi il trucco con l’antifascismo e l’antirazzismo.
Entrambi hanno ben poca lana da tessere, muovendosi sul terreno della propaganda.
Per i nazionalsocialisti non sarebbe stato facile promuovere lo sterminio degli ebrei se sin dai tempi della Seconda Internazionale i socialdemocratici non avessero soffiato sul fuoco dell’antisemitismo, equiparando l’ebreo al capitalista. Il che non implica negare la frattura ed l’imponente salto di qualità nazista.

La legislazione sull’immigrazione nel nostro paese ha delineato una rottura dell’ordine liberale, configurandosi come “diritto penale del nemico”, secondo la definizione coniata dal giurista tedesco Jacobs nel 1985, e articolandosi in termini che definirei di “diritto amministrativo del nemico”. Il mancato accesso ai diritti di cittadinanza finisce con il declinarsi in negazione dei diritti umani.
I governi di centro-sinistra, pur avendo inaugurato questa stagione nel lontano 1998 con la legge Turco-Napolitano che istituì la detenzione amministrativa nel nostro paese, provano a mantenere intatta la patina umanitaria. Una patina sottile. Tragicamente ridicola, ma simbolicamente importante. Per quanto abnormi siano la detenzione e la deportazione, per quanto sia criminale la blindatura delle frontiere, che uccidono chi prova ad attraversarle, per quanto evidenti siano le responsabilità di tutti i governi, le cerimonie del cordoglio mettono in scena la finzione che le stragi siano “disgrazie”, “incidenti” da imputare al mare o ai trafficanti.
Il nuovo governo ha annunciato un pacchetto sicurezza, che, pur annunciando un prolungamento della detenzione amministrativa non rappresenta una significativa rottura con il recente passato.
La novità è altrove. La sottile patina umanitaria, etichettata come “buonismo” è stata stracciata. La gente in viaggio viene etichettata come criminale, portatrice di malattie, pericolosa. Nemica.
Tutti. Sempre. Uomini, donne, bambini. Quest’estate non abbiamo assistito alla messa in scena del lutto istituzionale. Le barche affondate mentre le ONG assistevano impotenti, l’incriminazione di chi si è ribellato al ritorno in Libia sono state ragione di orgoglio.
Salvini è indagato per sequestro di persona, mancata assistenza perché non si è neppure preoccupato di adeguare le norme alle pratiche da lui imposte. Può così, pur essendo al potere, giocare il ruolo del perseguitato. Un gioco che i suoi alleati a cinque stelle hanno fatto con abilità e profitto per anni. Lungo questo declivio il ruzzolar di pietre può divenire frana. Il governo del cambiamento potrebbe chiedere ed ottenere più potere per assolvere il mandato di proteggere la comunità – gli italiani dimentichi del Po e dei riti celti – dal moloch della finanza, dall’immigrazione che mira a spezzare e cancellare l’identità, dalla libertà che nega il nucleo etico familiare.
Tra il 9 e il 12 dicembre del 2013 a Torino migliaia di persone si riversarono in strada imbracciando tricolori, decise a bloccare tutto perché deluse dal cambiamento che non arrivava, spaventate per il futuro che non c’era più. Bloccarono le strade e abbracciarono i poliziotti. Sui loro volantini si auspicava un governo militare, una dittatura. Finì presto. Tutti, delusi tornarono a casa, i media affondarono nel ridicolo quell’avventura e nessuno ci pensò più.
Oggi quella gente ha trovato la propria rappresentanza, un governo che ha promesso di realizzarne il programma.
Mentre scrivo le agenzie hanno appena battuto la notizia di un profugo sedicenne aggredito e ferito a Raffadali. Chi lo ha colpito gli ha gridato “vattene a casa tua”. È l’ultima di tante vicende tutte uguali.
Provate ad immaginare. Un uomo dal balcone vede una donna rom con una neonata in braccio, entra in casa, prende il fucile a pallini e spara alla bambina.
Un altro tizio vede un lavoratore sull’impalcatura. Prende il fucile e lo ferisce. L’operaio è di origine africana. Il ministro dell’Interno si mostra comprensivo con i fucilieri della ringhiera.
Impossibile? È successo quest’estate nel Belpaese. Ci sono case dove il rancore cova da tanto tempo, distillandosi goccia a goccia, corrodendo ogni senso di legame umano. Il seme dell’odio sta producendo i suoi frutti avvelenati.
Nessuno dica che non sapeva, nessuno dica che non aveva capito.

Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista

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Il grande complotto. Ebraico

Prendete un pizzico di paura, la convinzione che qualcuno abbia interesse a distruggere la vostra vita, mescolate con i fantasmi che vi offrono tv e tabloid, mescolate con cura e cuocete a fuoco lento. Se la ricetta funziona vi sarete costruiti un piccolo inferno personale. Capita a tante persone. Alcune finiscono drogate di farmaci e segregate nei repartini, altre se la cavano e riprendono a vivere, altre ancora riempiranno le pagine della cronaca nera.
La nostra cultura bolla con lo stigma della follia chi si sente perseguitato, controllato, manipolato.
Vivere con agio la propria vita non è sempre facile.
Se la stessa ricetta viene assunta collettivamente da interi gruppi umani, poiché la follia non può essere contagiosa, diventa evidente l’esistenza di un complotto.
Ogni “prova” che confuti il complotto ne dimostra l’esistenza. I complottisti sono impermeabili a qualunque argomentazione: nulla intacca la convinzione che qualcuno trami per far scomparire sia loro sia il loro mondo. La cospirazione è la chiave che apre tutte le porte, che mette ordine nel caos. Credere che tutto quello che succede faccia parte di un piano terribile è al contempo spaventoso e rassicurante. Le teorie del complotto danno ordine al caos, danno senso alla paura, offrono un nemico da combattere e annientare.
Chiunque neghi il complotto fa ovviamente parte del complotto. Nel migliore dei casi è un fantoccio mosso da fili invisibili.
Chi ordisce un complotto disegna la trama di un tappeto che altri tesserano per lui. Nell’iconografia complottista alcuni simboli sono ricorrenti: c’è il burattinaio, la figura invisibile che muove i fili delle vite altrui, l’ombra che regge le sorti del mondo. Anche l’occhio massonico è molto gettonato.

Il complottismo non è frutto di una banale infatuazione per la letteratura fantastica. Le teorie del complotto si basano quasi sempre su elementi reali, ma irrealizzati in una narrazione che trae alimento da una virtuale cassetta degli attrezzi dove è depositato un universo simbolico da usare ed adattare al momento.

La maggioranza delle persone non riesce né a conoscere né a controllare i fatti che ne decidono la vita. I complotti sono come le religioni: spiegano tutto e indicano la via della salvezza.
Morire di tumore perché si mangiano cibi pieni di pesticidi, perché si beve acqua e si respira aria inquinata è un fatto.
Armi chimiche uccidono le popolazioni di paesi nemici. Anche questo è un fatto.
Sostenere che gli scarichi degli aerei civili siano scie chimiche prodotte per ucciderci ne è la declinazione complottista.

Il mondo virtuale dell’economia finanziaria ha effetti enormi nelle vite di miliardi di persone. È innegabile.
L’idea che le banche e chi le controlla abbiano il progetto di dominare il mondo assoggettandolo al potere di una ristretta elite intrinsecamente perversa ed etnicamente coesa è alla radice di un filone complottista che ha giustificato pogrom e campi di sterminio.

Hitler è morto nel 1945 nel bunker della Cancelleria a Berlino ma la credenza in un complotto giudaico per dominare il mondo (ri)vive nel complottismo contemporaneo. Per evitare l’accusa di antisemitismo tutto resta sottotraccia. Non detto, sussurrato. Detto e poi negato.
La demonizzazione dei ebrei è opera della religione cristiana nelle sue varie confessioni. La chiesa cattolica condannava l’usura e prometteva l’inferno agli usurai. Questo stigma ha fatto sì che gli ebrei, cui era vietato in Italia e in vari altri paesi possedere e coltivare la terra, facessero i mestieri loro consentiti, tra cui il prestare denaro per interesse.
La diffidenza cattolica per la finanza si mescola con il pregiudizio antiebraico sino a divenire un amalgama indistinguibile.
I “Protocolli dei Savi di Sion”, un documento fabbricato in Russia nel 1903, riconosciuto come falso già nel 1921, ha avuto uno straordinario successo internazionale. I “Protocolli” hanno continuato a girare per decenni. Quel testo, il cui nucleo era il complotto ebraico per prendere il controllo del mondo, era la “prova” di convinzioni molto profonde.
Un cortocircuito logico che è alla base di ogni teoria del complotto, che, come un uroboro, si morde la coda avvolgendosi all’infinito su se stesso.
Gli ebrei erano perfetti per il ruolo che veniva (e viene ancora) loro attribuito. Strani e stranieri in tutti i luoghi dove hanno vissuto erano il nemico per eccellenza, quello che vive accanto a te e cospira per farti fuori. I ghetti, i roghi, le persecuzioni, i campi di sterminio sono stati pulizia etnico religiosa preventiva.
La nascita dello Stato di Israele, nella striscia di terra tra il fiume Giordano e il Mediterraneo a sud del Libano, ha segnato un forte distacco culturale dall’ebraismo della diaspora, perché ha fondato un nazionalismo ebraico con un legame con la terra e i suoi mestieri, oltre alla rinascita di una lingua quasi morta.
Questo fatto di portata epocale non ha scalfito le convinzioni dei complottisti. Anzi! È stata loro offerta l’occasione di dare un luogo, una testa, un cervello ad una cospirazione i cui tentacoli sono diffusi ovunque in Europa e negli Stati Uniti.
Occorre tuttavia riconoscere che Israele è anche investito di una profonda ambivalenza simbolica, perché offre un luogo per mantenere la “tradizione”, per cancellare il cosmopolitismo di tanta parte delle comunità sparse per il mondo.

Si potrebbe pensare che il complotto ebraico sia un attrezzo spuntato, roba da vecchi fascisti. Invece no.
Le teorie della cospirazione trovano ogni giorno nuovi adepti, il virus complottista si diffonde nel web e si moltiplica e rafforza di click in click.

Non è certo un caso che nel nostro paese il grande complotto raccolga consensi soprattutto tra gli esponenti del Movimento 5 Stelle, che giustificano ogni aporia, ogni fallimento, ogni contraddizione con la grande cospirazione delle banche, dei media e dei partiti contro la monarchia ereditaria virtuale di Grillo e Casaleggio. Il comico si è distinto in numerose occasioni per le proprie uscite antisemite e razziste.
Dopo la morte di Rothschild, gli orfani dell’uomo simbolo di ogni cospirazione pluto-giudaico-massonica avevano perso la pietra miliare dei complotti del secolo.
Morto un Paperone ebreo, se ne trova subito un altro. È il turno di George Soros.

Il giornalista Del Grande, in vacanza nelle prigioni turche per un paio di settimane, non ha mai nascosto la propria avversione per la dinastia Assad. È stato attaccato dalla “sinistra” filo russa e filo siriana perché un suo progetto sarebbe stato finanziato proprio da Soros, il Paperone statunitense di origine ungherese.
Altri giornalisti, finiti nei guai lavorando in zone di guerra, pur pagati da capitalisti e banchieri, proprietari di radio, TV e giornali, non sono entrati nel mirino delle falangi rosse e rosso brune, nostalgiche dell’Unione Sovietica.

Grillo, seguito a ruota dal procuratore capo di Catania Zuccaro, ha sparato a zero sulle ONG, che raccolgono naufraghi nel Mediterraneo, accusandole di essere colluse con gli scafisti.

