Categoria: internazionale

La caduta di Afrin, le piazze solidali di Torino

La caduta di Afrin, le piazze solidali di Torino

Dopo Afrin, il sultano punta a Mambij e Kobane
Il 18 marzo Afrin è stata occupata dalle truppe turche e dalle milizie islamiste. I media italiani le chiamano “Esercito Libero”, una sigla che raccoglie varie formazioni salafite: la più nota è Jabhat Al-Nusra, la branca siriana di Al Qaeda. Gli abitanti dopo 55 giorni sotto le bombe sono stati costretti ad abbandonare la città.
Gli invasori hanno tagliato l’acqua, l’elettricità, distrutto gli ospedali, per obbligare la popolazione curdofona ad andare in esilio.
Erdogan già annuncia il ritorno in Siria di profughi arabi e di curdi jihadisti per sostituire la popolazione messa in fuga con il terrore.
I profughi sopravvivono in condizioni durissime, grazie alla solidarietà della gente del cantone vicino dove si sono rifugiati.
Il tributo di sangue per la difesa di questa enclave dove si sperimentavano relazioni politiche e sociali anticapitaliste, femministe ed ecologiste è stato altissimo.
Afrin non è tuttavia ancora pacificata, perché continuano le azioni di guerriglia delle milizie YPG e YPJ e SDF.
Erdogan ha intenzione di attaccare Kobane, Mambij e tirare dritto sino al Kurdistan iracheno.
Russia, Iran e Turchia stanno trattando la spartizione: il futuro della Siria dipenderà anche dagli accordi che verranno stipulati, tra (ex) nemici.
Ma il quadro si chiarirà solo quando gli Stati Uniti scopriranno le loro carte. Manterranno gli impegni presi con i curdi siriani, il cui contributo alla sconfitta dell’Isis è stato decisivo in molte battaglie, prima tra tutte quella di Raqqa, o lasceranno mano libera all’ingombrante alleato turco?
Nel frattempo il PKK, per evitare l’attacco turco su Senjal, l’area curdofona di religione Yezida, ha annunciato il ritiro delle proprie truppe e la riconsegna dell’area al governo iracheno.

In queste settimane si sono moltiplicate le iniziative di piazza e le azioni dirette in solidarietà con la popolazione del Rojava sotto attacco.
A Torino c’è stata una prima manifestazione l’11 marzo, quando il presidio convocato in piazza Castello si è trasformato in un corteo sino a Porta Susa, dove sono stati affissi bandiere e striscioni.
Il 17 marzo, è stato lanciato un nuovo presidio. Quel giorno tre missili avevano distrutto l’ultimo ospedale della città. L’artiglieria aveva colpito una colonna di profughi. La pulizia etnica era cominciata.
Il giorno prima era stata diffusa la notizia che l’UE avrebbe consegnato al Sultano di Ankara 3 miliardi, la seconda tranche pattuita con la Turchia perché impedisca a profughi e migranti di lasciare il paese.
L’Italia, in prima fila nella guerra alla gente in viaggio, a pochi giorni dall’inizio dell’operazione ramoscello d’ulivo aveva accolto Erdogan con tutti gli onori, tacendo dei massacri e della pulizia etnica, che si stava per consumare ad Afrin.
Dopo le visite ufficiali la parola passò ai manager delle industrie italiane che fanno lauti affari con la Turchia. In prima fila il colosso armiero Leonardo, poi ENI, Barilla, Unicredit, Ferrero e tante altre.
Nemmeno il blocco della SAIPEM dell’ENI, cui la Turchia impedisce le trivellazioni in mare previste da un accordo con Cipro, ha incrinato le buone relazioni tra Roma ed Ankara.

In queste settimane in ogni dove ci sono state manifestazioni di solidarietà con la resistenza della popolazione di Afrin e del Rojava all’attacco degli islamisti turchi e siriani.
A Torino ci sono stati tre cortei ed alcune azioni dirette: scritte, striscioni, un fuoco sotto all’AMX piazzato nella rotonda dietro all’Alenia.
Ad Afrin la gente è stata uccisa da armi prodotte in Italia, molte a Torino.

La prima iniziativa si è tenuta l’11 marzo, quando è stata diffusa la notizia che le truppe turche stavano completando l’accerchiamento, mentre i bombardieri bruciavano il centro abitato.
Era tempo di agire.
Il presidio convocato in piazza Castello si è trasformato in un corteo determinato e comunicativo.
La manifestazione si è conclusa a Porta Susa, dove sono stati affissi bandiere e striscioni.

Il 17 marzo l’appuntamento era in piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione di Porta Nuova. Il presidio si è trasformato in corteo. I rumori dei bombardamenti e le voci da Afrin sono risuonate per il centro cittadino. I media hanno osservato per due mesi la consegna del silenzio.
Il silenzio sui massacri, le bombe, i bambini morti.
In via Roma, nei pressi della sede del quotidiano Repubblica al suono dei bombardamenti molte donne si sono lasciare cadere, per dare voce ai corpi invisibili delle donne curde che resistono e muoiono.
Imponente lo schieramento di polizia: la questura ha blindato la stazione e i negozi del centro.
Il corteo, dopo numerose fermate e interventi si è concluso in piazza Castello.

