Categoria: economia

Occupazione, sgombero e manganellate. I rider torinesi di Deliveroo in trasferta a Milano

Deliveroo è una multinazionale delle consegne rapide. Si avvale della “collaborazione” di lavoratori non dipendenti, liberi professionisti, che non hanno diritto all’indennità da infortunio, alle ferie, alla mutua, alla previdenza. Nessuna copertura. La compensazione di tale vuoto di tutele sarebbe la libertà di lavorare quanto e quando si vuole.
O no? Sino a poco tempo fa i fattorini dichiaravano la propria disponibilità a lavorare per la settimana, la app che ne governa l’attività confermava o meno i turni richiesti. C’era una paga oraria minima e poi un tot a consegna. Per guadagnare qualcosa era necessario essere molto disponibili per molte ore.
Ora Deliveroo alza il tiro, mira a tenere al guinzaglio i fattorini, lasciando a terra i meno disponibili e flessibili.
La nuova app, già introdotta in vari altri paesi europei, prevede una selezione dei fattorini in base alla loro disponibilità a lavorare, specie nei fine settimana, quando le richieste di consegna aumentano.
Non solo. Deliveroo mira ad introdurre il cottimo. Se non pedali, anche se hai passato ore ad aspettare, non guadagni nulla. Se non pedali in fretta il tuo guadagno sarà risibile.
Non c’è bisogno della frusta: o ti disciplini da solo o non guadagni niente.
Vi ricordate “Samarcanda”? La ballata di Vecchioni dove il protagonista lancia il suo cavallo in una corsa folle, per scoprire che la morte da cui fuggiva lo aspettava all’arrivo?
Lavorare a cottimo è una corsa folle verso Samarcanda.
Secondo una recente indagine Istat la produttività del lavoro e la redditività del capitale hanno avuto una significativa crescita nel 2017.
Queste cifre, tradotte dai numeri ai fatti, ci descrivono la crescita dello sfruttamento dei lavoratori, che lavorano sempre più per sempre meno.
Nulla di nuovo sotto il sole. L’unica novità è la spersonalizzazione del rapporto padrone/lavoratore favorita dalla tecnologia utilizzata. Gli algoritmi che governano le vite dei fattorini sono pensati per rispondere alle esigenze di chi si arricchisce sul lavoro altrui.

Il 20 marzo i rider torinesi hanno deciso di scioperare. Ritrovo nella Casa dei Rider in attesa degli ordini di consegna. Man mano che gli ordini arrivano vengono rifiutati, sino alla paralisi del servizio. Da tempo è stata abolita la possibilità di darsi disponibili anche fuori turno, che consentiva chi non era in servizio di unirsi allo sciopero.

Il giorno dopo i rider si danno appuntamento allo sportello rider: unico momento in cui i fattorini possono incontrare fisicamente responsabili dell’azienda, ormai organizzata in modo totalmente virtuale: firma dei contratti, organizzazione del lavoro e ogni altra comunicazione avvengono on line.
La responsabile rifiuta l’incontro, poi promette di telefonare ai capi a Milano. Poi chiama un taxi e, con gli altri due impiegati si dilegua, chiudendo lo sportello per l’intera giornata.

Di qui la decisione di andare a stanarli nella loro sede centrale a Milano, che sabato scorso è stata occupata e poi sgomberata con la forza.

Nel pomeriggio di venerdì 13 aprile, in occasione dello sportello riders milanese, una ventina tra ciclofattorini e solidali hanno occupato gli uffici di Deliveroo Italia per pretendere delle risposte alle proprie richieste.
I lavoratori si sono presentati con una lettera di rivendicazioni. Matteo Sarzana, il general manager della multinazionale, arriva protetto dalle guardie private. Sarzana, visibilmente nervoso, si attacca alla retorica della precarietà della sua posizione. Siamo tutti sulla stessa barca: chi al timone, chi a remare, chi a sparare su chi non va lesto, chi a contare i soldi guadagnati.
É subito chiaro che Sarzana non molla un centimetro. Chi non china il capo e pedala in silenzio per pochi soldi, è libero di licenziarsi. O, meglio, di rescindere il contratto di collaborazione.
Le chiacchiere di Sarzana servono solo a prendere tempo, il tempo necessario all’arrivo della polizia, che lo “scorta” fuori dall’edificio. La Digos entra e cerca di identificare i lavoratori, che stavano provando ad aprire un tavolo di trattativa.
Di fronte al rifiuto, la polizia politica minaccia di far arrivare l’antisommossa, che poco dopo arriva e si schiera all’esterno, dove accorrono anche alcuni solidali.
In questo caos, i dispatcher, che sovrintendono gli ordini dei fattorini, continuano a pigiare i tasti del loro PC come se nulla fosse.
I guardioni spingono, fanno battute sessiste, provocano. La tensione si alza sia dentro che fuori: guardie private e poliziotti picchiano e manganellano rider e solidali
Un ragazzo viene lievemente ferito alla testa durante gli scontri.
Poi si parte per un breve corteino in zona.