Salvini ha fatto di meglio alzando la posta. Il 2 maggio ha dichiarato: “Sono sempre più convinto che sia in corso un chiaro tentativo di sostituzione etnica di popoli con altri popoli. Questa non è un’immigrazione emergenziale ma organizzata che tende a sostituire etnicamente il popolo italiano con altri popoli, lavoratori italiani con altri lavoratori. È un’immigrazione che tende a scardinare economicamente il sistema italiano ed europeo”. I flussi migratori innescati da guerre, desertificazione, povertà sono sempre stati il babau leghista. In queste affermazioni c’è tuttavia un salto di qualità. Un grande complotto per eliminare gli italiani, per sostituirli con altri. Gli immigrati poveri sono i le pedine di un grande burattinaio intenzionato a distruggere l’Italia dall’interno con un esercito di immigrati.
Salvini fa il nome del burattinaio. È George Soros. “Non c’entrano guerre, diritti umani e disperazione. È semplicemente un’operazione economica e commerciale finanziata da gente come Soros. Per quanto mi riguarda metterei fuorilegge tutte le istituzioni finanziate anche con un solo euro da gente come Soros. Non dovrebbero poter mettere piede in Italia né loro, né le associazioni da gente come lui finanziate”. Gente come lui. Cosa significa? Salvini, prudente, non dice la parola che apre tutte le porte, la parola che spiega tutto, la chiave che rende credibile ogni cospirazione.
Lo farà qualche giorno dopo il Fatto Quotidiano, il giornale più vicino alla galassia pentastellata.
La pubblicazione di un pacco di mail hackerate alla “Open Society Foundation” del magnate statunitense è l’occasione buona. Il Fatto cita Dc Leaks che giustifica la pubblicazione delle mail sottratte dal database dell’organizzazione filantropica perché “Soros è l’architetto di ogni colpo di Stato degli ultimi 25 anni”. Con un titolo così ti aspetteresti rivelazioni bomba. Niente di tutto questo. C’è un elenco di dossier sui finanziamenti elargiti, sulle politiche di questo o di quello, sulla posizione dei paesi europei di fronte alla crisi in Ucraina. Dc Leaks scrive che Soros è di origine ebraica. Quelli del Fatto evidenziano in neretto.
Non servono prove, il Paperone è ebreo. Basta la parola. Nei commenti qualcuno si indigna, molti alzano ancora di più il tiro. L’ebreo continua ad essere il nemico. Sempre straniero, estraneo, pericoloso, aspira come il diavolo a controllare il mondo.
Siamo all’eterno ritorno dell’eguale. I fantasmi del Novecento non sono stati seppelliti ad Auschwitz.
La lunga fila di morti nei lager non è stata un orrendo rito di espiazione. Il coltello sacrificale affondato in corpi umani trattati come capri da offrire per placare le ire di un dio iracondo è un’immagine suggestiva, ma estranea alla logica complottista.

Lo scorso maggio l’incendio doloso di una roulotte dove viveva una famiglia rom è stata spiegata dai media come affare “interno” alla comunità. Un po’ di falsità mal condite ha liquidato con leggerezza l’omicidio di due bambine e di una ragazza. Sui social media le incitazioni al genocidio sono diventate normali. Quasi banali.
I nazisti giustificarono lo sterminio dei rom, perché, pur ariani, avevano contaminato i loro geni, viaggiando e mescolandosi con altri. Il razzismo del terzo Reich era sostanzialista, si basava sulla convinzione che vi siano gruppi umani naturalmente inferiori. I rom, diversamente dagli ebrei che sono costitutivamente perversi, sono diventati mostri perché hanno tradito la loro natura.
Follia? Si è folli da soli, quando la “follia” è condivisa diventa un movimento politico. É come l’omicidio. Se a uccidere è uno solo l’omicidio resta un crimine gravissimo, se benedetto da una bandiera e da una divisa, si trasforma in eroismo.

Il razzismo differenzialista oggi è molto più raffinato e, quindi, pervasivo, grazie ad un sapiente utilizzo di attrezzi teorici che attingono ad un patrimonio culturale più ampio.
Teorici come Alain De Benoist, esplicitamente schierati a destra, sono riusciti a fare breccia anche in ambienti apparentemente molto distanti.
De Benoist è attento alle questioni ambientali, critico dell’industrialismo, fautore di un razzismo differenzialista su base culturale.
Sul Fatto Quotidiano scrive regolarmente Massimo Fini, il fondatore di Movimento Zero, una formazione che raccoglie vecchi attrezzi della destra profonda, cercando audience nei movimenti ambientalisti, facendo leva sulla critica alla modernità e sul ritorno al primitivo.
Il nocciolo del pensiero di De Benoist ne spiega il crescente successo, la capacità di dar vita ad una corrente rosso-bruna al passo con i tempi. Al centro è la tradizione. Non una tradizione, ma tutte. Tutte buone, tutte positive, purché restino integre. I flussi migratori spezzano le tradizioni, le meticciano e annullano nel grande mondo della merce tutta eguale ad ogni latitudine. Le migrazioni, nel pensiero della Nuova Destra, vanno bloccate e respinte, nell’interesse di tutti, migranti compresi.
Non serve più costruire lager nel cuore dell’Europa, allo sterminio provvederanno guerre, fame, carestie, desertificazione.

Il nemico per De Benoist è la mescolanza, il confronto, che annacqua le varie culture, le annienta di fronte alla pervasività anomica della finanza, del mondialismo, della fine del rapporto identitario tra popolo e terra.
L’economia finanziaria diventa il nemico per eccellenza, perché recide le radici, perché globalizza l’economia, quella buona, quella che produce.
Facile cogliere l’assonanza con i temi di certa sinistra, orfana dello Stato, padre, madre, nazione. Poco importa che la delocalizzazione delle produzioni abbia volatilizzato anche la produzione manufatturiera. Il nemico sono le banche, non i padroni che producono, rubando la vita di chi lavora, senza nessuna attenzione al colore della pelle o al suono della lingua.
L’antisemitismo riprende forza grazie alla sottigliezza di una destra, che articola il razzismo in modo più sottile, abile, intrigante.
Il populismo di destra e di sinistra si abbevera alla stessa fonte. La grande cospirazione della finanza è il tratto che accomuna le formazioni che in Europa, ma non solo in Europa, si battono contro la moneta unica, l’apertura delle frontiere, la libera circolazione di uomini e capitali.
Fanno leva sulla paura, sull’incertezza per il futuro, sulla fine delle tutele e delle garanzie. E trovano un nemico. L’immigrato povero che sbarca sulle nostre coste. Il magnate ebreo che usa l’immigrazione per distruggere le tradizioni, per governare il mondo.

M. M. (quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)

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Si torna sempre a dicembre. Riflessioni a dieci anni dalla rivolta di Venaus

Quest’anno sono dieci anni. Dieci anni passati in un lampo, ma lunghi. Lunghi come le notti di veglia, le marce popolari, i presidi ai cancelli, le cene con il gas e la doccia fredda. Lunghi come le ore in cella di chi ci è stato sottratto, di chi ha perso la propria libertà per provare a regalarne un po’ a tutti.
In questi anni in Valle è venuta tanta gente. La loro stagione è stata l’estate. Ogni autunno tornano a casa a perpetuare la storia della Valle che resiste. Capita di chiedersi quali immagini, memorie portino con se.
La pasta cucinata nel tendone/cucina del campeggio, il fumo dei lacrimogeni e il respiro che si mozza, i canti di lotta e le urla di chi viene pestato, i sentieri di notte, le assemblee, le battiture. Il tempo sospeso della lotta. Vera vacanza, sospensione della quotidianità, rottura dei suoi ritmi, dei suoi riti, dei suoi obblighi.
Linfa preziosa da tenere da parte per l’inverno.

Per chi resta, per chi c’è sempre stato, è diverso: le storie troppo raccontate rischiano di logorarsi. Di logorarci.
I nostri nemici ci fanno conto. Fanno conto sulla ripetizione delle stagioni, mentre la talpa continua a bucare la montagna, spargendo veleni, allargando la ferita.
La ferita nella montagna, che il nostro sguardo e la nostra cura hanno reso più che roccia e acqua e alberi, per farne il simbolo della carne viva del nostro movimento.
Un movimento che ha sulle spalle il peso della speranza che ha rappresentato per tanta gente di ogni dove.
Il rischio è l’usura dei sentimenti, anestesia del tempo che trascorre, il ripetersi dei passi già fatti, dei sentieri che conducono là dove la ferita si allarga.
L’orgoglio è quello di esserci, di tenere duro, di continuare a dare del filo da torcere ai nostri avversari. A quattro anni e mezzo dallo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena è stata scavata solo mezza galleria. Il grande tunnel lo faranno scavando dentro la montagna, partendo dalla galleria di Chiomonte. Una scelta costosa e rischiosa. Una scelta dettata dalla paura di aprire i cantieri a Susa e Bruzolo. Il segno chiaro che, nonostante le dichiarazioni di vittoria, il governo continua a temere il movimento No Tav.

Due anni fa l’estate si chiuse con un bilancio durissimo. Il sangue, le umiliazioni, gli arresti, la notte del 19 luglio. E’ stata anche l’estate dei sabotaggi delle ditte collaborazioniste, i mezzi bruciati, la lotta che si radicalizza ma non è per tutti, anche se tutti la sostengono.
L’autunno è stato segnato dalle proteste agli alberghi e alle caserme che ospitano le truppe di occupazione. Iniziative di pochi, che hanno tuttavia mantenuto forte l’opzione dell’azione diretta.
Poi è tornato dicembre.

Una valle di terroristi
I nostri avversari conoscono bene il valore dei simboli. Il giorno dopo l’anniversario della presa di Venaus, il 9 dicembre del 2013 quattro No Tav vennero arrestati con l’accusa di attentato con finalità di terrorismo, per un’azione di sabotaggio al cantiere del 14 maggio precedente. In quell’occasione venne danneggiato un compressore, presto riparato e rivenduto. Un’imputazione che ha sottratto alle loro vite, ai loro affetti, alle lotte Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò. Qualche mese dopo è stata la volta di Francesco, Graziano e Lucio.

La grande favola della democrazia si scioglie come neve al sole, ogni volta che qualcuno prende sul serio il nucleo assiologico su cui pretende di costruirsi, ogni volta che libertà, solidarietà, uguaglianza vengono intese e praticate nella loro costitutiva, radicale alterità con un assetto sociale basato sul dominio, la diseguaglianza, lo sfruttamento, la competizione più feroce.
La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti opinione ineffettuale, mero esercizio di eloquenza, semplice gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia si dispiega come discorso del potere che ri-assume nella sua interezza l’assolutismo della regalità. Assoluta, perché sciolta da ogni vincolo, perché nega legittimità ad ogni parola altra. Ad ogni ordine che spezzi quello attuale.
Lo fa con la leggerezza di chi sa che l’illusione democratica è tanto forte da coprire come una coltre di nubi scure un dispositivo che chiude i conti con ogni forma di opposizione che non si adatti al ruolo di mera testimonianza.
In questi anni abbiamo assistito al progressivo incrudirsi della repressione, senza neppure la necessità di fare leggi speciali: è stato sufficiente usare in modo speciale quelle che ci sono.

L’accusa di terrorismo è stata smentita in corte d’assise e più volte in Cassazione, ma la Procura non demorde. Al processo d’appello contro Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò il procuratore generale Marcello Maddalena continua a sostenerla.
Il processo del compressore è solo la punta di un iceberg, perché sono centinaia i processi e le condanne contro i No Tav.