Il giorno successivo i media hanno rotto il silenzio, dando ampio spazio alle dichiarazioni trionfali di Erdogan. Le immagini di fonte turca mostravano prigionieri pesti e i soldati della mezzaluna nell’atto di abbattere la statua del fabbro Kawa. La storia di Kawa è tra i miti fondanti dell’identità curda, perché narra della battaglia impari tra il fabbro e il tiranno assiro Dehak.
Una storia che viene celebrata ogni 21 marzo con l’accensione di fuochi per il capodanno curdo, il Newroz.
Una festa che quest’anno si è svolta nelle aree curdofone e tra la gente della grande diaspora curda con lo sguardo rivolto ad Afrin.
Gli anarchici turchi del DAF hanno partecipato alle manifestazioni e diffuso questo testo: “Pensi che la lotta di Kawa finirà? Pensi che il fuoco che ha acceso sarà spento? Centinaia di Dehaq, in migliaia di anni, hanno cercato di spegnere questo fuoco che è la lotta per la libertà e per la giustizia.
Pensi che Kawa sia solo una statua che puoi distruggere?
Nessun padrone, in molte geografie, ha avuto la capacità di distruggere le idee e la lotta di Kawa, con le loro invasioni o distruzioni.
Ora è il momento di fare più grande il fuoco di Kawa, è il momento di fare più grande il fuoco della libertà, ora è il momento del Newroz!”

Il 24 marzo un corteo ha attraversato il centro cittadino, partendo da piazza XVIII dicembre. Tanta gente, in prima fila le donne, che hanno fatto una catena solidale con fazzoletti e braccia allacciate. In via Pietro Micca la sede di Unicredit, banca che si era seduta a tavola con Erdogan, in occasione della sua visita di stato in Italia, è stata spruzzata di colore e ricoperta di scritte.
Dopo una lunga sosta in piazza Castello il corteo si è concluso alla RAI. La polizia in assetto antisommossa ha bloccato il corteo in via Rossini prima dell’ingresso in via Verdi. I manifestanti hanno fronteggiato a lungo i poliziotti prima di sciogliersi.
Forte è risuonato l’appello alla lotta, alla solidarietà, all’azione diretta.

Per saperne di più

Catalogna. Il pugno di di ferro di Rajoy, la risposta delle piazze

Catalogna. Il pugno di di ferro di Rajoy, la risposta delle piazze

L’arresto di Carles Puigdemont in Germania è l’ultimo atto della guerra tra lo Stato Spagnolo e l’aspirante Stato Catalano. Controllato a distanza tramite un navigatore applicato alla sua auto, l’ex presidente catalano è stato intercettato al confine tra la Finlandia e la Germania, paese che, secondo l’intelligence spagnola poteva essere più sensibile alle richieste di estradizione di Madrid.
Lo strumento giuridico usato è un mandato di cattura europeo. Se qualcuno aveva ancora dei dubbi sul ruolo dell’Europa delle polizie e dei confini a permeabilità variabile, li ha sicuramente persi. Un’ulteriore brutta botta per gli indipendentisti catalani, sempre più frustrati nella loro enfasi europeista.
Le elezioni, convocate dopo lo scioglimento d’autorità del parlamento catalano, hanno nuovamente dato la maggioranza agli indipendentisti, ma, dopo tre mesi non si è ancora costituito un governo regionale.
Jordi Turull di JuntsXCat, ultimo candidato presidente, è stato arrestato qualche giorno prima di Puigdemont. Con lui sono finiti in carcere altri quattro deputati. Marta Rovira di Esquerra Republicana ha preso la via dell’esilio.
Dopo lo scioglimento di autorità del parlamento catalano e la deposizione della Generalitad forse il PPE al governo sperava in un risultato diverso, ma al di là della crescita di Ciudadanos, i vari partiti della costellazione indipendentista restano l’ago della bilancia. La risposta di Madrid al referendum e alla dichiarazione di indipendenza lasciavano pochi dubbi: Madrid non intende mollare e sta intensificando l’azione repressiva.
La partita resta tuttavia apertissima e foriera di conseguenze imprevedibili.
Dopo le grandi manifestazioni seguite all’arresto di Turull e degli altri deputati, all’annuncio dell’arresto in Germania di Puigdemont, le piazze catalane si sono nuovamente riempite.
Decine di migliaia di manifestanti a Barcellona, Girona, Lleida, Tarragona e in altri centri della Catalogna hanno dato vita a manifestazioni spontanee. Ci sono stati numerosi tafferugli con la polizia, compresi i Mossos de Esquadra catalani. Almeno 101 persone hanno riportato ferite non gravi.
La polizia in tenuta antisommossa ha caricato con manganelli gli indipendentisti, che in alcuni casi hanno risposto con lancio di oggetti, innalzando barricate e incendiando cassonetti. Almeno 6 le persone arrestate a Barcellona mentre cercavano di avvicinarsi alla sede della rappresentanza del governo di Madrid. I manifestanti hanno anche bloccato il traffico in quattro autostrade nella regione.

In Spagna, dopo la ley mordaza, sono scattate numerose operazioni repressive, che hanno colpito soprattutto anarchici e libertari, alcuni in carcere ormai da oltre un anno.
Il pugno di ferro di Rajoy sta colpendo con estrema durezza ogni forma di opposizione politica e sociale, arrivando a fermare ed arrestare artisti di strada, le cui esibizioni mettevano alla berlina il potere.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Claudio Venza, docente di storia della Spagna contemporanea all’università di Trieste, profondo conoscitore della Catalogna, dove trascorre parte dell’anno.

Per saperne di più

Da Roma a Torino. Erdogan assassino!

Lunedì 5 febbraio. A Roma si è tenuto un presidio di protesta per la visita di Erdogan in Vaticano e al Quirinale. Al sit in hanno partecipato circa 500 manifestanti.
In città era stato predisposto un imponente dispositivo di sicurezza.
Il presidio si è svolto in largo Triboniano vicino Castel S.Angelo, a poche centinaia di metri da S.Pietro. I manifestanti, nonostante polizia a cavallo, finanza e sommozzatori sotto al fiume Tevere, hanno provato a muoversi in corteo fino alla basilica di S. Pietro. La polizia ha caricato, un attivista è stato portato in questura, altri tre sono stati feriti.
La polizia ha circondato i manifestanti, impedendo loro di lasciare la piazza sino a metà pomeriggio. Un sequestro di polizia, per prevenire altri tentativi di protesta.
Ramazan, l’uomo fermato durante la carica, è stato rilasciato con denuncia qualche ora più tardi.
Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Norma del Comitato di solidarietà.