Il giorno dopo la dirigenza della multinazionale emette un comunicato volto ad isolare e criminalizzare i lavoratori in lotta, additati come rivoluzionari di professione, pochi arruffapopoli invisi agli altri lavoratori fidelizzati. Le lotte di questi mesi, gli scioperi con blocco totale delle consegne, dimostrano che Deliveroo gioca la carta della delegittimazione dei lavoratori più attivi nelle lotte, nella speranza di riuscire a spezzare il fronte dei ciclofattorini.
La lotta continua.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Stefano, uno dei rider in lotta

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I motori diesel hanno gli anni contati?

I principali produttori di automobili hanno deciso di cessare la produzione di motori a gasolio, complice la riduzione della domanda, le inchieste sulle emissioni truccate, la crescente attenzione verso i rischi di emissioni pericolose per la salute.
Nonostante negli anni la quantità di gas dannosi immessa nell’atmosfera dalle auto con motori diesel si sia drasticamente ridotta, la maggiore attenzione alle tematiche ambientali e lo sviluppo delle auto elettriche porteranno ad una lenta dismissione di questa tecnologia.
Anche il marchio Fca abbandonerà i motori diesel dalle auto passeggeri a partire dal 2022. Lo ha rivelato qualche giorno fa il Financial Times. Il quotidiano finanziario britannico aggiunge che la novità, che riguarderà tutti i brand, è contenuta nel nuovo piano finanziario che sarà presentato il prossimo primo giugno.
Fca, che ha i marchi Jeep, Ram, Dodge, Chrysler, Maserati, Alfa Romeo e Fiat. Il gruppo rappresenta l’ultimo costruttore auto a dire addio a questo tipo di carburante, dopo Toyota e Volkswagen.

Il futuro potrebbe essere dell’auto elettrica, che non emette fumi da combustione nell’aria. Questo non significa che non sia inquinante: le batterie vanno caricate e la produzione dell’energia necessaria alla ricarica, specie se vengono utilizzate fonti fossili, potrebbe essere essa stessa fonte di avvelenamento ambientale.
Il trasporto individuale su quattro ruote non può essere scisso dalla questione energetica nel suo complesso.
Utilizzare fonti rinnovabili e non inquinanti come l’eolico e il solare è il primo passo. Non solo. L’utilizzo di fonti rinnovabili, disponibili localmente, rende gli individui e le comunità meno dipendenti dagli approvvigionamenti garantiti dalle truppe italiane nel mondo. L’autonomia energetica è il primo passo per far funzionare percorsi autogestiti di sottrazione dall’istituito.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Marco Tafel, ambientalista, esperto di produzione energetica. Con lui sono state approfondite le dinamiche sottese all’avvento dell’auto elettrica.

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Davos. Ricchi e poveri

Si è aperto oggi a Davos il Word Economic Forum. Ieri Lagarde, presidente dell’FMI, il Fondo monetario internazionale, nell’aggiornamento del World Economic Outlook, commentando le previsioni di crescita dell’economia sino al 2019, ha nei fatti alluso ad una possibile fine del ciclo espansivo e ad una nuova crisi finanziaria. Inutile dire che le ricette dell’FMI sono sempre le stesse: riduzione del debito pubblico e privatizzazioni, come lievito per l’economia.
Sempre ieri è stato diffuso il nuovo rapporto dell’ONG britannica Oxfam.
Ne emerge un pianeta dove i poveri sono sempre più poveri ed i ricchi sempre più ricchi.
Il dossier per il quarto anno, restituisce la fotografia di un mondo in cui le disuguaglianze socio-economiche allargano sempre di più la forbice sociale.
I dati chiave del rapporto:

L’82% dell’incremento della ricchezza globale registrato nel 2017 è stato appannaggio dell’1% della popolazione più ricco, mentre il 50% più povero della popolazione mondiale non ha beneficiato di alcuna porzione di tale incremento.