Il 27 giugno del 2014 vennero rese note le motivazioni della sentenza della Cassazione.
Secondo i giudici ci sarebbe una “sproporzione” tra quanto avvenuto nella notte del 14 maggio al cantiere e la presunzione che un tale atto possa effettivamente indurre lo Stato a fare marcia indietro, cancellando il progetto della Torino Lyon.
Sul piano giudiziario quella sentenza ha dato un duro colpo alla Procura torinese.
E’ probabile che l’impalcatura accusatoria contro i sette No Tav accusati di terrorismo non regga neppure in appello.
Ma la partita resta aperta.

Le armi messe in campo dalla Procura sono affilate ed insidiose, perché chiunque si opponga concretamente ad una decisione dello Stato italiano o dell’Unione Europea rischia di incappare nell’accusa di terrorismo.
Un giorno l’accusa di terrorismo potrebbe essere applicata a chiunque lotti contro le scelte non condivise, ma con il suggello della regalità imposto dallo Stato Italiano.
In altri termini: se di giorno o di notte, in tanti o in pochi, l’azione dei No Tav fosse tale da indurre lo Stato a fare marcia indietro, anche per la Cassazione i No Tav sarebbero terroristi. Tutti terroristi, anche chi sta in ultima fila con il bimbo in carrozzella, anche chi cammina a fatica, anche chi non ha coraggio, ma solo un cuore che batte forte per il mondo nuovo che vorrebbe.

E’ importante che la memoria non vacilli: i No Tav hanno sostenuto ed appoggiato la pratica dell’azione diretta contro il cantiere e le ditte collaborazioniste, i blocchi delle strade e delle ferrovie, lo sciopero generale, le grandi marce e i sabotaggi.
Fermare il Tav, costringere il governo a tornare su una decisione mai condivisa dalla popolazione locale è la ragion d’essere del movimento No Tav.
Ogni gesto, ogni manifestazione, ogni passeggiata per tutti, non diversamente dalle azioni di assedio del cantiere, di boicottaggio delle ditte, di sabotaggio dei mezzi mira a questo scopo.
Nella logica delle leggi che definiscono il reato di terrorismo gran parte della popolazione valsusina è costituita da terroristi. E con loro i tanti che, in ogni dove, ne hanno condiviso motivazioni e percorsi.
Le migliaia di persone che resero ingovernabile la Val Susa nel dicembre del 2005 erano “terroristi”.
Quella volta non ci furono arresti, né imputazioni gravi: la ragione è facile.
Lo Stato si arrese, in attesa di una nuova occasione. Si arrese perché temeva che un’ulteriore prova di forza potesse far dilagare la rivolta oltre le montagne della Val Susa. L’ondata di indignazione per le violenze contro i resistenti di Venaus era tale da indurre alla prudenza chi pure si era sin lì avvalso della forza. La parola tornò alla politica, prosecuzione della guerra con altri mezzi, strumento per prepararsi ad una nuova guerra.
È importante che quella memoria di lotta ci accompagni in questi anni sempre più duri. I tempi sono cambiati, lo Stato vuole vincere per restaurare un’autorità compromessa, per spezzare la speranza concreta che ciascuno possa decidere la propria vita.

La memoria di ieri per le sfide di domani
L’8 dicembre 2005 fu il culmine della rivolta contro il TAV. Ma già allora non era più questione di treni. In ballo c’era la libertà e la dignità di chi non voleva tollerare l’imposizione con la forza di una scelta non condivisa.
Nessuno lo pianificò ma accadde. I primi a stupirci fummo noi. Le barricate, i tronchi in mezzo alla strada, il blocco delle strade furono la risposta all’occupazione militare.
La Valle divenne ingovernabile.

La memoria riaffiora potente.
Era la notte tra il cinque e il sei dicembre 2005, una fredda notte di un inverno che si annunciava gelido. Il sonno venne rotto da migliaia di telefonate ed sms che avvertivano che il presidio di Venaus era stato attaccato dalla polizia. In pochi minuti, tra le migliaia di attivisti No Tav, circolò la notizia che poche ore dopo sarebbe rimbalzata sui maggiori organi di informazione: la gente pestata a sangue, le tende e la baracca della pro loco demolita, un anziano in gravi condizioni.
La lunga resistenza dei No Tav culminata nella settimana di barricate a Venaus arrivava ad una svolta: il governo aveva deciso l’azione di forza per sgomberare chi, nella neve, circondava l’area dell’ex cantiere Sitaf ed occupava i terreni destinati ad esproprio per la costruzione del tunnel geognostico di 10 km. Il tunnel era un atto di guerra ad una popolazione che da oltre 15 anni si batteva contro un’opera inutile, costosissima, devastante per l’ambiente e il territorio.
Quella notte dormirono in pochi: allacciati gli scarponi si misero in mezzo a strade e autostrade, bloccarono treni, scioperarono dal lavoro, affrontando la polizia che si muoveva come truppa di occupazione lungo tutta la bassa Val Susa.
Due giorni dopo una grande marcia popolare partì da Susa alla volta di Venaus: la polizia distribuì un po’ di manganellate al bivio dei Passeggeri, da dove si dipana la provinciale che porta al paesino della Val Cenischia, ma nessuno si fermò. Lungo i sentieri impervi e ghiacciati, dopo aver superato il blocco, si aggirò la polizia e si scese al cantiere. La rete arancio venne giù, la polizia sparò lacrimogeni che il vento disperse, poi, con la coda tra le gambe andarono via.
La parola tornò alla politica, la prosecuzione, con mezzi più subdoli, della guerra.
Erano in gioco interessi enormi: da lì a poco sarebbe partito il baraccone olimpico e gli sponsor non pagano uno spettacolo con barricate e blocchi. Nonostante la ritirata delle truppe dello Stato la gente era ben decisa a continuare la resistenza, a bloccare ancora le strade, a fermare le olimpiadi.
Migliaia e migliaia di persone in quei giorni appresero il gusto di decidere in prima persona, di praticare la politica al basso, elidendo le mediazioni istituzionali. Tutto ciò faceva paura, perché incrinava la legittimità stessa delle istituzioni. Di tutte le istituzioni. Così la via d’uscita fornita dal governo venne accolta al volo dagli amministratori valsusini.
Il tavolo sul Tav nacque il giorno dopo la ripresa di Venaus: gli amministratori furono chiamati a Roma per aprire la trattativa.
Per qualche politico fu l’occasione per una nuova carriera, il governo prese tempo, sperando che il movimento si sfaldasse, accettando una nuovo progetto, sponsorizzato anche dalle istituzioni locali.
Sbagliò i conti. I voltagabbana, gli ambigui e i tiepidi tra i sindaci non hanno indebolito il movimento, che ha continuato a manifestare la propria opposizione all’opera negli anni della tregua. Chi sul fronte istituzionale non ha accettato tavoli e compromessi, non ha certo modificato il senso di una lotta che si è sempre giocata sui sentieri e non tra barricate di carta.

Tra il 2010 e il 2011 la tregua finì. La parola passò alle armi. Il governo impose con la forza l’apertura del cantiere per il tunnel geognostico a Chiomonte. Quel tunnel doveva essere finito nel dicembre del 2015, ma è solo a metà. L’area si è trasformata in un fortino militarizzato, i sentieri sono percorsi da uomini in armi. L’illuminazione notturna è impressionante. Quel cantiere l’emblema della volontà di piegare con la forza un movimento che non si è mai arreso, un movimento che non ha mai accettato di ridursi a mero testimone dello scempio.
Dai giorni della Libera Repubblica della Maddalena, passando per l’assedio del tre luglio, non c’è stato giorno in cui i No Tav non abbiano lottato contro la violenza di Stato.
Anche il lavorio della politica non è mai venuto meno. Il ministro delle infrastrutture sta aprendo un tavolo per discutere di compensazioni.
Nella neolingua della politica le compensazioni avranno un nuovo nome, ma la sostanza non cambia. I sindaci No Tav che siederanno a quel tavolo si salvano la faccia, il governo presenta un volto dialogante, magari butterà sul tavolo una manciata di quattrini, purché non si discuta del treno. La prima riunione di quel tavolo è stata prudentemente fissata all’indomani della manifestazione nazionale da Susa a Venaus promossa dal movimento l’8 dicembre.
Un movimento che non si mai arreso alla violenza di Stato, troppo spesso non ha saputo rinunciare alla coperta di Linus, un sindaco “amico” sui tavoli del comune.

L’illusione della delega
Il nemico più difficile da affrontare è l’illusione della delega. La delega a chi sabota, a chi tiene in vita un presidio, a chi annega tra le carte per mettere in luce le trame che sottendono il grande affare. La peggior forma di delega è quella istituzionale, che rilegittima la macchina di chi si arroga il diritto di decidere per noi, di chi giocherà la sua partita ad un tavolo dove il banco vince sempre. Chi prende il banco prende sempre tutto quanto. Per prima la nostra libertà.

La febbre elettorale che ha attraversato a più riprese la Val Susa ha assorbito energie enormi, sottraendole alla quotidianità della lotta. Qualcuno ha portato a casa il risultato, altri hanno piazzato qualche No Tav sui banchi dell’opposizione.
La febbre ha contagiato anche le componenti più radicali, divise tra chi si è buttato a capofitto e chi ha lasciato fare, tacendo.
Un gioco di equilibri, di realpolitick che era sempre stato sullo sfondo, nell’ambiguità della separazione formale tra comitati e liste civiche, tra comitati e partiti, è emerso con prepotenza in superficie.
Lo scontro tra la vecchia sinistra che, in nome del realismo, ha sottoscritto patti in contrasto con il mandato ricevuto e il populismo giustizialista, che sventola la bandiera della democrazia diretta, ma la riduce ad una farsa telematica, ha offerto un palcoscenico triste a tante brave persone, che la pratica della partecipazione hanno saputo in tante occasioni renderla vera.
Sono tempi difficili.
Il dispositivo disciplinare messo in campo da governo e magistratura si è articolato su più piani, per tentare di disarticolare il tessuto profondo del movimento, insinuando la paura, chiarendo che non ci sono aree d’ombra, rifugi sicuri, che tutti sono nel mirino.
L’azione repressiva lungi dal dividere il movimento lo ha rinforzato nell’azione solidale, nell’appoggio ai carcerati, ai condannati. Ma ha scavato nel profondo. Non si sono scalfite le convinzioni, si è tuttavia allargata la distanza tra chi fa e chi applaude, ri-aprendo la strada a percorsi istituzionali e di delega.
Eppure. Eppure gli ingredienti per fare altro ci sono tutti: li abbiamo conquistati in lunghi anni di azione diretta, confronto orizzontale, costruzione di percorsi decisionali condivisi. I comitati, i presidi, le assemblee popolari, gli stessi campeggi hanno alluso ad una possibilità concreta, quella dell’autogoverno. La sottrazione dall’istituito che il movimento No Tav ha praticato in tanti anni di lotta fornisce i mattoni e la malta necessari per dare corpo a luoghi e spazi di confronto, condivisione e pratica che realizzino l’autonomia reale dalla brutalità insita in ogni istituzione che pretende di rappresentarci, decidendo al posto nostro, affermando una nozione di bene comune che ci sottrae la scelta sul nostro futuro.
L’unico realismo che conti è quello dell’utopia concreta che – sia pure in alcuni brevi momenti – siamo riusciti a realizzare. Tutti noi portiamo nei nostri cuori, nella memoria viva del nostro movimento Venaus e la Maddalena. Libere Rebubbliche, vere comuni libertarie, dove la gerarchia si è spezzata facendo vivere un tempo altro.