Lunedì 5 febbraio. Il presidio indetto a Torino in occasione della visita di Erdogan al papa-re dello Stato Vaticano e ai capi di stato e di governo italiano si è trasformato in un corteo che è terminato di fronte alla sede Rai.
Il giorno precedente un gruppo di attivist* era entrato nella chiesa di via San Tommaso, chiedendo di leggere un comunicato. Al diniego del prete hanno srotolato uno striscione e letto il comunicato.
Alcuni partecipanti alla messa hanno aggredito i manifestanti.
La polizia, allertata dal prete, ha intercettato alcuni solidali a qualche centinaio di metri dalla chiesa e li ha trattenuti in questura sino al pomeriggio, quando sono stati rilasciati con l’accusa di “interruzione di cerimonia religiosa”.
Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Paolo – Pachino – Andolina, ex combattente dell’Antifa Tabur

Da oltre 10 giorni il potentissimo esercito turco bombarda il cantone di Afrin in Siria. L’operazione “Ramoscello d’ulivo” mira a distruggere la rivoluzione libertaria e femminista della Siria del nord, dove si sperimenta il confederalismo democratico.
Gli uomini e le donne di questa rivoluzione hanno sconfitto l’Isis, protetta e sponsorizzata dagli islamisti turchi di Recep Erdogan.
L’Europa, l’Italia in prima fila, ha pagato la Turchia perché fermasse i profughi siriani.
Gli interessi italiani in Turchia sono enormi. Nel pomeriggio del 5 febbraio, dopo le visite a Bergoglio, Gentiloni e Mattarella, Erdogan ha incontrato gli AD delle maggiori industrie italiane.
Il bagno di sangue ad Afrin è merito anche di armi made in Italy.
I governi europei, la Russia e gli Stati Uniti, dopo aver usato le milizie del Rojava per sconfiggere l’Isis, ora appoggiano o giustificano l’attacco al confederalismo democratico in Rojava.
Il governo turco ha massacrato i resistenti delle città insorte nelle aree curdofone, ha raso al suolo città e quartieri, obbligando la popolazione a prendere la via dell’esilio, allargando la grande diaspora curda.
Migliaia di oppositori politici sono in galera, migliaia di insegnanti e dipendenti pubblici hanno perso il posto. Decine di giornali sono stati chiusi e i giornalisti arrestati.
La Turchia è una dittatura democratica e confessionale che bussa alle porte dell’Europa, mentre massacra la gente di Afrin.

Ascolta l’approfondimento dell’info di radio Blackout con Stefano Capello sugli interessi che legano l’Italia alla Turchia. Interessi al centro dell’incontro tra la delegazione turca e i rappresentanti delle maggiori imprese italiane, non ultime quelle armiere, che riforniscono di elicotteri e aerei da guerra l’aviazione di Erdogan, impiegati contro la popolazione della Siria del nord.

Prossimo appuntamento a Torino:

Domenica 11 febbraio
corteo defendAfrin a Torino
ore 14 piazza Carlo Felice – Porta Nuova

Per saperne di più

Efrin. Il grande gioco della Turchia

L’attacco a Efrin, l’operazione “ramoscello d’ulivo”, era ampiamente prevedibile. A Efrin, uno dei cantoni del Rojava, si sperimenta il confederalismo democratico.
Dopo aver sferrato durissimi colpi ai sostenitori dell’HDP, il partito filocurdo, che si ispira alle teorie del fondatore del PKK, Abdullah Ocalan, Erdogan punta alla Siria.

Dopo la pressochè totale liquidazione dell’ISIS, con l’apporto decisivo delle unità di protezione del popolo del Rojava, le carte tornano sul tavolo e il quadro delle alleanze muta in fretta.
Ankara è decisa a regolare i conti con i curdi siriani, divenuti simbolo materiale della capacità di autogoverno nell’area. Indebolirli e, se possibile, spazzarli via, è indispensabile ad Erdogan per garantire il controllo delle aree curdofone della Turchia, pacificate con estrema violenza due anni fa.
Il Rojava è una spina nel fianco molto dolorosa per il governo Erdogan, che pur fortissimo dopo il dubbio referendum costituzionale, potrebbe trovarsi in difficoltà.

Le epurazioni di massa nella scuola, nell’esercito, nella magistratura e, più in generale, nella pubblica amministrazione, gli arresti di migliaia di oppositori politici, la distruzione di tante città curde, il bavaglio imposto alla stampa, la violenta gentrificazione, l’islamizzazione forzata, portano ad un allargamento della forbice sociale, al moltiplicarsi delle tensioni politiche, sociali e culturali non facili da reggere nel lungo periodo.

Il ritiro delle truppe russe da Efrin ha sgomberato il terreno all’azione delle truppe turche, jihaidiste e dell’esercito siriano libero. Gli interessi russi in Turchia sono molto più importanti di questa piccola enclave curdofona nel nord della Siria. Il gasdotto in costruzione – lo stesso contro cui si battono i No Tap del Salento – ha importanza strategica per gli interessi russi.
Pare tuttavia difficile che la Russia tolleri una completa invasione dell’area sotto la propria tutela militare. Siamo nel governatorato di Aleppo, dove la Russia ha ben due basi militari. Non solo. Lo stesso governo siriano potrebbe avere scarso interesse a concedere parti del territorio dello Stato siriano ai maggiori sponsor delle milizie jihaidiste nell’area.
Tiepida la reazione statunitense, che tuttavia non controlla Afrin, ma difficilmente permetterà alla Turchia di attaccare a fondo Kobane e Cisre, preziosi alleati nella lotta dell’amministrazione Trump contro l’asse shiita da Teheran al Libano, passando per Baghdad, Damasco per approdare a Sana’a nel cuore della penisola arabica .