L’1% più ricco della popolazione continua a detenere più ricchezza del restante 99%.

A metà del 2017 in Italia, l’1% più ricco possedeva il 21,5% della ricchezza nazionale netta. Una quota che sale a quasi il 40% per il 5% più ricco dei nostri connazionali.

Due terzi della ricchezza dei più facoltosi miliardari del mondo sono ereditati o frutto di rendita monopolistica ovvero il risultato di rapporti clientelari.

Nei prossimi 20 anni le 500 persone più ricche del pianeta lasceranno ai propri eredi oltre 2.400 miliardi di dollari, un ammontare superiore al Pil dell’India uno dei Paesi più popolosi del pianeta con 1,3 miliardi di abitanti.

Tra il 1995 e il 2016 il numero di persone che vivevano in estrema povertà con meno di 1,90 dollari al giorno si è dimezzato, eppure ancora oggi più di metà della popolazione mondiale vive con un reddito insufficiente che oscilla tra i 2 e i 10 dollari al giorno.

7 cittadini su 10 vivono in un Paese in cui la disuguaglianza di reddito è aumentata negli ultimi 30 anni.

Nel 2016 l’Italia occupava la ventesima posizione (su 28) in UE per il livello di disuguaglianza nei redditi individuali.

Nel 2015 il 20% più povero (in termini di reddito) dei nostri connazionali disponeva solo del 6,3% del reddito nazionale equivalente contro il 40% posseduto dal 20% più ricco.

Nel 2016 erano 40 milioni le persone “schiavizzate” nel mercato del lavoro, tra cui 4 milioni di bambini.

Solo nel 2016, le 50 più grandi corporation mondiali hanno impiegato lungo le proprie filiere produttive una ‘forza lavoro di 116 milioni di invisibili’, il 94% della loro forza lavoro complessiva.

A livello globale si stima che nel 2017 erano 1,4 miliardi le persone impiegate in lavori precari, oltre il 40% degli occupati totali.
Quasi il 43% dei giovani in età lavorativa a livello globale risulta disoccupato o occupato ma a rischio di povertà. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile (18-24 anni) a novembre 2017 era del 32,7%.

A livello globale le donne subiscono in media un divario retributivo del 23% ed hanno un tasso di partecipazione al mercato del lavoro del 26% più basso rispetto agli uomini. Persino tra i ricchi si registra una sostanziale disparità di genere, 9 su 10 miliardari sono uomini.

L’Italia si è collocata all’82 posto su 144 Paesi esaminati dal World Economic Forum per il suo Global Gender Gap Index 2017. Per l’uguaglianza retributiva di genere (a parità di mansione) l’Italia si è collocata in 126esima posizione.

Nel 2016 tra i lavoratori dipendenti in Italia le donne prevalevano solo nel profilo di impiegato. Le donne rappresentavano appena il 28,4% dei profili dirigenziali nazionali.

Un AD di una delle 5 principali compagnie del settore dell’abbigliamento guadagna in 4 giorni ciò che una lavoratrice della filiera di produzione in Bangladesh guadagna nella sua intera vita lavorativa.

Questi dati rivelano che equità fiscale e aumento dei salari, le ricette indicate da Barbieri, il direttore di Oxfam italia, pur migliorando la condizione di chi lavora, non sono certo risolutive.
Non esiste alcun margine per un’ipotesi riformista.
Le insorgenze sociali vengono affrontate affinando i dispositivi securitari di controllo sociale.
La stessa industria 4.0 è al servizio di chi preferisce le macchine a lavoratori potenzialmente riottosi, specie in settori, come la logistica, dove le lotte sono in grado di mettere in difficoltà vera i padroni, facendo loro del male.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Andrea Fumagalli, docente di economia all’università di Pavia, collaboratore di Effimera.