Vivere al tempo della peste
In Val Susa lo Stato si mostra nella sua forma più cruda, senza finzioni.
La ragion di Stato è il cardine che spiega e giustifica, il perno su cui si regge il discorso pubblico. La narrazione dei vari governi nega spazio ad ogni forma di dissenso.
Non potrebbe essere altrimenti. Le idee che attraversano il movimento No Tav sono diventate pericolose quando i vari governi hanno compreso che non c’era margine di mediazione, che una popolazione insuscettibile di ravvedimento, avrebbe continuato a mettersi di mezzo.
La rivolta ultraventennale della Val Susa è per lo Stato un banco di prova della propria capacità di mantenere il controllo su quel territorio, fermando l’infezione che ha investito tanta parte della penisola.
Allo Stato non basta vincere. Deve chiudere la partita per sempre, spargere il sale sulle rovine, condannando i vinti in modo esemplare.
L’osmosi tra guerra e politica è totale. La guerra interna non è la mera prosecuzione della politica con altri mezzi, una rottura momentanea delle usuali regole di mediazione, la guerra è l’orizzonte normale. In guerra o si vince o si perde: ai prigionieri si applica la legge marziale, la legge dei tempi di guerra.

In ballo non c’è solo un treno, non più una mera questione di affari. In ballo c’é un’idea di relazioni politiche e sociali che va cancellata, negata, criminalizzata.
Lo Stato sa che in Val Susa spira un vento pericoloso, un vento di sovversione e di rivolta.
Intendiamoci. Lo Stato non ha paura di chi, di notte, con coraggio, entra nel cantiere e brucia un compressore. Lo Stato sa tuttavia che intorno ai pochi che sabotano c’é un’intera valle.
Un fatto importante ma non decisivo.
La partita vera, quella giocata sapendo di poter vincere, di avere in mano le carte giuste, nelle gambe la forza di correre, nella testa la convinzione di farcela, si gioca altrove, in un altro modo.
La scommessa, una scommessa che investe ciascuno di noi, chi in prima fila, chi un poco più indietro è rendere ingovernabile l’intero territorio, attraverso i percorsi di sottrazione conflittuale dall’istituito che hanno costruito la narrazione che ogni anno sospinge tanta gente in quest’angolo di nord ovest.
Ci vorrà tempo, ci vorrà soprattutto il coraggio di crederlo possibile.
L’8 dicembre 2015 sarà molto più di dell’anniversario di una rivolta vittoriosa. Sarà l’occasione per mettere in campo la forza politica necessaria a bloccare e rendere vani i giochi della politica istituzionale.

Dieci anni dopo quel dicembre il movimento No Tav è ancora in lotta contro l’imposizione della nuova linea ad alta velocità. Una lotta durissima, segnata da arresti, processi, condanne, botte e lacrimogeni. Una lotta popolare segnata dalla forza di chi sa che il proprio futuro non si delega, che, oggi come allora solo l’azione diretta, senza deleghe, senza passi indietro, può creare le condizioni per fermare ancora una volta la corsa folle, di chi antepone il profitto alla vita e alla libertà di tutti.

E’ tempo di smettere di credere nelle favole, in Babbo Natale che porta i doni.
Ci hanno raccontato che il movimento è un tavolino con tre gambe, i sindaci, il movimento popolare e i tecnici.
L’8 dicembre è una buona occasione per ricordare che i tavoli servono a far stare ferma e seduta la gente. Per vincere servono buone gambe. Ne bastano due. Quelle di uomini e donne che stanno saldi sulle proprie.
Una verità semplice che abbiamo appreso in quel lontano dicembre, mentre scendevamo sui sentieri ghiacciati per diventare protagonisti di una storia, che non ci stanchiamo ancora di raccontare.

federazione anarchica torinese – fai

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No Expo. Il conflitto e la sua rappresentazione

L’agire rivoluzionario, nell’attraversare un percorso di trasformazione radicale delle relazioni politiche e sociali, è, costitutivamente, anche narrazione.
La diffusione e l’accessibilità pressoché universale di strumenti di comunicazione ha enormemente amplificato il carattere discorsivo dell’azione di piazza.
Sottile è il confine tra rappresentazione e rappresentanza. Su questo confine si giocano partite di egemonia, che spesso sfuggono all’analisi e al controllo di chi partecipa alle iniziative, pur avendo contribuito a costruirle.

Il dibattito/scontro sul Primo Maggio milanese si inceppa su una faglia solida ma prismatica, dove si intrecciano più piani.
Uno è quello dei media, che, come cinicamente rilevava qualche amante del “realismo”, fanno la loro partita e contribuiscono a costruire una narrazione difficile da ignorare, perché spesso costituisce e costruisce una parte dell’opinione.
Nel dibattito di queste settimane non è mancato chi – leggete l’ultimo editoriale su infoaut – pur rivendicando il “riot”, lo avrebbe preferito più “civile”, più forte nel proporre una comunicazione dove l’atto distruttivo fosse immediatamente leggibile dal filtro dei media. Pur condividendo l’aspirazione ad una comunicazione che sappia farsi opinione più allargata, dubitiamo che i media siano governabili dai movimenti.
Quest’analisi della giornata mette in scena una rappresentazione della piazza, disegnata da chi vorrebbe farsene “rappresentante”, ben al di là dello spazio di una may day milanese, in cui le anime scisse della post autonomia, si sono contese il monopolio della visibilità.
Al di là della trasparente rabbia di chi pensava di condurre il gioco ma non ha portato a casa il risultato pieno, colpisce che il concetto sensato della chiarezza degli obiettivi, venga delegato allo specchio dei media. Ci permettiamo di immaginare che se il “riot” avesse colpito solo banche e auto di lusso, la narrazione mediatica non sarebbe cambiata.

Parte di chi ha agito il “riot” ha affidato ai graffiti la propria narrazione. Un cuore intorno al foro di una vetrina infranta, una scritta su un negozio aperto il Primo Maggio, allusioni poetiche ad una narrazione rivolta ai propri affini, che raramente riesce a farsi opinione condivisa al di fuori di chi ha la chiave di decodifica culturale del messaggio.

Scartiamo intenzionalmente il concetto di “opinione pubblica”, perché l’epoca in cui la diffusione aurorale della stampa quotidiana produceva “opinione pubblica” è tramontata e i piani su cui si costruiscono le narrazioni condivise sono molteplici, a volte intersecati ma non sempre comunicanti.

La giornata delle spugnette dove la sinistra Mastrolindo è scesa in strada per ripulire la città è frutto della proposizione della tematica del bene comune in chiave nazional-popolare. Quella giornata, ben più degli scontri del Primo Maggio, ha messo in secondo piano la devastazione e saccheggio rappresentati dal modello Expo. L’appannata amministrazione Pisapia ha recuperato punti, l’Expo probabilmente meno.

Nelle prime ore dopo la manifestazione milanese i social media pullulavano di complottisti che ripetevano la noiosa litania sugli infiltrati nero vestiti: fortunatamente in meno di 24 ore questo argomento buono per tutte le stagioni è stato riassorbito in un dibattito meno banale. Il ricorrente comparire di queste tesi afferisce all’incapacità di confrontarsi con pratiche eccedenti la normalità: se c’è la lunga mano della questura tutto va a suo posto, non c’è lacerazione, non c’è divaricazione, non c’è conflitto, non c’è divisione tra buoni e cattivi, perché i “cattivi” sono ridotti al rango di burattini.
È un’interpretazione intrinsecamente rassicurante. Niente dibattito, niente confronto. I buoni sono buoni e i cattivi sono finti. Una favola triste e inutile.
Una favola che fa sempre meno presa sull’immaginario.

La narrazione sconfitta è stata quella delle assemblee che hanno costruito le giornate No Expo, il cui punto di arrivo e ri-partenza avrebbe dovuto essere il Primo Maggio milanese.
Un corteo comunicativo e conflittuale era la proposta per una may day che mettesse insieme, nello stesso spazio, una rappresentazione plurale dove l’agire comunicativo fosse condiviso da tutte le anime del corteo.
Una scommessa che il “riot” ha fatto saltare, svuotando di senso la giornata dei “blocchi” del 2 maggio e portando alla cancellazione dell’assemblea finale.
Il No Expo proseguirà, ma il momento magico della rappresentazione corale non potrà essere recuperato.
Forse era una scommessa impossibile, forse la rete No Expo ha tentato la quadratura del cerchio. Di certo sullo sfondo c’era un’aspettativa non detta ma sussurrata di bocca in bocca: il primo maggio a Milano il “riot” avrebbe riempito la scena. Forse era una storia già scritta. Forse.

Lo abbiamo messo con le virgolette “riot”. Lo abbiamo scritto in inglese perché se avessimo scritto sommossa, o rivolta sarebbe stata chiara a tutti la distanza tra le parole e le cose.

“Riot” ha invece in se la potenza semantica dell’immagine stereotipa che si riproduce di piazza in piazza, di continente in continente. Ragazzi mascherati, lacrimogeni, polizia, auto in fiamme e banche sfondate. Roba che ritorna a tutte le latitudini, tanto che qualcuno sta teorizzando il ritorno delle rivolte, senza accorgersi, che non hanno mai smesso di esserci.
L’immagine iconizzata del lancio della boccia parla la lingua del conflitto, racconta quello che ogni giorno non accade: è innegabilmente seduttiva per tanti, perché narra l’immediatezza di un agire che non rimanda ad altro, che si concreta nel subito, che ha in se il proprio fine: comincia e finisce con la vetrina infranta.
A due passi dagli scontri i supermercati erano aperti, un gelataio spalmava coni con un occhio alla strada, a Rho migliaia di volontari lavoravano per l’illusione di salire il mezzo scalino che divide i sommersi dai salvati.

La stessa retorica sulla distruzione dei simboli del potere e del capitalismo, la narrazione di alcuni settori di movimento, ha una logica debole, vista l’incomparabile distanza tra le infinite macerie del capitalismo e i vetri infranti nel centro di Milano.
La seduzione è nel gesto, non nella sua rappresentazione politica.
Su questo sentire che ha una propria intrinseca onestà c’è chi ha provato a giocare il vecchio gioco dell’egemonia. Ma è una tela dalla trama logora, che gioca sporco con i propri stessi compagni di “riot”, perché nega loro dignità politica, relegandoli nella sfera della spontaneità. Una spontaneità che non escludiamo si sia data in qualche occasionale processo imitativo ma è improbabile che sia appartenuta ai più.
Diciamolo chiaro: Milano non è Baltimora o Istanbul.
A Milano non c’è stata una sommossa ma un settore della piazza che per un’ora e mezza ha messo in scena la sommossa.
Lo diciamo con rispetto. Il rispetto dovuto a chi rischia, a chi è stato arrestato, a chi potrebbe perdere la propria libertà per anni. La vendetta dello Stato affina i propri strumenti e sarà segno della maturità dei movimenti che nessuno sia lasciato solo, che chi è nel mirino abbia sostegno attivo, perché nelle Procure stanno tessendo la rete delle prossime operazioni repressive.

Eravamo al corteo del Primo Maggio a Milano. E non siamo pentiti di esserci stati, anche se avevamo creduto alla scommessa di un corteo conflittuale e, insieme, comunicativo.