Nel frattempo da Efrin è partito un appello alla mobilitazione per fronteggiare il tentativo di invasione. Gli internazionali che combattono in Siria stanno accorrendo nel cantone, per contribuire alla resistenza.

Lo scorso fine settimana un corteo spontaneo ha attraversato Roma diretto all’ambasciata russa. Diverse altre manifestazioni di solidarietà si sono svolte i questi scorsi nel nostro paese: altre sono in programma in settimana.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Paolo – Pachino – Andolina, anarchico e squatter torinese, nonché ex combattente nell’antifa Tabur in Siria.

Per saperne di più

Davos. Ricchi e poveri

Si è aperto oggi a Davos il Word Economic Forum. Ieri Lagarde, presidente dell’FMI, il Fondo monetario internazionale, nell’aggiornamento del World Economic Outlook, commentando le previsioni di crescita dell’economia sino al 2019, ha nei fatti alluso ad una possibile fine del ciclo espansivo e ad una nuova crisi finanziaria. Inutile dire che le ricette dell’FMI sono sempre le stesse: riduzione del debito pubblico e privatizzazioni, come lievito per l’economia.
Sempre ieri è stato diffuso il nuovo rapporto dell’ONG britannica Oxfam.
Ne emerge un pianeta dove i poveri sono sempre più poveri ed i ricchi sempre più ricchi.
Il dossier per il quarto anno, restituisce la fotografia di un mondo in cui le disuguaglianze socio-economiche allargano sempre di più la forbice sociale.
I dati chiave del rapporto:

L’82% dell’incremento della ricchezza globale registrato nel 2017 è stato appannaggio dell’1% della popolazione più ricco, mentre il 50% più povero della popolazione mondiale non ha beneficiato di alcuna porzione di tale incremento.

L’1% più ricco della popolazione continua a detenere più ricchezza del restante 99%.

A metà del 2017 in Italia, l’1% più ricco possedeva il 21,5% della ricchezza nazionale netta. Una quota che sale a quasi il 40% per il 5% più ricco dei nostri connazionali.

Due terzi della ricchezza dei più facoltosi miliardari del mondo sono ereditati o frutto di rendita monopolistica ovvero il risultato di rapporti clientelari.

Nei prossimi 20 anni le 500 persone più ricche del pianeta lasceranno ai propri eredi oltre 2.400 miliardi di dollari, un ammontare superiore al Pil dell’India uno dei Paesi più popolosi del pianeta con 1,3 miliardi di abitanti.

Tra il 1995 e il 2016 il numero di persone che vivevano in estrema povertà con meno di 1,90 dollari al giorno si è dimezzato, eppure ancora oggi più di metà della popolazione mondiale vive con un reddito insufficiente che oscilla tra i 2 e i 10 dollari al giorno.

7 cittadini su 10 vivono in un Paese in cui la disuguaglianza di reddito è aumentata negli ultimi 30 anni.

Nel 2016 l’Italia occupava la ventesima posizione (su 28) in UE per il livello di disuguaglianza nei redditi individuali.

Nel 2015 il 20% più povero (in termini di reddito) dei nostri connazionali disponeva solo del 6,3% del reddito nazionale equivalente contro il 40% posseduto dal 20% più ricco.

Nel 2016 erano 40 milioni le persone “schiavizzate” nel mercato del lavoro, tra cui 4 milioni di bambini.

Solo nel 2016, le 50 più grandi corporation mondiali hanno impiegato lungo le proprie filiere produttive una ‘forza lavoro di 116 milioni di invisibili’, il 94% della loro forza lavoro complessiva.

A livello globale si stima che nel 2017 erano 1,4 miliardi le persone impiegate in lavori precari, oltre il 40% degli occupati totali.
Quasi il 43% dei giovani in età lavorativa a livello globale risulta disoccupato o occupato ma a rischio di povertà. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile (18-24 anni) a novembre 2017 era del 32,7%.

A livello globale le donne subiscono in media un divario retributivo del 23% ed hanno un tasso di partecipazione al mercato del lavoro del 26% più basso rispetto agli uomini. Persino tra i ricchi si registra una sostanziale disparità di genere, 9 su 10 miliardari sono uomini.

L’Italia si è collocata all’82 posto su 144 Paesi esaminati dal World Economic Forum per il suo Global Gender Gap Index 2017. Per l’uguaglianza retributiva di genere (a parità di mansione) l’Italia si è collocata in 126esima posizione.

Nel 2016 tra i lavoratori dipendenti in Italia le donne prevalevano solo nel profilo di impiegato. Le donne rappresentavano appena il 28,4% dei profili dirigenziali nazionali.

Un AD di una delle 5 principali compagnie del settore dell’abbigliamento guadagna in 4 giorni ciò che una lavoratrice della filiera di produzione in Bangladesh guadagna nella sua intera vita lavorativa.

Questi dati rivelano che equità fiscale e aumento dei salari, le ricette indicate da Barbieri, il direttore di Oxfam italia, pur migliorando la condizione di chi lavora, non sono certo risolutive.
Non esiste alcun margine per un’ipotesi riformista.
Le insorgenze sociali vengono affrontate affinando i dispositivi securitari di controllo sociale.
La stessa industria 4.0 è al servizio di chi preferisce le macchine a lavoratori potenzialmente riottosi, specie in settori, come la logistica, dove le lotte sono in grado di mettere in difficoltà vera i padroni, facendo loro del male.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Andrea Fumagalli, docente di economia all’università di Pavia, collaboratore di Effimera.