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Iran. La rivolta dei senzascarpe

Il bilancio finale della rivolta, scoppiata alla fine di dicembre, investendo ottanta città, è di 22 morti e un migliaio di arresti.
I protagonisti delle proteste sono molto diversi dai giovani studenti che animarono, nel 2009, l’Onda Verde.
Sin dalle prima battute l’insorgenza sociale è stata battezzata come ribellione dei “mostazafin”, i “senza scarpe”, i diseredati. L’etichetta aveva conosciuto un suo momento di gloria nel 1979, quando la rivoluzione contro lo Shah Palevhi si dichiarò dalla parte dei Mostazafin, per coagulare consensi tra i più poveri.
I giovani scesi nelle piazze dell’Iran sembrano avere poco a che fare con i loro coetanei borghesi della zona Nord di Teheran, del fronte riformista, della protesta che aveva i suoi riferimenti nella rivoluzione ma anche negli ideali libertari occidentali.
Questa rivolta offre pochi appigli agli analisti perché ha caratteristiche sociali sfuggenti. Nel recente passato le grandi proteste in Iran si erano svolte a Teheran e nella grandi città dove è più facile individuare cosa le muove e chi le agita. Questa volta, specie nella fase aurorale, la periferia ha prevalso sul centro: i giovani iraniani sono scesi in piazza in città lontane dall’usuale palcoscenico della politica, anche per questo le notizie sono arrivate con difficoltà e le forze di sicurezza, presenti in maniera capillare nelle grandi metropoli, hanno avuto maggiori problemi a mantenere il controllo.
L’inizio della rivolta è stata nella provincia di Mashad, città cardine del rivale di Rohani, Ebrahim Raisi, capo della ricca e potente Fondazione Al Qods, battuto alle elezioni presidenziali del maggio scorso. Questo ha fatto pensare che gli ultraconservatori potessero in qualche modo volere mettere in crisi il governo dell’attuale presidente. Un’interpretazione avvalorata dalle dichiarazioni di un fedelissimo di Rohani, il vicepresidente Eashaq Jahangiri, il qualche aveva accusato gli ultrà del regime di manipolare le manifestazioni, un’interpretazione degli eventi appoggiata dallo stesso fronte riformista.

D’altra parte la Guida Suprema Alì Khamenei si è espresso per una linea ben più dura rispetto a quella di Rohani, il che induce il sospetto che la faccenda, se realmente è stata ispirata dai conservatori, sia presto sfuggita loro di mano.
Nel 2009, nell’Onda Verde c’erano leader politici ben precisi, Mir Hussein Mousavi e Mehdi Karrubi, che facevano riferimento ai riformisti appoggiati allora da Hashemi Rafsanjani, uno dei grandi padrini della repubblica islamica. Anche il bersaglio era evidente: la rielezione del presidente ultraconservatore Mahamoud Ahmadinejad, avvenuta in un clima pesantemente avvelenato dai brogli, sostenuto allora dalla Guida Suprema Alì Khamenei che successivamente lo ha abbandonato al suo destino.
C’è chi oggi ha ipotizzato la lunga manus dell’ex presidente Ahmadinejad dietro alle rivolte. Il suo tentativo di presentarsi alle elezioni della scorsa primavera per correre per un terzo mandato è stato bloccato. Ad un certo punto i media nostrani hanno diffuso la notizia di un suo possibile arresto. Sebbene fonti autorevoli sostengano che si tratti di una fake news, ad oggi è difficile dire se Ahmadinejad sia completamente libero di muoversi nel paese.
Ahmadinejad ha rappresentato una sorta di anomalia nella scena politica iraniana, perché è stato il primo presidente “laico” della Repubblica Islamica. Là dove per “laico” si intende che Ahmadinejad non appartiene al clero, nonostante sia molto vicino alle correnti più mistiche dello sciismo. Sotto la sua amministrazione, il tema del 12 Imam, l’imam nascosto, il Mahdi ha ripreso forza nei pellegrinaggi nel luogo di una sua ricomparsa in Iran.