Eravamo in coda. Dietro a tutti, rioter compresi, e siamo arrivati sino in fondo.
Un corteo è un corteo. Doveva essere la rappresentazione collettiva delle lotte che in ogni dove danno corpo al mondo nuovo che vogliamo e che stiamo già costruendo, nel conflitto e nell’autogestione. Non lo è stato. Ci saranno altre occasioni, se sapremo costruirle.
Non ci interessano le vetrine rotte, ci interessa la storia che raccontano. Il fatto, nudo e crudo, è che quel settore della piazza milanese non era lo specchio di lotte reali ma il loro sostituto. Lo diciamo con l’umiltà di chi sa quanto sia arduo un percorso di lotta radicale, un percorso che osi mantenere chiara all’orizzonte l’urgenza dell’anarchia, l’urgenza di un mondo senza servi né padroni. Senza stati, né eserciti.
Lo diciamo con la chiara consapevolezza che quanto avvenuto ci interroga tutti sull’efficacia del nostro agire, sulle prospettive di lotta. Dobbiamo registrare un’assenza. Un’assenza pesante come un macigno, un’assenza che abbiamo visto evocare in questi anni da tanti compagni e compagne, intelligenti e generosi. Un’assenza che non possiamo ignorare. Manca la proiezione rivoluzionaria, manca la tensione a credere possibile un mondo realmente diverso da quello in cui siamo forzati a vivere. La precarietà iscritta nella materialità del vivere quotidiano, diviene condizione esistenziale, chiusura prospettica. Senza tensione ad un mondo altro, senza una rottura quotidiana dell’ordine imposto, il sasso che spezza il vetro, la molotov che brucia il macchinone bastano a se stessi.
Il problema non è il volo ma l’atterraggio: le lotte sui territori solo occasionalmente riescono a coniugare radicalità e radicamento.
Questa continua ad essere la nostra prospettiva, una prospettiva costitutivamente estranea a logiche egemoniche, perché allergica ad ogni forma di potere. E di contropotere.

La strada da fare è tanta. Il conflitto, quello vero, lo agiamo giorno dopo giorno nei territori dove viviamo e che attraversiamo. E ne conosciamo la difficoltà.
Il Primo Maggio sempre più gente va a lavorare.
Questa è la vera sconfitta che noi tutti abbiamo patito quest’anno: pochi hanno scioperato, perché le reti di sostegno a chi lotta sono troppo deboli, perché la divisione tra sfruttati ha aperto solchi profondi, perché la rappresentazione di un altro futuro, come di un AlterExpo deve ancora fare breccia nei cuori e nelle menti di tanti con cui, nei nostri quartieri, facciamo un pezzo di strada insieme.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

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Germanwings. Depressione e turbocapitalismo

Sono trascorsi più di dieci giorni dal disastro aereo nel quale sono morte 150 persone che viaggiavano sull’airbus 320 della Germanwings diretto da Barcellona a Dusseldorf.
Da quando è stata diffusa la notizia che la causa più probabile del disastro è stata la decisione volontaria del copilota Andreas Lubitz, che ha così ucciso se stesso e altre 150 persone, la notizia non ha mai lasciato le pagine dei giornali main stream. Questa mattina era ancora in prima pagina del Corriere e della Stampa. Al centro di tutto la minuziosa dissezione mediatica della cosiddetta “malattia mentale” del copilota, il rimpallo di responsabilità sulla mancanza di controlli, le richieste di maggiori misure di sicurezza. Nessuno, o quasi, ha provato a osservare la vicenda con gli occhi diversi. Ogni anno cresce la schiera dei suicidi, alcuni dei quali decidono di morire ammazzando anche qualcun altro. Nessuno o quasi ha notato che la depressione, la tristezza, il disagio del vivere siano una costante nelle nostre società, dove nessuno o quasi corrisponde agli stereotipi proposti dall’immaginario pubblicitario, che, per vendere un prodotto, vende, insieme, uno stile di vita ideale. Chi non è adeguato, chi non si sente all’altezza ne patisce. A volte il patimento diventa intollerabile.

Uno dei pochi a riflettere su questi temi è stato Franco Berardi, “Bifo”, che ha scritto un articolo, che è rimbalzato su blog e socialnetwork in modo virale.

L’info di radio Blackout lo ha sentito per una riflessione sulla vita quotidiana al tempo della precarietà. Precarietà del lavoro, della vita, del futuro.

Ascolta la diretta

Di seguito il suo articolo:

Nella cabina di pilotaggio

Dicono che il giovane pilota Andreas Lubitz avesse sofferto di crisi depressive e avesse tenuto nascoste le sue condizioni psichiche all’azienda per cui lavorava, la Lufthansa. I medici consigliavano un periodo di assenza dal lavoro. La cosa non è affatto sorprendente: il turbo-capitalismo contemporaneo detesta coloro che chiedono di usufruire dei permessi di malattia, e detesta all’ennesima potenza ogni riferimento alla depressione. Depresso io? Non se ne parli neanche. Io sto benissimo, sono perfettamente efficiente, allegro, dinamico, energico, e soprattutto competitivo. Faccio jogging ogni mattina, e sono sempre disponibile a fare straordinario. Non è forse questa la filosofia del low cost? Non suonano forse le trombe quando l’aereo decolla e quando atterra? Non siamo forse circondati ininterrottamente dal discorso dell’efficienza competitiva? Non siamo forse quotidianamente costretti a misurare il nostro stato d’animo con l’allegria aggressiva delle facce che compaiono negli spot pubblicitari? Non corriamo forse il rischio di essere licenziati se facciamo troppe assenze per malattia? 
Adesso i giornali (gli stessi giornali che da anni ci chiamano fannulloni e tessono le lodi della rottamazione degli inefficienti) consigliano di fare maggiore attenzione nelle assunzioni. Faremo controlli straordinari per verificare che i piloti d’aereo non siano squilibrati, matti, depressi, maniaci, malinconici tristi e sfigati. Davvero? E i medici? E i colonnelli dell’esercito? E gli autisti dell’autobus? E i conducenti del treno? E i professori di matematica? E gli agenti di polizia stradale? 
Epureremo i depressi. Epuriamoli. Peccato che siano la maggioranza assoluta della popolazione contemporanea. Non sto parlando dei depressi conclamati, che pure sono in proporzione crescente, ma di coloro che soffrono di infelicità, tristezza, disperazione. Anche se ce lo dicono raramente e con una certa cautela l’incidenza delle malattie psichiche è cresciuta enormemente negli ultimi decenni, e il tasso di suicidio (secondo il rapporto del World Health Organization) è cresciuto del 60% (wow) negli ultimi quarant’anni. 
Quaranta anni? E che potrà mai significare? Che cosa è successo negli ultimi quarant’anni perché la gente corra a frotte verso la nera signora? Forse ci sarà un rapporto tra questo incredibile incremento della propensione a farla finita e il trionfo del Neoliberismo che implica precarietà e competizione obbligatoria? E forse ci sarà un rapporto anche con la solitudine di una generazione che è cresciuta davanti allo schermo ricevendo continui stimoli psico-informativi e toccando sempre di meno il corpo dell’altro? Non si dimentichi che per ogni suicidio realizzato ce ne sono circa venti tentati senza successo. E non si dimentichi che in molti paesi del mondo (anche in Italia) i medici sono invitati a essere cauti nell’attribuire una morte al suicidio, se non ci sono prove evidenti dell’intenzione del deceduto. E quanti incidenti d’auto nascondono un’intenzione suicida più o meno cosciente? 
Non appena le autorità investigative e la compagnia aerea hanno rivelato che la causa del disastro aereo sta nel suicidio di un lavoratore che ha sofferto di crisi depressive e le ha tenute nascoste, ecco che in Internet si è messo in marcia il solito esercito di cospirazionisti. “Figuriamoci se ci credo”, dicono quelli che sospettano il complotto. Ci deve essere dietro la CIA, o forse Putin, o magari semplicemente un gravissimo errore della Lufthansa che ci vogliono tenere nascosto. Un vignettista che si firma Sartori e crede di essere molto spiritoso mostra un tizio che legge il giornale e dice: “Strage Airbus: responsabile il copilota depresso.” Poi aggiunge: Fra poco diranno che anche l’ISIS è fatta da depressi.” 
Ecco, bravo. Il punto è proprio questo: il terrorismo contemporaneo può avere mille cause politiche, ma la sola causa vera è l’epidemia di sofferenza psichica (e sociale, ma le due cose sono una) che si sta diffondendo nel mondo. Si può forse spiegare il comportamento di uno shaheed, di un giovane che si fa esplodere per uccidere una decina di altri umani in termini politici, ideologici, religiosi? Certo che si può, ma sono chiacchiere. La verità è che chi si uccide considera la vita un peso intollerabile, e vede nella morte la sola salvezza, e nella strage la sola vendetta.

Un’epidemia di suicidio si è abbattuta sul pianeta terra, perché da decenni si è messa in moto una gigantesca fabbrica dell’infelicità cui sembra impossibile sfuggire. Quelli che dappertutto vedono un complotto dovrebbero smetterla di cercare una verità nascosta, e dovrebbero invece interpretare diversamente la verità evidente. Andreas Lubitz si è chiuso dentro quella maledetta cabina di pilotaggio perché il dolore che sentiva dentro si era fatto insopportabile, e perché accusava di quel dolore i centocinquanta passeggeri e colleghi che volavano con lui, e tutti gli altri esseri umani che come lui sono incapaci di liberarsi dall’infelicità che divora l’umanità contemporanea, da quando la pubblicità ci ha sottoposto a un bombardamento di felicità obbligatorio, da quanto la solitudine digitale ha moltiplicato gli stimoli e isolato i corpi, da quando il capitalismo finanziario ci ha costretto a lavorare il doppio per guadagnare la metà.

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La rottura dell’ordine liberale, ovvero il diritto penale del nemico

Gli ultimi fatti giudiziari, che hanno coinvolto decine di compagni torinesi, attivi nel movimento antirazzista e nel movimento No Tav, mettono sul tavolo una questione cruciale: la sostanziale modifica del diritto penale liberale.

Al centro degli ultimi processi è stata posta la personalità dell’imputato, rendendola oggetto di valutazione in base a criteri di pericolosità sociale, al di là della condotta specifica. Il diritto penale liberale ha il suo cardine in due concetti chiave:
a) l’azione giudiziaria è rivolta verso la condotta del reo e non contro la persona dello stesso
b) gli imputati sono soggetti giuridici ovvero titolari di alcuni diritti inalienabili, sono persone inserite all’interno di un contratto sociale

Questi due principi, sulla cui effettività torneremo più avanti, vengono pesantemente messi in crisi dalla teoria del diritto penale del nemico, elaborata negli anni ottanta dal giurista tedesco Jakobs. Secondo Jakobs oltre al criminale comune, che è recuperabile alle regole del contratto sociale, esiste un’altra specie di criminale: il nemico. Costui non è recuperabile al contratto sociale e di conseguenza per proteggere la società (torneremo poi su questo concetto) è necessario neutralizzarlo. Una logica di guerra entra nel diritto penale.

Per definire la figura del nemico, che nella teoria di Jakobs rimane sempre molto vaga, forse volutamente, si deve ricorrere all’osservazione della personalità dell’imputato, alla sua messa a nudo da parte dei tribunali e di una pletora di esperti. A questi il compito di valutare se si è di fronte ad un semplice deviante o ad un nemico. Ma attenzione: chi definisce in termini politici il nemico? Chi indirizza l’azione giudiziaria? E qua torna un altro concetto forte della teoria politica occidentale: quello di sovranità. Infatti tocca al potere sovrano, quello dotato del potere di porre eccezioni, definire chi è il nemico. Il diritto penale del nemico è una visione fortemente politicizzata della teoria del diritto in quanto si basa sull’esercizio del potere di porre eccezioni da parte di chi detiene la sovranità. Sarà questi ad indicare di volta in volta quali i nemici, ovvero gli individui e le collettività costitutivamente avverse all’ordine costituito.
Costoro non saranno più soggetti titolari di diritti giuridici ma bensì nuda vita biologica soggetta ad una possibilità di violenza illimitata da parte del potere. È l’esatto contrario di quanto viene affermato dalla concezione liberale del diritto.