Per saperne di più

Razza bianca e bordelli. La ricetta leghista per tornare al potere

La Lega le ha sparate grosse ed è riuscita a catalizzare l’attenzione dei media main stream. I risultati conseguiti dal governo Gentiloni nella lotta all’immigrazione, sono sotto gli occhi di tutti: secca riduzione degli sbarchi, moltiplicarsi dei rimpatri.
La cacciata di quasi tutte le ONG dal Mediterraneo, gli accordi con Al Sarraj e con i capi delle milizie di Sabratha e Zawija, le leggi che rendono più difficile il riconoscimento dell’asilo politico sono i tasselli di un mosaico la cui trama è ben nota a tutti. Morti, galere per migranti, stupri, ricatti e torture sono il pane quotidiano della gente in viaggio attraverso la Libia. Fatti noti. Come note sono le statistiche che rivelano che sono tantissimi gli italiani che plaudono a massacri e respingimenti. Si moltiplicano i muri, le barriere, le missioni armate.
Difficile battere il PD su questo terreno. Nel suo editoriale sul quotidiano La Stampa di oggi Sorgi tesse gli elogi del governo.
Serviva qualche sparata ad effetto, che catalizzasse le paure che attraversano tanta parte del corpo sociale. Donald Trump fa scuola.
Il neocandidato alla presidenza della Regione Lombardia, Fontana, ha conquistato le prime pagine, parlando di “razza bianca” e di invasione di immigrati, che la cancelleranno.
Il segretario leghista ha ripreso un tema caro ai fascisti di ieri e di oggi: la prostituzione di Stato. Salvini vuole riaprire le case chiuse, dove le prostitute vivono come monache, sotto il controllo della polizia di Stato. Va da se che in questi bordelli legali potrebbero avere accesso solo persone con i documenti in regola.
Berlusconi ha immediatamente stigmatizzato le dichiarazioni dei suoi ingombranti alleati, ma gioca la stessa partita. Qualche giorno fa ha detto, in barba ai dati diffusi dal Viminale, che in Italia c’è un reato al secondo. Non solo. L’ex Cavaliere ha rincarato la dose sostenendo che in Italia si sarebbero 500.000 immigrati pronti e delinquere.
Un’affermazione che fa il paio con quelle del leghista Fontana.
Luigi di Maio, il candidato alla presidenza del consiglio per il M5S, fa invece concorrenza ai fascisti, sostenendo che gli interessi degli italiani devono venir prima di quelli degli immigrati.
La campagna elettorale sta entrando nel vivo. Le questioni sociali restano sullo sfondo, la vera protagonista è la paura.
Lo sa bene Marco Minniti, che ha dichiarato che non si può ignorare la paura diffusa nel corpo sociale, anche quando non ha alcun fondamento reale.
Come dargli torto? La paura uccide. Come in piazza San Carlo: 1.250 feriti ed una morta in un attacco di panico collettivo figlio della paura che nutre da decenni l’immaginario sociale del nostro paese.
Lo sanno bene i migranti respinti alle frontiere, che annegano nel Mediterraneo o restano sepolti dalle neve nelle Alpi. Qualcuno viene folgorato mentre prova a passare in Francia attraverso un tunnel ferroviario. É successo ieri a Ventimiglia.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Alessandro Dal Lago, sociologo, già docente all’università di Genova

Per saperne di più

Ammazziamoli a casa loro

Il conte Gentiloni ha chiuso l’anno e il mandato con l’invio d’un contingente della Folgore in Africa.
Ai parà in Niger seguiranno specialisti del Genio, addestratori, esperti delle forze speciali.
Sulla carta una missione contro il terrorismo nel cuore del Sahel. Nei fatti porre le basi per la costruzione di campi di prigionia per migranti a sud della Libia.
“Aiutiamoli a casa loro”, lo slogan più gettonato degli ultimi anni è destinato a finire in soffitta. In febbraio il ministro Minniti ha stretto un accordo con al Sarraj, capo del debole governo della Tripolitania, per i respingimenti in mare.
In estate il governo ha obbligato buona parte delle ONG che soccorrevano la gente dei gommoni, ad andarsene dal Mediterraneo, accusandole di collaborare con gli scafisti.
In agosto ha pagato le milizie di Zawiya e Sabratha, che gestiscono il traffico dei migranti, affinché bloccassero le partenze. Tutti sanno che la Libia è un inferno per la gente in viaggio: sequestri, ricatti, torture, strupri per ottenere un riscatto dalla famiglie. Dai campi libici molti non escono vivi.
Gli esecutori di questi crimini sono a Tripoli o a Sabratha, i mandanti siedono nel parlamento italiano.
Quest’anno è previsto un maggiore impegno in Libia e l’inaugurazione di un nuovo fronte in Tunisia, dove passa il gasdotto che porta il gas algerino in Sicilia.
La missione in Niger è l’ultimo tassello di una strategia di spostamento a Sud ed esternalizzazione della repressione dell’immigrazione.
L’ipocrisia del governo maschera gli obiettivi, ma il nuovo target dei militari tricolori è chiaro: “Ammazziamoli a casa loro.”
Forse non tutti sanno che i soldi spesi per far morire la gente in viaggio, sono stati sottratti a pensioni e sanità. Così anche da noi i poveri muoiono prima. Usurati dal lavoro, senza soldi per la sanità privata, senza futuro per figli e nipoti.