Nel 2009 le strade si erano riempite non soltanto del popolo ma anche della borghesia della capitale, la classe media iraniana che ha i suoi referenti a Teheran Nord, la parte più agiata della società. Questa volta a bruciare le auto e incendiare i posti di polizia sono stati i giovani più poveri della periferia, non della capitale ma del paese. Mentre i giovani studenti della borghesia hanno quasi sempre sostenuto i candidati riformisti o moderati alla presidenza, come Mohammed Khatami nel ‘97 e poi Hassan Rohani, per contrastare l’ala dura del potere del clero e dei Pasdaran, questa ondata di protesta non sembra esprimere simpatia per i riformisti e gli “illuminati”. La politica squistamente liberista di Rohani non ha certo contribuito ad aumentarne l’appeal tra i giovani poveri del paese.

D’altra parte i temi della rivolta, inizialmente diretta solo contro il caro vita, si sono estesi investendo la stessa casta sacerdotale. Persino la guida suprema Ali Khamenei è entrato nel mirino di un movimento, che lo ha bruciato in effige. Non solo. L’aumento della spesa militare, l’impegno bellico in Siria e Iraq sono tra i temi che hanno alimentato le proteste.
Altra novità la comparsa nelle piazze della provincia di curdi e arabi, minoranze che negli anni precedenti erano rimaste ai margini nelle manifestazioni di dissenso nelle grandi città.
In Iran circa dodici milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà. L’assistenzialismo iraniano, basato sulle fondazioni religiose, sostiene non più della metà di questa massa di diseredati. Nonostante le distribuzioni con prezzi calmierati dei beni di prima necessità attuate da queste fondazioni, che mirano a mantenere il controllo dei mostazafin, i salari reali sono continuamente diminuiti negli ultimi anni.
Le ruberie da parte delle fondazioni legate al clero – fondazioni che possiedono buona parte dell’industria e della proprietà fondiaria del paese – o l’aumento del prezzo delle uova sono stati i detonatori di una rivolta le cui ragioni hanno ben poco di contingente.

La partita potrebbe ripartire a fine gennaio, quando gli Stati Uniti decideranno se imporre ulteriori sanzioni, oltre a quelle che il paese subisce di 38 anni. C’è chi ritiene che Trump potrebbe persino recedere dagli accordi sul nucleare stretti tra l’amministrazione Obama e il governo Rohani.
Un fatto è tuttavia sicuro. Le speranze che quell’accordo portasse alla fine delle sanzioni, all’apertura di nuovi mercati, alla fine dell’embargo finanziario, alla ripresa di investimenti nel paese sono state deluse. I numeri delle disoccupazione e della povertà nel paese disegnano la mappa sulla quale è scoppiata la rivolta. Una rivolta le cui fiamme, imprevedibili per conservatori e riformisti, potrebbero presto riprendere ad ardere.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Alberto Negri, corrispondente di guerra ed esperto di questioni geopolitche per il Sole 24 ore e membro dell’ISPI – Istituto per gli studi di politica internazionale.

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Meltdown e Spectre. Due bug nei processori dei nostri pc, tablet, smartphone

Sarebbero le più gravi vulnerabilità del millennio. Si tratta di un errore di progettazione, che risale ad un’epoca remota per i marchingegni elettronici, il 1995. Da allora sono passati 23 anni. Quest’errore riguarda i processori di quasi tutti i dispositivi che utilizziamo quotidianamente – Server, Server Cloud, PC Windows e Linux, MAC, smartphone, tablet.

Il bug permette ad programma malevolo, creato appositamente, di eseguire sul dispositivo attaccato operazioni non autorizzate, non volute, che possono portare al furto di diverse informazioni, anche molto riservate, come password, chiavi crittografiche e molto altro. Nel caso in cui si sia stati vittima dell’attacco, inoltre, è quasi impossibile scoprirlo.
Non si tratta di una falla in un software, ma di un buco nell’architettura materiale dei nostri dispositivi.