Per questa sua caratteristica di essere estremamente politico il diritto penale del nemico poggia fortemente anche sulla costruzione del nemico tramite il discorso pubblico. Il discorso pubblico italiano, che negli ultimi 15 anni è sostanzialmente virato a destra con la retorica sulla sicurezza e la legalità, ha già individuato da tempo quali sono i soggetti che vanno etichettati come nemici: coloro che hanno la disgrazia di essere contemporaneamente immigrati e poveri, ovvero forza lavoro esclusa dalle tutele conquistate dai movimenti sociali. La legislazione differenziale su cui si basano i CIE-CPT è modellata intorno alla concezione di nemico. Una volta individuata la classe di individui che vanno considerati come nemici, la detenzione, con i suoi corollari di tortura, morte, ed l’espulsione ovvero sia i processi di neutralizzazione fisica diventano semplici passaggi amministrativi, mera contabilità per tanti piccoli Eichmann della burocrazia.
E non faccio il paragone con il contabile della shoa a caso: la detenzione amministrativa, l’individuazione di categorie sociali come nemiche, la riduzione di soggetti a nuda vita biologica sottoposti a violenza illimitata, sono quanto esplicitato dal nazismo.
Ma attenzione: fuor di retorica questo è quanto succede di norma all’interno delle logiche capitaliste che vedono gli individui come portatori di forza lavoro da mettere a valore e basta. Il nazismo, e non solo lui, ha semplicemente esplicitato queste dinamiche portandole all’estremo e, in questo, ha prodotto scandalo.

Il diritto penale del nemico, per quanto teorizzato in modo sistematico solo negli ultimi decenni, è presente sottotraccia in tutta la storia contemporanea. E non solo a livello teorico, si pensi a Carl Shmidt, ma anche a livello fattuale: il codice Rocco del 1936 con le sue misure di sorveglianza speciale, ereditate in buona parte dal diritto repubblicano, è sostanzialmente basato sul concetto di nemico. E anche lo stesso codice Zanardelli del 1897, la pietra angolare del diritto liberale italiano, contiene al suo interno dispositivi repressivi per le classi pericolose basati sul concetto di nemico.

Le leggi sono il precipitato normativo dei rapporti di forza presenti nella società. Non sono concezioni che discendono dall’empireo platonico per farsi norma tramite l’opera di qualche demiurgo. Negli ultimi 40 anni abbiamo assistito ad una mitigazione delle concezioni più dure delle teorie giuridiche perché i rapporti sociali messi in campo dai movimenti sociali e la così detta “società civile”, intesi qua nella loro concezione più larga, dalle organizzazioni più o meno rivoluzionarie a pezzi della borghesia progressista come il Partito Radicale, erano tali da poter imporre delle garanzie all’interno dei procedimenti giuridici. Garanzie ipocrite, parziali, insufficienti e tutto fuor di dubbio. Ma comunque garanzie. Con la crisi dei movimenti sociali a fine anni ’70 e il disimpegno degli anni ’80 si è potuto assistere ad un prepotente ritorno delle concezioni più dure del diritto: la guerra alle formazioni lottarmatiste, l’introduzione delle leggi sul pentitismo, l’ingresso dello psicologo nelle carceri per analizzare la personalità dei rei politici e decidere su di una loro recuperabilità al consesso sociale, l’applicazione dello stato di eccezione permanente ovvero della sovranità.
E non è un caso che in momento di profonda ristrutturazione degli assetti politici e sociali dell’occidente ci sia anche in Europa un ritorno di queste concezioni, che hanno ricevuto una formalizzazione e una sistematizzazione solo in tempi recenti ma sono state un sottotraccia e una costante di tutta la storia contemporanea.

La necessità di difesa della società teorizzata da Jakobs è in realtà la necessità di difendersi delle classi dominanti. Negli ultimi 15-20 anni coloro che sono stati stigmatizzati come nemici sono stati gli immigrati, oggi cominciano ad esserlo tutti gli oppositori sociali e domani? Di fronte ad una disoccupazione costantemente a due cifre e alla marginalizzazione di fasce sempre più ampie di popolazione chi sarà individuato come nemico, ovvero come non recuperabile e disciplinabile (o non facilmente tale) ai processi di accumulazione di capitale?

Bisogna difendere la società? Si, certamente: dall’attacco messo in atto costantemente dallo Stato e dal capitale.

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Soggettività e conflitto

Lo sciopero generale del 14 novembre ha innescato un vivace dibattito sulle forme del conflitto, sul determinarsi delle soggettività, sulla territorializzazione delle lotte, sulla condizione precaria e sullo strumento stesso dello sciopero.
Vi rimandiamo alle cronache torinesi e ad un articolo uscito su Umanità Nova, che ha provato a tematizzare le questioni sul tappeto. Anarres, prendendo spunto dalle cronache e dalle riflessioni sul 14N, ha aperto un dibattito, che ci auguriamo il più possibile aperto, approfondito, plurale.
Un primo confronto si è aperto con Salvo Vaccaro docente di filosofia politica all’Università di Palermo.

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A margine del 14N. Esodo conflitto autogestione

Esodo, autogestione, conflitto
Senza servi, niente padroni

Renzi ha calato le sue carte. Carte pesanti che incideranno nel profondo nella carne viva di chi, per vivere, deve lavorare.
Nel nostro paese i numeri dei disoccupati, dei precari, dei senza casa, dei senza futuro non sono statistica ma innervano il tessuto sociale, attraversando le vite di chi deve fare i conti con i fitti non pagati, le rate che scadono, le bollette sempre più care, la spesa per i figli a scuola. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Quest’anno gli asili – troppo cari – non si sono riempiti; i malati rinunciano alle cure e alla prevenzione per non pagare i ticket, tanti non riescono a pagare il fitto e finiscono in strada.
Chi resiste agli sfratti, chi occupa le case vuote rischia la galera o il manganello. Esemplari in tal senso le vicende di Roma e Torino e quella, recentissima, del Giambellino a Milano.
Le reti familiari, smagliate e indebolite, non riescono più a reggere il peso della solidarietà sociale, sempre forte, nonostante l’appeal degli slogan del Presidente del consiglio.
Il suo gioco è abile. Dopo decenni di erosione di libertà, quei pochi che ancora ne godono vengono dipinti come “vecchi” privilegiati. Chi è nato precario, chi ha una laurea e risponde al telefono in un call center, chi finisce l’apprendistato e viene sostituito da un altro apprendista, non ha mai avuto la tutela dell’articolo 18.
Dopo aver demolito un sistema di garanzie costruito in decenni di lotte – quando l’ammortizzazione del conflitto era l’unico modo per contenere la lotta di classe – oggi il PD targato Renzi, sta chiudendo gli ultimi conti, cercando di contrapporre i figli disoccupati ai padri costretti a lavorare sino alla tomba.
E’ la fine di ogni finzione socialdemocratica. I figli della crisi stanno imparando ad attraversarla, agendo forme di conflitto che provano a ri-definire un terreno di lotta che getti la questione sociale nel tessuto vivo delle nostre città. Una strada ancora in salita in cui la violenza della polizia si intreccia con la rassegnazione di tanti. Ancora troppi.
Il movimento di lotta per la casa è il segno – per ora ancora troppo debole – di un agire che si emancipa dal piano meramente rivendicativo e scende sul terreno della riappropriazione diretta.
I facchini che bloccano i gangli della circolazione delle merci, ultimo nodo materiale nella smaterializzazione e parcellizzazione delle produzioni e dei contratti, dimostrano che è possibile mettere in difficoltà i padroni, quando si riesce a disarticolare un punto sensibile.

Lo spettro della Grecia
La retorica dell’antipolitica, il populismo più becero, la paura del grande complotto, alibi per le destre di ogni dove, comunque si coniughino nella geografia dei giochi parlamentari, mostrano una trama già logora, ma continuano a sedurre.
Più consistente è il pericolo della destra sociale, che alimenta steccati e soffia sul fuoco della guerra tra poveri. Se non sapremo creare un ponte tra soggetti sociali separati da anni di frammentazione fisica e culturale, se non sapremo intrecciare le pratiche e i percorsi, rischiamo una rivolta sociale di destra.
Il segnale delle piazze dei forconi è stato forte e chiaro. Il fascino dei blocchi selvaggi ha sedotto certa sinistra, che gode delle rotture di piazza nonostante tricolori e saluti romani, ma non è certo riuscita a mutare di indirizzo alla protesta dello scorso anno, cavalcata con facilità dalle destre. Sarebbe molto miope non vedere che, oltre la rivolta fiscale, c’é un immaginario che si nutre di militari al potere. Quelle piazze sono affondate nel ridicolo ma presto potremmo avere il discutibile piacere di un bis. Il buon Marx sosteneva che la storia, quando si ripete, declina in farsa la tragedia: nulla osta che una farsa non possa invece volgersi in tragedia.
Le adunate di Salvini, la campagna contro i rom e gli immigrati, gli assalti al centro per rifugiati di Tor Sapienza, la campagne d’odio che serpeggiano selvagge per la rete, sono una campana d’allarme che richiede riflessione e iniziativa.
I successi dell’estrema destra più violenta in Grecia sono un monito che non possiamo ignorare. Le periferie povere e rabbiose sono il terreno di coltura per fascisti e razzisti. Gli ultimi, gli immigrati, i senza tetto diventano il capro espiatorio per i tutti i mali.
Si tratta, senza indulgere ai facili populismi di certa sinistra in cerca d’autore, di insistere sulla pratica della partecipazione diretta e sulla possibilità di fare da se nella solidarietà.
L’occupazione del comune di Carrara e la nascita di un’assemblea di cittadini avrebbe potuto avere ben altro esito se non fosse stata innervata da una chiara proposta libertaria.

La partita di Camusso e soci
Questo governo sta puntando in modo secco sulla repressione del conflitto sociale e chiude i conti con la lunga stagione della concertazione.

Questo spiega perché il sindacalismo di Stato, la CGIL, la CISL e la UIL, siano nel mirino del rottamatore.

Renzi vuole che CGIL si rassegni ad una secca perdita di status e colpisce gli interessi materiali del sindacato.

Camusso, dopo le legnate ai funzionari della Fiom, ha infine indetto sciopero. La CGIL gioca una partita la cui posta è bloccare i tagli a distacchi e finanziamenti, i lucrosi spazi di cogestione che Renzi sta attaccando. Resterà da vedere se i tanti iscritti al maggiore sindacato italiano non sapranno esprimere un protagonismo che vada al di là della mera difesa della burocrazia sindacale.
La scelta della FIOM di scioperare il 14 in contemporanea con il sindacalismo di base e quella di Camusso di annunciare lo sciopero due giorni prima del 14, ha riportato nei ranghi settori di CGIL che avrebbero aderito allo sciopero indetto dai sindacati più conflittuali.
Gli scioperi tardivi della CGIL non devono farci dimenticare che il precariato e il caporalato legale, sono stati sdoganati con gli accordi del 31 luglio 1993 e del 3 luglio 1994. I vent’anni di tabula rasa di diritti e tutele che sono seguiti li hanno sempre visti in prima fila.
L’auspicio è che sempre più lavoratori non si rassegnino al recinto del sindacalismo di Stato.
I sindacati di base scontano tuttavia una certa difficoltà a confrontarsi con le problematiche emergenti dalla condizione precaria. Lo slogan dello sciopero sociale al momento è una mera suggestione che agisce sul piano dell’immaginario, ma, su un terreno più pratico, trova sponda ancora nella CGIL. Questa sponda potrebbe cedere come gli argini dei nostri fiumi strangolati dal cemento, di fronte a pratiche diffuse di solidarietà attiva, che diano impulso forte alle lotte dei precari, dei disoccupati, dei senza casa.