Quanto ci costerà la campagna d’Africa dell’esercito italiano sino a settembre?
Libia: 400 soldati e 34.982.433 euro. Niger: 470 parà e 30 milioni di euro. Spazio aereo della NATO: 250 militari e 12 milioni e 586mila euro. Tunisia: 60 persone e quattro milioni e 900mila euro. Repubblica Centrafricana: 324.260 euro. Marocco: due soldati e 302.839 euro. Poi ci sono i costi per gli altri fronti di guerra: Afganistan (101 milioni), Iraq (162 milioni), Libano (102 milioni), Mare sicuro (63 milioni) e Sophia (31 milioni), Lettonia (15 milioni)…

Le guerre dell’Italia per decenni sono state coperte da giustificazioni umanitarie: oggi il mantra è la “lotta al terrorismo”, nel cui nome si giustificano le città distrutte, i corpi dilaniati, i bambini spauriti, i migranti che muoiono in viaggio. Occupazione militare, bombardamenti, torture e repressione non fermano la Jihad ma la alimentano.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia.
Le sostiene la stessa propaganda: le questioni sociali, coniugate in termini di ordine pubblico, sono il perno su cui fa leva la narrazione militarista.
In dicembre si è concluso alla Scuola di Fanteria dell’Esercito un corso per “istruttori controllo dalla folla”, dove ai militari è stato insegnato come fronteggiare e reprimere le insurrezioni popolari. Hanno imparato come gestire le rivolte nei paesi occupati. Siamo sicuri che verranno impiegati anche in Italia nei luoghi del conflitto sociale.
Già oggi gli stessi soldati delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa, sono nel Mediterraneo e sulle frontiere fatte di nulla, che imprigionano e uccidono, uomini, donne e bambini.
Da anni le forze armate fanno propaganda per il reclutamento nelle scuole. Ora, grazie all’accordo con il MIUR, gli studenti potranno fare il loro periodo di alternanza scuola lavoro anche nella caserme, nei musei e nelle basi militari. Un’opportunità di lavoro in un settore che non conosce mai crisi.
E non conosce crisi l’industria bellica, che in Piemonte ha numerose, mortali, eccellenze.
Gli uomini, donne, bambini che premono alle frontiere chiuse dell’Europa nascondono una verità cruda ma banale. Le guerre sono combattute con armi costruite a due passi dalle nostre case.

É il momento di decidere da che parte stare. Un giorno non potremo fingere di non aver visto, di non aver saputo. Chi tace, chi volta lo sguardo è complice. Nessuno lo farà al nostro posto. Tocca a ciascuno di noi.

Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.

Sabato 13 gennaio
ore 10,30 / 14
Punto info antimilitarista al Balon
con vin brulè, cibo e the caldo
benefit assemblea antimilitarista

Assemblea Antimilitarista
antimilitarista.to@gmail.com

Per saperne di più

Iran. La rivolta dei senzascarpe

Il bilancio finale della rivolta, scoppiata alla fine di dicembre, investendo ottanta città, è di 22 morti e un migliaio di arresti.
I protagonisti delle proteste sono molto diversi dai giovani studenti che animarono, nel 2009, l’Onda Verde.
Sin dalle prima battute l’insorgenza sociale è stata battezzata come ribellione dei “mostazafin”, i “senza scarpe”, i diseredati. L’etichetta aveva conosciuto un suo momento di gloria nel 1979, quando la rivoluzione contro lo Shah Palevhi si dichiarò dalla parte dei Mostazafin, per coagulare consensi tra i più poveri.
I giovani scesi nelle piazze dell’Iran sembrano avere poco a che fare con i loro coetanei borghesi della zona Nord di Teheran, del fronte riformista, della protesta che aveva i suoi riferimenti nella rivoluzione ma anche negli ideali libertari occidentali.
Questa rivolta offre pochi appigli agli analisti perché ha caratteristiche sociali sfuggenti. Nel recente passato le grandi proteste in Iran si erano svolte a Teheran e nella grandi città dove è più facile individuare cosa le muove e chi le agita. Questa volta, specie nella fase aurorale, la periferia ha prevalso sul centro: i giovani iraniani sono scesi in piazza in città lontane dall’usuale palcoscenico della politica, anche per questo le notizie sono arrivate con difficoltà e le forze di sicurezza, presenti in maniera capillare nelle grandi metropoli, hanno avuto maggiori problemi a mantenere il controllo.
L’inizio della rivolta è stata nella provincia di Mashad, città cardine del rivale di Rohani, Ebrahim Raisi, capo della ricca e potente Fondazione Al Qods, battuto alle elezioni presidenziali del maggio scorso. Questo ha fatto pensare che gli ultraconservatori potessero in qualche modo volere mettere in crisi il governo dell’attuale presidente. Un’interpretazione avvalorata dalle dichiarazioni di un fedelissimo di Rohani, il vicepresidente Eashaq Jahangiri, il qualche aveva accusato gli ultrà del regime di manipolare le manifestazioni, un’interpretazione degli eventi appoggiata dallo stesso fronte riformista.

D’altra parte la Guida Suprema Alì Khamenei si è espresso per una linea ben più dura rispetto a quella di Rohani, il che induce il sospetto che la faccenda, se realmente è stata ispirata dai conservatori, sia presto sfuggita loro di mano.
Nel 2009, nell’Onda Verde c’erano leader politici ben precisi, Mir Hussein Mousavi e Mehdi Karrubi, che facevano riferimento ai riformisti appoggiati allora da Hashemi Rafsanjani, uno dei grandi padrini della repubblica islamica. Anche il bersaglio era evidente: la rielezione del presidente ultraconservatore Mahamoud Ahmadinejad, avvenuta in un clima pesantemente avvelenato dai brogli, sostenuto allora dalla Guida Suprema Alì Khamenei che successivamente lo ha abbandonato al suo destino.
C’è chi oggi ha ipotizzato la lunga manus dell’ex presidente Ahmadinejad dietro alle rivolte. Il suo tentativo di presentarsi alle elezioni della scorsa primavera per correre per un terzo mandato è stato bloccato. Ad un certo punto i media nostrani hanno diffuso la notizia di un suo possibile arresto. Sebbene fonti autorevoli sostengano che si tratti di una fake news, ad oggi è difficile dire se Ahmadinejad sia completamente libero di muoversi nel paese.
Ahmadinejad ha rappresentato una sorta di anomalia nella scena politica iraniana, perché è stato il primo presidente “laico” della Repubblica Islamica. Là dove per “laico” si intende che Ahmadinejad non appartiene al clero, nonostante sia molto vicino alle correnti più mistiche dello sciismo. Sotto la sua amministrazione, il tema del 12 Imam, l’imam nascosto, il Mahdi ha ripreso forza nei pellegrinaggi nel luogo di una sua ricomparsa in Iran.