Di che si tratta?
I moderni processori hanno una funzionalità che permette di velocizzare l’esecuzione dei programmi, basandosi su “speculazioni”, su cosa è probabile che il programma chieda nelle prossime operazioni, così da precalcolarle, per avere i risultati “già elaborati” quando necessario.
Un errore nel disegno di tale funzionalità può permettere ad un programma malevolo, eseguito sul dispositivo attaccato, di “evadere” la normale segregazione tra applicazioni. Su un dispositivo personale significa leggere i dati in RAM di altre applicazioni. Queste vulnerabilità sono così gravi che in ambienti enterprise, invece, permettono da una istanza virtuale di leggere i dati di altre istanze (si pensi ad infrastrutture Citrix, XEN, CMWare, AWS, Azure, etc etc).

Meltdown affligge solo i processori Intel. È il più semplice da sfruttare ed anche il più semplice da rimediare, per il quale sono già disponibili le patch da parte di diversi produttori.
Di fatto Metdown era già noto da almeno 15 anni. Peccato che fosse noto solo ai produttori e a chi lo ha utilizzato per spiare.

Spectre, tocca i processori Intel, AMD ed ARM. Più difficile da utilizzare, è anche il grave e più difficile da correggere. Probabilmente ne discuteremo e ne subiremo le conseguenze ancora a lungo.
Gli aggiornamenti disponibili di fatto disabilitano la funzione che permette di “predire” le prossime operazioni, causando rallentamenti fino al 20/30% dell’hardware posseduto.
Questi aggiornamenti eliminando la capacità di “predizioni” del processore lo proteggono da intrusioni, ma ne peggiorano le prestazioni.
Facciamo un esempio. Noi decidiamo di sistemare la stanza in cui viviamo e comunichiamo al nostro fedele amico le nostre intenzioni. Il nostro amico provvede ad elaborare una decina di scenari per la mia stanza. Così, appena decido di imbiancarla, mi trovo subito diversi piani disponibili per lo spostamento dei mobili, l’acquisto di vernici e pennelli, le opzioni di spesa, le possibilità di risistemazioni dei mobili o l’acquisto di nuovi. Un paio di click ed è fatta. Se elimino la capacità predittiva del mio amico, dovrò cercare da me le soluzioni possibili. Lui me le fornirà comunque, ma impiegherò molto più tempo.

A questo punto abbiamo capito come funzionano questi Bug.
Resta tuttavia un dubbio. Perché non siamo stati informati subito? Perché Meltdown agisce da anni senza che chi acquista e usa apparecchi elettronici lo abbia saputo subito?

Perchè Intel sapeva della vulnerabilità dei suoi processori e non ha detto nulla? Voleva trovare prima il tappabuchi, per non scoraggiare gli acquirenti? Oppure ha subito pressioni da qualcuno abbastanza forte per farle, affinché non la tenesse segreta?

Ci sono diversi scenari che rendono possibili varie ipotesi.

Ipotesi “etica”. Trovo una falla e ne informo solo il produttore. Aspetto a dirlo a tutti finché il buco non è stato tappato.

Ipotesi “hacker”. Non comunico la falla al produttore e la tengo per me per sfruttarla se mi dovesse servire.

Ipotesi “mercantile”. Non comunico la falla al produttore e la vendo al mercato nero, per farla usare da qualcun altro che mi darà dei bei soldi a seconda della gravità del buco.

Ipotesi “spia” non comunico al produttore la falla e la regalo ad enti come l’NSA per sfruttarla nella cyberwar

Questa vicenda ci racconta l’enorme difficoltà nel difendere i nostri dati, una merce, che in un’epoca post cyberpunk, vale più del petrolio.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Federico Pinca, redattore di Blackout e conduttore del “Bit c’è e non c’é”

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Fine della Net Neutrality?

Il 14 dicembre 2017 la neutralità della rete è morta, almeno negli Stati Uniti. La commissione direttiva della FCC (Federal Communications Commission) ha abolito le norme che garantivano parità di accesso a tutti. Norme sostenute sia dall’amministrazione Obama sia dai grandi gruppi tecnologici della Silicon valley.
Pochi minuti dopo la decisione della commissione, presa con tre voti contro 2, diversi politici hanno annunciato un’azione legale appoggiata da più Stati per annullare questa decisione. Gli attivisti in difesa della Net neutrality hanno attuato proteste immediate e ne hanno annunciate di nuove.
Oggi la partita l’ha vinta l’industria delle telecomunicazioni che potrebbe trarne vantaggi enormi.