Oltre la crisi. Conflitto e autogestione
La crisi e la macelleria sociale che ci è stata imposta, la perdita irreversibile di un ampio sistema di garanzie e tutele, la fine dello scambio socialdemocratico tra sicurezza e conflitto, potrebbero offrirci nuove possibilità. Possibilità inesperite da lungo tempo, seppellite nelle pieghe della memoria della lotta di classe, dello scontro con la struttura gerarchica della società e della politica.
Negli ultimi anni abbiamo assistito all’abbozzarsi di reti territoriali, che intrecciano legami solidali nella pratica quotidiana, nella relazione diretta, nella costruzione di percorsi di esodo conflittuale dall’istituito.
La scommessa è costruire nel conflitto, fare dell’esodo, della fuoriuscita dalla morsa delle regole del capitalismo e dello Stato, il punto di forza per l’estendersi delle lotte.
Uno spazio pubblico strappato alla delega democratica, che in alcune occasioni si è creato nelle lotte per la difesa del territorio, è stato laboratorio di idee e proposte radicali. Aumentano coloro che riconoscono l’incompatibilità tra capitalismo e salute, tra capitalismo e futuro, offrendo spazi all’emergere di un immaginario, che mette all’ordine del giorno, come necessità di sopravvivenza, la rottura dell’ordine della merce.
Le lotte contro gli sfratti e per l’occupazione di spazi vuoti spesso non si limitano a cercare di sottrarre alcuni beni al controllo del mercato, ma negano legittimità alla nozione stessa di proprietà privata.
La fine delle tutele apre uno spazio – simbolico e materiale – per riprenderci le nostre vite, sperimentando i modi per garantirci salute, energia, cura degli anziani e dei bambini fuori e contro il recinto statuale. La scommessa è tentare percorsi di autonomia che ci sottraggano al ricatto del “peggio”, ai processi di servitù volontaria (leggi, ad esempio, lavori/tirocini/stage non pagati etc.), alla continua evocazione dell’apocalisse che abbatte chi non segue i diktat della politica nell’epoca del liberismo trionfante, della finanza anomica, della logica del fare per il fare, perché chi fa mette in moto l’economia, fa girare i soldi, “crea” ricchezza.
Sappiamo che questa logica “crea” solo macerie.
Lasciamo che Renzi e i suoi le spalino, noi abbiamo un mondo nuovo nei nostri cuori, nelle nostre teste, nelle nostre braccia.
Maria Matteo

(quest’articolo è uscito sul settimanale Umanità Nova)

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Senza servi, niente padroni

Renzi ha calato le sue carte. Carte pesanti che incideranno nel profondo nella carne viva di chi, per vivere, deve lavorare.
Il vertice sul lavoro convocato proprio a Torino – dove i numeri dei disoccupati, dei precari, dei senza casa, dei senza futuro – non sono statistica ma innervano il tessuto sociale, attraversando le vite dei più, è uno schiaffo a mano aperta a tanta parte della nostra città.
Le reti familiari, smagliate e indebolite, non ce la fanno più a reggere il peso della solidarietà sociale, sempre forte, nonostante l’appeal degli slogan del Presidente del consiglio.
Il suo gioco è volgare ma abile. Dopo decenni di erosione di libertà, quei pochi che ancora ne godono possono essere dipinti come “vecchi” privilegiati. Chi è nato precario, chi a trent’anni ha una laurea e risponde al telefono, chi a 29 si ritrova ad essere un apprendista licenziato per sempre, non ha mai conosciuto le tutele dell’articolo 18.
Dopo aver demolito un sistema di garanzie costruito in decenni di lotte – quando l’ammortizzazione del conflitto era l’unico modo per contenere la lotta di classe – oggi il PD targato Renzi, sta chiudendo gli ultimi conti, cercando di contrapporre i figli disoccupati ai padri costretti a lavorare sino alla tomba.
E’ la fine di ogni finzione socialdemocratica. I figli della crisi stanno imparando ad attraversarla, agendo forme di conflitto che provano a di ri-definire un terreno di lotta che getti la questione sociale nel tessuto vivo delle nostre città. Una strada ancora in salita in cui la violenza della polizia si intreccia con la rassegnazione di tanti. Ancora troppi.
Il movimento di lotta per la casa, i facchini che bloccano i gangli della circolazione delle merci, ultimo nodo materiale, nella smaterializzazione e parcellizzazione delle produzioni e dei contratti, sono i segni – per ora ancora troppo deboli – di un agire che si emancipa dal piano meramente rivendicativo e scende sul terreno della riappropriazione diretta.
La crisi e la macelleria sociale che ci è stata imposta ci offrono possibilità inesperite da lungo tempo, seppellite nelle pieghe della memoria della lotta di classe, dello scontro con la struttura gerarchica della società e della politica.
La perdita irreversibile di un ampio sistema di garanzie e tutele, la fine dello scambio socialdemocratico tra sicurezza e conflitto, potrebbe offrirci nuove possibilità.
La retorica dell’antipolitica, il populismo più becero, la paura del grande complotto, alibi per le destre di ogni dove, comunque si coniughino nella geografia dei giochi parlamentari, seducono sempre meno, mostrando una trama già logora
Il sindacalismo di Stato, la CGIL, la CISL e la UIL, sono nel mirino del rottamantore: quando la repressione prende il posto della concertazione, il grande corpo flaccido del sindacato statalizzato deve rassegnarsi ad una secca perdita di status, pena la fine dei lucrosi spazi di cogestione che gli sono stati regalati negli ultimi vent’anni. Camusso che minaccia lo sciopero generale ma organizza una passeggiata romana, è come il pastore che grida al lupo quando le pecore sono già morte tutte.
Sempre meno lavoratori si rassegnano al recinto del sindacalismo di Stato, saltando lo steccato.
Gli scioperi tardivi della Fiom non devono farci dimenticare che il precariato e il caporalato legale, sono stati sdoganati con gli accordi del 31 luglio 1993 e del 3 luglio 1994. I vent’anni di tabula rasa di diritti e tutele che sono seguiti li hanno sempre visti in prima fila.
Negli ultimi anni abbiamo assistito al moltiplicarsi di reti territoriali, che intrecciano legami solidali nella pratica quotidiana, nella relazione diretta, nella costruzione di percorsi di esodo conflittuale dall’istituito.
La scommessa è costruire nel conflitto, fare dell’esodo, della fuoriuscita dalla morsa delle regole del capitalismo e dello Stato, il punto di forza per l’estendersi delle lotte.
Uno spazio pubblico strappato alla delega democratica, che in alcune occasioni si è creato nelle lotte per la difesa del territorio, è stato laboratorio di idee e proposte radicali. Aumentano coloro che riconoscono l’incompatibilità tra capitalismo e salute, tra capitalismo e futuro, offrendo spazi all’emergere di un immaginario, che mette all’ordine del giorno, come necessità di sopravvivenza, la rottura dell’ordine della merce.
Le lotte contro gli sfratti e per l’occupazione di spazi vuoti spesso non si limitano a cercare di sottrarre alcuni beni al controllo del mercato, ma negano legittimità alla nozione stessa di proprietà privata.
La fine delle tutele apre uno spazio – simbolico e materiale – per riprenderci le nostre vite, sperimentando i modi per garantir(ci) salute, energia, cura degli anziani e dei bambini fuori e contro il recinto statuale. La scommessa è tentare percorsi di autonomia che ci sottraggano al ricatto del “peggio”, ai processi di servitù volontaria (leggi, ad esempio, lavori/tirocini/stage non pagati etc.), alla continua evocazione dell’apocalisse che abbatte chi non segue i diktat della politica nell’epoca del liberismo trionfante, della finanza anomica, della logica del fare per il fare, perché chi fa mette in moto l’economia, fa girare i soldi, “crea” ricchezza.
Sappiamo che questa logica “crea” solo macerie.
Lasciamo che Renzi e i suoi le spalino, noi abbiamo un mondo nuovo nei nostri cuori, nelle nostre teste, nelle nostre braccia.

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17 ottobre – Gentrification, militarizzazione, buoni affari… La Torino globale del PD

Venerdì 17 ottobre
ore 21
corso Palermo 46
incontro su

Gentrification, militarizzazione, buoni affari…
La Torino globale del PD

video “Gentrification a Berlino”

Interventi di:
Simone Ruini – i processi di gentrificazione – urbanistica e questione sociale
Matteo Barale – militarizzazione dei quartieri, la gentrificazione a San Salvario e Barriera, il ruolo delle fondazioni e dell’Urban Center –
Walter Modonesi – il piano regolatore di Torino compie vent’anni – dalla città dell’auto al baraccone “always on the move” tra sport, arte, cibo –
Urbanisti ed architetti che ci racconteranno della nostra città e delle macerie dietro alla vetrina della stimata coppia Chiamparino/Fassino.

Costruiamo la città solidale, prendiamoci gli spazi per vivere, ballare, giocare, far crescere i bimbi, fare le cose che ci servono, senza padroni né governi.

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Cronache Valsusine. La marcia No Tav

A giugno la marcia No Tav da Avigliana a Chiomonte era poco più di un’idea, un’idea semplice ma nuova. Il movimento l’ha organizzata in meno di un mese: una boccata di aria fresca dopo tanto tempo.
Dopo quattro estati passate tra Chiomonte e Venaus, attraversare la valle da est a ovest con una marcia che toccasse i luoghi della lotta, i presidi, i paesi, incontrando la gente nei mercati e per le strade era un’ipotesi che ha raccolto un’adesione immediata di tanti uomini e donne del movimento.

Un’occasione per scambiarsi idee, confrontarci sui prossimi orizzonti di lotta, spezzare l’incantesimo della Clarea, il luogo scelto dallo Stato per di-mostrare tutta la propria forza. Un posto lontano dal paese, imprigionato dentro un perimetro militarizzato ben più ampio del cantiere, un luogo dove il sondaggio vero è un sondaggio politico sulla resistenza del movimento. Lì i No Tav hanno scritto pagine importanti della loro storia di resistenza, lì hanno anche toccato il limite di un agire concentrato solo tra le fortificazioni e i boschi di Clarea. La scelta di allargare il perimetro della lotta, sin dall’occupazione dell’autostrada del dicembre del 2011, ha dimostrato le potenzialità dell’azione diretta popolare. Lì siamo tornati anche quest’anno dopo aver attraversato la valle. Lungo il cammino, tra un pranzo condiviso e una serata di approfondimento sono state fatte azioni dirette facili ma radicali nell’investire il dispositivo del cantiere, le ditte collaborazioniste, l’occupazione militare nel suo complesso.

Giovedì 17 luglio. Serata inaugurale in piazza del Popolo ad Avigliana: tanti banchetti, interventi e la musica di Alessio Lega e della Ice Eyes band hanno dato il la al campeggio itinerante.