Nel 2009 le strade si erano riempite non soltanto del popolo ma anche della borghesia della capitale, la classe media iraniana che ha i suoi referenti a Teheran Nord, la parte più agiata della società. Questa volta a bruciare le auto e incendiare i posti di polizia sono stati i giovani più poveri della periferia, non della capitale ma del paese. Mentre i giovani studenti della borghesia hanno quasi sempre sostenuto i candidati riformisti o moderati alla presidenza, come Mohammed Khatami nel ‘97 e poi Hassan Rohani, per contrastare l’ala dura del potere del clero e dei Pasdaran, questa ondata di protesta non sembra esprimere simpatia per i riformisti e gli “illuminati”. La politica squistamente liberista di Rohani non ha certo contribuito ad aumentarne l’appeal tra i giovani poveri del paese.

D’altra parte i temi della rivolta, inizialmente diretta solo contro il caro vita, si sono estesi investendo la stessa casta sacerdotale. Persino la guida suprema Ali Khamenei è entrato nel mirino di un movimento, che lo ha bruciato in effige. Non solo. L’aumento della spesa militare, l’impegno bellico in Siria e Iraq sono tra i temi che hanno alimentato le proteste.
Altra novità la comparsa nelle piazze della provincia di curdi e arabi, minoranze che negli anni precedenti erano rimaste ai margini nelle manifestazioni di dissenso nelle grandi città.
In Iran circa dodici milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà. L’assistenzialismo iraniano, basato sulle fondazioni religiose, sostiene non più della metà di questa massa di diseredati. Nonostante le distribuzioni con prezzi calmierati dei beni di prima necessità attuate da queste fondazioni, che mirano a mantenere il controllo dei mostazafin, i salari reali sono continuamente diminuiti negli ultimi anni.
Le ruberie da parte delle fondazioni legate al clero – fondazioni che possiedono buona parte dell’industria e della proprietà fondiaria del paese – o l’aumento del prezzo delle uova sono stati i detonatori di una rivolta le cui ragioni hanno ben poco di contingente.

La partita potrebbe ripartire a fine gennaio, quando gli Stati Uniti decideranno se imporre ulteriori sanzioni, oltre a quelle che il paese subisce di 38 anni. C’è chi ritiene che Trump potrebbe persino recedere dagli accordi sul nucleare stretti tra l’amministrazione Obama e il governo Rohani.
Un fatto è tuttavia sicuro. Le speranze che quell’accordo portasse alla fine delle sanzioni, all’apertura di nuovi mercati, alla fine dell’embargo finanziario, alla ripresa di investimenti nel paese sono state deluse. I numeri delle disoccupazione e della povertà nel paese disegnano la mappa sulla quale è scoppiata la rivolta. Una rivolta le cui fiamme, imprevedibili per conservatori e riformisti, potrebbero presto riprendere ad ardere.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Alberto Negri, corrispondente di guerra ed esperto di questioni geopolitche per il Sole 24 ore e membro dell’ISPI – Istituto per gli studi di politica internazionale.

Per saperne di più

Argentina. Lo spettro del passato che ritorna

Il governo Macrì è deciso a regolare i conti con tutta l’opposizione sociale e politica nel paese.
La dura repressione che ha investito le migliaia di persone scese in piazza contro la riforma delle pensioni non accenna a placarsi.
L’attacco alle già precarie condizioni di vita della popolazione è sempre più forte: aumenti delle bollette, salari bassissimi, elisione delle deboli garanzie per i più poveri.

Durissimo è l’attacco alle comunità mapuche in lotta.
L’unico poliziotto indagato nell’inchiesta sulla sparizione e la morte di Santiago Maldonado, il giovane anarchico sequestrato ed ucciso dalla polizia lo scorso agosto, è stato promosso. Per meriti sul campo.

Nell’inchiesta per l’assassinio di Rafael Nauhel, il giovane mapuche colpito a morte dalle squadre poliziesche Albatros, la magistratura ha deciso di inquisire solo i due compagni che trasportarono Rafael, ormai agonizzante, giù della montagna sino all’ospedale. I due, a loro volta feriti nell’attacco alla comunità resistente di Villa Mascardi, vennero arrestati e poi rilasciati, ora sono stati nuovamente incarcerati.
La magistrata che aveva iniziato l’inchiesta è stata rimossa, mentre il governo ha deciso di costituire un’unità speciale anti RAM. La RAM, resistenza ancestrale mapuche, è considerata un’organizzazione terrorista.

l 27 dicembre, è stato reso pubblico un rapporto di 180 pagine intitolato RAM, preparato dal Ministero della Sicurezza della Nazione in collaborazione con i governi provinciali di Río Negro, Neuquén e Chubut, dove vengono criminalizzati i mapuche che si organizzano e resistono. Nel mirino anche attivisti sociali, di sinistra e anarchici, considerati sostenitori e complici della RAM.
Qui potete leggere il comunicato emesso in risposta al rapporto del governo sottoscritto da numerosissime gruppi, reti territoriali e organizzazioni argentine.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Ivan Colombo, che ha trascorso in Argentina diversi mesi, visitando le comunità mapuche e partecipando alla lotta contro la riforma delle pensioni.