Ma… facciamo un passo indietro. Che cos’è la Net Neutrality?
Per comprendere il concetto di net neutrality occorre tornare alla seconda metà dell’Ottocento. All’epoca naturalmente Internet non esisteva, ma garantire il passaggio delle informazioni senza limitazioni e discriminazioni era un’esigenza condivisa. Erano gli anni in cui si emergevano nuovi e potenti mezzi di comunicazione come il telegrafo. Negli Stati Uniti il discorso sulla neutralità delle reti si affermò e si diffuse in quel periodo, fissando una regola base: tutto il traffico su un determinato mezzo di trasmissione (o di trasporto) deve essere trattato allo stesso modo.

Il concetto attuale di net neutrality applicato a Internet è invece molto più recente, e risale a una quindicina di anni fa. Fu introdotto per la prima volta nel 2002 da Tim Wu, ora docente di legge presso la Columbia Law School di New York, autore di una ricerca in cui si ipotizzava di introdurre una regola chiara per evitare discriminazioni nella trasmissione dei contenuti su Internet.

Semplificando: per collegarsi a Internet ognuno di noi deve passare attraverso un provider, una società che fisicamente gestisce il collegamento dalla propria casa ai suoi centri dati, che a loro volta permettono di accedere a qualsiasi sito in ogni parte del mondo. I provider fino a ora si sono comportati come fanno le poste con le lettere ordinarie: consegnano cose da X a Y senza tenere in considerazione il loro contenuto, trattando quindi ogni busta allo stesso modo e senza fare favoritismi. Chi sostiene la neutralità della rete vuole che le cose continuino a essere così, senza discriminazioni.
Più nello specifico, secondo i principi della net neutrality un provider non può bloccare o rallentare l’accesso a particolari siti o servizi online. Allo stesso modo, le società che danno le connessioni non possono nemmeno creare corsie preferenziali per fare in modo che un contenuto sia caricato più velocemente di un altro.
Così come una telefonata di Tizio deve essere inoltrata al ricevente nello stesso modo in cui avviene per una chiamata di Caio, i provider devono fare arrivare a un computer un video di YouTube o il post di un blog semisconosciuto senza limitazioni che penalizzino uno dei due. Per dirla più chiaramente: per la net neutrality il provider non può limitare la quantità di banda destinata a raggiungere un certo sito Internet rispetto a un altro, o destinata all’utilizzo di un certo software rispetto a un altro. Nè quindi proporre offerte commerciali basate su questo genere di differenziazioni (un abbonamento Internet per le news, un abbonamento Internet per i video, oppure uno che penalizza il traffico dei software di file-sharing, eccetera).
In sintesi: una rete informativa pubblica deve garantire un trattamento uguale a ogni tipo di contenuto che viene veicolato attraverso internet, senza discriminare alcuni flussi di dati rispetto ad altri.

Le conseguenze della fine della net neutrality anche in Europa potrebbero essere enormi.

Compagnie come Fastweb, Telecom, o Tim potrebbero offrire un contratto base che include navigazione di base ed e-mail, diciamo a 15 euro al mese, per poi inserire dei pacchetti a pagamento con servizi aggiuntivi. Cinque euro per lo streaming video (Youtube, Netflix), altri cinque per la musica in streaming e così via.
Da oggi dunque gli Internet Service Provider (ISP) avranno piena libertà di gestire le proprie offerte proponendo pacchetti diversi che discriminano il tipo di dati trasferiti.
I guai aumentano, specie in Italia, dove un ISP è anche un fornitore di contenuti. Ad esempio nel nostro paese TIM ha TIM Vision, Fastweb sponsorizza l’uso di Sky, Vodafone ha il suo servizio di film e serie TV.
Immaginiamo un ipotetico futuro in cui Telecom si accorda con Google per far sì che l’accesso a Youtube sia superveloce, mentre l’accesso a Vimeo, concorrente di Youtube, sia rallentato. Oppure immaginiamo che Fastweb decida di rallentare la trasmissione dei contenuti di una compagnia “rivale”, ad esempio Netflix, ai suoi clienti, e che Netflix per continuare a fornire un servizio adeguato e non perdere i clienti che accedono ad internet attraverso Fastweb sia costretto a pagare una tariffa aggiuntiva per una maggior velocità di streaming. Secondo voi il prezzo dell’abbonamento a Netflix rimarrà lo stesso?