Venerdì 18 luglio. Primo giorno di marcia: si segue la ciclabile sino a Sant’Ambrogio e poi di lì sino all’ingresso della cava della famiglia Toro. Giovanni Toro è stato di recente arrestato per ‘ndrangheta. Con lo smarino ci faceva il cemento che è servito per la strada nel cantiere di Chiomonte. L’impresa di Toro, nonostante fosse priva di certificato antimafia, ha lavorato in Clarea sin dall’autunno del 2011.
Sul muro di cinta è stata tracciata una grande scritta “Via gli avvelenatori dai territori”. Il cancello di ingresso è stato chiuso da una grossa catena.
In serata assemblea, video e cena offerta dal presidio di Vaie.
L’assemblea si è tenuta sulle fondamenta del nuovo presidio, che presto prenderà il posto di quello bruciato dai Si Tav lo scorso 11 novembre. Lo stesso giorno era morto Pasquale, un No Tav la cui forza e generosità non verrà dimenticata.

Sabato 19 luglio. La marcia arriva a Sant’Antonino. Il sabato è giorno di mercato: banchetti, volantini e interventi. Si prosegue per Villarfocchiardo, dove ai giardini De André il comitato del paese ha preparato il pranzo. Nel tardo pomeriggio si arriva nel piazzale del vecchio autoporto di San Didero, dove vogliono spostare l’autoporto di Susa per fare spazio al cantiere dell’alta velocità. Dopo una breve sosta al presidio, l’assemblea e un approfondimento sulla guerra in Medio Oreinte, la pioggia ci obbliga a spostarci al Polivalente di San Didero, che sarà il nostro rifugio per due sere consecutive.
Cena trentina dei No Tav/Kein BBT per finanziare l’acquisto di terreni nelle zone dove vogliono costruire la nuova linea ad alta velocità sino al Brennero.
La serata è dedicata all’incontro con gli esponenti dei movimenti che lottano contro la devastazione dei territori, la predazione delle risorse e il militarismo.
Un’assemblea molto densa, in cui si incrociano i No Tav di Trieste e del Carso che hanno vinto la loro battaglia, quelli del terzo valico che resistono agli espropri e alla repressione, i No Muos, che nonostante le antenne siano state montate, hanno lanciato una settimana di campeggio e una manifestazione a Niscemi con il chiaro intento di mettere i bastoni tra le ruote all’esercito statunitense, i No F35 che lottano contro la fabbrica di morte sorta a Cameri, i No expo che cercheranno di inceppare la macchina del mega affare. Non poteva mancare un intervento dei No Tav piemontesi nella consapevolezza che il mutuo soccorso tra le lotte, il reciproco appoggio, il blocco stradale come la serata informativa, intrecciano fili solidali che gli apparati repressivi e la pressione mediatica faticano a sciogliere.

Domenica 20 luglio. Un folto gruppo di No Tav provenienti dal presidio di San Didero, hanno allungato le loro bandiere sui binari. Quando la notizia è arrivata ai responsabili della linea il TGV è stato fermato in alta valle. Come sempre sono stati fatti passare i treni locali.
Il TGV ha accumulato 90 minuti di ritardo. Un piccolo gesto di solidarietà concreta con i tre ferrovieri morti il 17 luglio nei pressi della stazione di Butera, lungo la linea Gela Licata.
I tre, tutti operai anziani ed esperti sono stati travolti da uno dei sei treni che percorrono questa linea lasciata a seccare in attesa della chiusura.
Un incidente? No. Un omicidio di Stato.
I responsabili sono tutti i governi che negli ultimi vent’anni hanno investito nell’alta velocità, tagliando ogni investimento per la manutenzione delle linee, per il personale, per la sicurezza di tutti.
A mezzogiorno pranzo offerto dai No Tav del presidio di San Didero, che in serata verranno sostituiti dai “ragazzi” di Borgone. Nel pomeriggio gita culturale al Maometto e, come ogni giorno, assemblea. In serata i più raffinati hanno gustato l’ironia “sottile” di Filippo.

Lunedì 21 luglio. La marcia arriva a Bussoleno. Nel pomeriggio, dopo l’assemblea quotidiana, musica in piazza, cena offerta dai No Tav del comitato locale e assemblea popolare.
Grande partecipazione nel palaNoTav del paese. La forte solidarietà per i sette No Tav in carcere con l’accusa di terrorismo si è espressa nei calorosi applausi che hanno accolto le lettere di Chiara e Francesco. L’assemblea è stata occasione per un ragionare più ampio sulle prospettive di lotta del movimento in vista dell’avvio dei cantieri in bassa valle.

Martedì 22 luglio. La marcia No Tav raggiunge Susa, passando per Foresto, dove alcuni sindaci ribadiscono la contrarietà all’opera, mentre la maggior parte dei marciatori ascolta Luca Giunti, che illustra il progetto nell’area. Nel pomeriggio la marcia raggiunge il presidio di San Giuliano a Susa, dove viene allestito l’accampamento. Prima della cena offerta dal comitato di Susa Mompantero c’è l’inaugurazione della nuova facciata del Presidio.
Un bel murale su parete mobile con la scritta “Il Sole in un Baleno”. Un momento emozionante, specie per chi, tra i No Tav, era stato amico e compagno dei due anarchici, morti suicidi mentre erano detenuti con l’accusa di associazione sovversiva.
In serata spettacolo teatrale sul carcere e i canti anarchici dell’Anonima Coristi in piazza del Sole nel centro di Susa. Sulla via del ritorno i No Tav fanno un prolungato e rumoroso saluto alle truppe di occupazione ospitate all’hotel Napoleon.

Mercoledì 23 luglio. Alle prime ore dell’alba i No Tav raggiungono le sedi delle ditte Martina e Italcoge, ditte collaborazioniste sin dalla prima ora nell’allestimento del cantiere/fortino della Maddalena.
Un paio d’ore di blocco, una scritta sull’asfalto, slogan e un paio di azioni dirette hanno caratterizzato la giornata di lotta. Un No Tav si è introdotto nel cortile della ditta danneggiando un mezzo, altri anonimi hanno chiuso con una catena l’ingresso.
Dall’alto della piccola altura che sovrasta il centro storico della città è stato appeso uno striscione gigante “No Tav liberi”.
La marcia è poi proseguita alla volta di Venaus, dove c’è stato un veloce blocco dell’autostrada ed ed è stato issato un grande striscione in solidarietà con i tre No Tav arrestati l’11 luglio con l’accusa di aver partecipato all’azione di sabotaggio al cantiere di Clarea il 14 maggio 2013.
Nelle stesse ore, al tribunale di Torino, si svolgeva l’udienza del Riesame, che il giorno successivo ha confermato la detenzione cautelare in carcere per Francesco, Graziano e Lucio.

Giovedì 24 luglio. Giornata di pulizia dei sentieri in Clarea in vista della marcia notturna.
Dopo la consueta assemblea i No Tav raggiungono Giaglione, dove, intorno alle nove e mezza parte la marcia notturna.
Una parte dei No Tav raggiunge il Clarea e fronteggia i poliziotti che bloccano il ponte sino alle undici e mezza, poi si ritirano dopo il sottopasso dell’autostrada, per evitare di restare intrappolati tra le truppe in Clarea e quelle riversate dai blindati al cancello dell’autostrada. Qui più tardi verranno ripetutamente gasati dalla polizia. Il gas si spande anche a Giaglione, dove un presidio No Tav attendeva il ritorno dalla marcia. Un gruppone più grande prende la via dei sentieri alti e riesce a guadare il Clarea nonostante la polizia avesse tolto il ponte di assi. Tra la mezza e l’una e mezza i No Tav offrono uno spettacolo pirotecnico degno di Napoli a Capodanno. Gli uomini e le donne in divisa non gradiscono e sparano lacrimogeni a manetta.
Nel frattempo un altro gruppo di No tav riesce a bloccare l’autostrada in direzione Torino con pneumatici incendiati. I lavori al cantiere vengono bloccati sino alla mattina successiva per ragioni di “ordine pubblico”.
Intorno alle due e mezza tutti ritornano a Giaglione.

Venerdì 25 luglio. Giornata tranquilla, assemblea umida e cena sotto la pioggia battente. Il sindaco apre il salone “8 dicembre” consentendo i due momenti di approfondimento previsti per la serata. Aprono Alfonso e Lorenzo sul nucleare, raccontano dei trasporti di scorie nucleari di ritorno in Italia dopo il riprocessamento a Sellafield e La Hague. In primo piano la costruzione del deposito nazionale delle scorie, la dismissione delle centrali nucleari, nuova frontiera nel business dell’atomo. Si parla dei blocchi dei treni e della necessità di rendere più efficace l’informazione e, quindi, anche le azioni dirette sul territorio. Una questione importante sulla quale bisognerà tornare.
La seconda parte della serata è stata dedicata all’appello di alcuni No Tav tedeschi per giornate di lotta in autunno per l’inaugurazione della nuova sede della BCE a Francoforte.
Un lungo confronto con la partecipazione di tante realtà di lotta europee, dai francesi che si oppongono al nuovo aeroporto di Nostre Dame de Landes, ai catalani di Sants sino a gruppi impegnati nella Patagonia argentina. Difficile la sintesi, perché molti preferivano altri terreni di lotta alla vetrina dei controvertici.

Sabato 26 luglio. Il sole accompagna la marcia popolare dei No Tav da Giaglione a Chiomonte: una lunga camminata su per i sentieri alti, per aggirare il blocco della polizia prima del sottopasso sull’autostrada. C’è la gente delle grandi occasioni, famiglie con bambini ed anziani: passare da lì è vietato, ma nessuno si perde d’animo. Tutti anche quest’anno vogliono dimostrare concretamente che la resistenza non si ferma: gli arresti e le accuse di terrorismo non bloccano un popolo deciso a liberarsi dall’occupazione militare.
Un gruppo di over 50, autonominatosi la “Brigata Pannolone”, decide di fronteggiare la polizia in basso. I jersey vengono aggirati, la polizia si ritira sul ponte, dove il gruppone decide di passare la notte. Turi riesce a guadare il fiume sotto il ponte, ad arrampicarsi oltre il filo spinato e a strappare qualche filo in un’azione di sabotaggio simbolico.
Quando le notizie dalla Clarea arrivano a Chiomonte, i No Tav si dirigono al cancello della centrale per una battitura di solidarietà. Dopo una decina di minuti la Digos ordina di muovere il camion cisterna che colpisce i manifestanti con potenti getti d’acqua. La doccia non dissuade i No Tav: la polizia spara lacrimogeni.
Alla notizia che Turi è stato liberato i No Tav tornano nell’area Gravella e riparte la musica.
Molti raggiungono con cibo e vino la Brigata Pannolone che lascerà la Clarea solo alle 10 del mattino successivo.

Domenica 27 luglio. Il campeggio itinerante si conclude con un’assemblea al presidio di Venaus. Il giudizio di chi interviene è sostanzialmente positivo.

Come non essere d’accordo? Una strada nuova è stata aperta, nella consapevolezza che il percorso sarà ancora accidentato ma, se sapremo moltiplicare la nostra presenza in ogni dove, rendere nuovamente ingovernabile questo territorio è possibile. Dipende da noi, da ciascuno di noi, dalla nostra capacità di metterci in gioco, di gettare manciate di sabbia nel motore di chi devasta e militarizza i nostri territori.
Continueremo a mettere i bastoni tra le ruote di chi ha chiuso tra quattro mura nove di noi.
Senza dimenticare mai quelli che non ci sono più, ma hanno contribuito a lastricare la nostra strada di “cattive” intenzioni.

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