Il governo Macrì è deciso a regolare i conti con tutta l’opposizione sociale e politica nel paese.
La dura repressione che ha investito le migliaia di persone scese in piazza contro la riforma delle pensioni non accenna a placarsi.
L’attacco alle già precarie condizioni di vita della popolazione è sempre più forte: aumenti delle bollette, salari bassissimi, elisione delle deboli garanzie per i più poveri.

Durissimo è l’attacco alle comunità mapuche in lotta.
L’unico poliziotto indagato nell’inchiesta sulla sparizione e la morte di Santiago Maldonado, il giovane anarchico sequestrato ed ucciso dalla polizia lo scorso agosto, è stato promosso. Per meriti sul campo.

Nell’inchiesta per l’assassinio di Rafael Nauhel, il giovane mapuche colpito a morte dalle squadre poliziesche Albatros, la magistratura ha deciso di inquisire solo i due compagni che trasportarono Rafael, ormai agonizzante, giù della montagna sino all’ospedale. I due, a loro volta feriti nell’attacco alla comunità resistente di Villa Mascardi, vennero arrestati e poi rilasciati, ora sono stati nuovamente incarcerati.
La magistrata che aveva iniziato l’inchiesta è stata rimossa, mentre il governo ha deciso di costituire un’unità speciale anti RAM. La RAM, resistenza ancestrale mapuche, è considerata un’organizzazione terrorista.

l 27 dicembre, è stato reso pubblico un rapporto di 180 pagine intitolato RAM, preparato dal Ministero della Sicurezza della Nazione in collaborazione con i governi provinciali di Río Negro, Neuquén e Chubut, dove vengono criminalizzati i mapuche che si organizzano e resistono. Nel mirino anche attivisti sociali, di sinistra e anarchici, considerati sostenitori e complici della RAM.
Qui potete leggere il comunicato emesso in risposta al rapporto del governo sottoscritto da numerosissime gruppi, reti territoriali e organizzazioni argentine.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Ivan Colombo, che ha trascorso in Argentina diversi mesi, visitando le comunità mapuche e partecipando alla lotta contro la riforma delle pensioni.

Per saperne di più

Argentina. La riforma delle pensioni passa in Parlamento. In migliaia provano ad assaltare il palazzo

La riforma delle pensioni del governo di Mauricio Macrì è stata approvata nella serata del 18 dicembre. Nello stesso giorno era stato proclamato uno sciopero generale, che aveva portato in piazza dalle 250 alle 300 mila persone.
La notte precedente i tamburi dei cacerolazos avevano echeggiato per tutto il paese. Giovedì 14 dicembre il corteo diretto in parlamento era stato attaccato con violenza dalla polizia.
Quattro giorni dopo una manifestazione enorme ha raggiunto il parlamento nel tardo pomeriggio. L’intera area era stata blindata con protezioni metalliche. All’attacco ai blocchi, subito divelti, la polizia ha risposto con cariche di poliziotti in motocicletta che sparavano proiettili di gomma sulla folla. In piazza anche idranti utilizzati per cercare di fermare la folla che continuava ad avanzare.
In più occasioni i manifestanti hanno obbligato la polizia ad indietreggiare. I più decisi sono arrivati a cento metri dall’ingresso.
La gran parte della gente ha resistito in piazza, nonostante l’impiego massiccio di gas lacrimogeni.
La guerriglia urbana è durata diverse ore. La caccia all’uomo anche: circa 80 persone sono state arrestate. Due di loro sono state ferite e sono ricoverate in ospedale: le condizioni di un uno sono molto gravi. Una donna racconta di essere stata investita da una moto della polizia.
Il governo Macrì è riuscito a far passare il taglio delle pensioni, uno degli obiettivi cardine del proprio programma. É riuscito anche a rivitalizzare un’opposizone sociale ampia e sempre più radicale, che è passata dalla difesa all’attacco.
Sapremo presto se quella di ieri sia stata una fiammata isolata o sia il segnale di un’inversione di tendenza, specie rispetto ai sindacati in buona parte asserviti alle politiche governative.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Ivan, un attivista sindacale milanese da tre mesi in Argentina, che ha partecipato alla manifestazione.
L’intervista è stata realizzata prima che terminasse la votazione in parlamento.

Per saperne di più
Caricamento

Seguici

notizie, appuntamenti, narrazioni da Torino e dintorni
Anarres non è solo un blog. Ogni venerdì – dalle 11 alle 13 – va in onda sui 105.250 delle libere frequenze di radio Blackout di Torino. La radio si può ascoltare anche in streaming. Qui trovate alcuni degli approfondimenti fatti durante la trasmissione. Per contatti: anarres@inventati.org

(A)distro e SeriRiot
Ogni martedì dalle 18 alle 20 alla FAT in corso Palermo 46
Fai un salto da
(A)distro – libri, giornali, documenti e… tanto altro
SeriRiot – serigrafia autoprodotta benefit lotte
Vieni a spulciare tra i libri e le riviste, le magliette e i volantini!
Sostieni l’autoproduzione e l’informazione libera dallo stato e dal mercato!
Informati su lotte e appuntamenti!

Federazione Anarchica Torinese corso Palermo 46 riunioni - ogni martedì alle 20 Contatti: fai_torino@autistici.org @senzafrontiere.to/

Video

Caricamento...

Archivio

ARCHIVIO STORICO

Per vedere i contenuti precedenti vedi l'archivio di Anarres