A farne le spese sarebbero, va da se, i siti senza pubblicità e intenzionalmente fuori dal mercato.
Negli Stati Uniti le compagnie di telecomunicazione hanno assicurato ai consumatori che internet non cambierà da oggi a domani. Il veleno sarà iniettato goccia a goccia. Finché l’intossicazione sarà collettiva e le forme di resistenza inutili.

In Europa per il momento non cambia nulla, anche se è improbabile che la decisione statunitense non abbia effetti pesanti anche da questo lato dell’Atlantico.
Nel 2016 l’Unione Europea ha pubblicato alcune linee guida per il rispetto e la tutela della Net Neutrality. I vari paesi membri vi hanno aderito più o meno esplicitamente, anche se negli ultimi anni diversi operatori hanno immesso sul mercato alcune offerte in chiaro contrasto con queste norme. Ad esempio l’opportunità di utilizzare alcune app senza consumare i vari GB di traffico inclusi nel proprio piano tariffario. È evidente come abbonamenti di questo tipo favoriscano la fruizione delle app incluse nell’offerta a discapito di quelle concorrenti.
La tolleranza verso queste situazioni da parte delle istituzioni e degli enti incaricati di sorvegliare il rispetto dei principi di neutralità ci danno la misura del rischio di un futuro adattamento a questa politica anche da parte dell’Unione Europea.
Internet come l’abbiamo conosciuta fin ora presto potrebbe cambiare in una versione ancora più succube e influenzata dai meccanismi del capitalismo di quanto non sia già oggi.
La neutralità della rete, come il diritto ad accedervi, sarà un terreno di lotta importante nei prossimi anni.

Altrettanto importante lavorare per una rete decentralizzata, libera dalla schiavitù del reticolo materiale che sostiene la rete virtuale, una rete che i governi e le grandi aziende del web non possano facilmente controllare e mettere a profitto.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Federico Pinca de “Il Bit c’è e non c’é”

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Marica licenziata da Ikea. Lavoratori in sciopero e presidio a Corsico

Il licenziamento di Marica Ricutti ha suscitato forte indignazione culminata oggi in uno sciopero in diversi magazzini italiani della multinazionale svedese.
I fatti sono noti. Marica ha lavorato all’Ikea per 17 anni. É una mamma single con due figli a carico di cui uno disabile. Ricutti, spostata di reparto, di fronte a nuovi orari incompatibili con il lavoro di cura gratuito per i figli, aveva parlato con i dirigenti e concordato altri tempi di lavoro. Ikea, dopo un’iniziale disponibilità verbale dei capi del negozio/magazzino di Corsico, l’ha licenziata.
Le decisioni vere le prende un algoritmo.
I turni di lavoro per i 6500 dipendenti dell’Ikea in Italia li fissa questa macchina. Una macchina, che, al di là dei pregiudizi consolidati, ha dei sentimenti. Sentimenti forti. Ogni sei mesi, a settembre e marzo, sulla base di uno schema prestabilito che contempla il flusso dei clienti, il numero dei lavoratori impiegati e le esigenze di ogni singolo reparto, decide quando, quanto e dove si lavora.
Marica Ricutti lavorava all’Ikea dal 1999: non aveva mai ricevuto un richiamo e nemmeno una contestazione sulla sua professionalità.
Ogni martedì Marica porta suo figlio disabile in un centro specializzato, dove segue una terapia. Il martedì Marica non può entrare al lavoro alle 7 del mattino, come deciso dall’algoritmo. Una macchina con un cuore, un cuore che batte per gli interessi del padrone.

Oggi al magazzino milanese e in diversi altri in Italia l’USB ha indetto uno sciopero di solidarietà con Marica. La CGIL si è limitata al sostegno verbale, partecipando al presidio, senza lanciare la giornata di lotta.
Di fronte al magazzino IKEA di Corsico si sono radunate 200 persone. Tanti lavoratori, tanti anche i solidali.
Tra loro anche un gruppo di femministe della rete Non Una di Meno di Milano, che hanno letto una lettera pubblica di sostegno a Marica.
Qui puoi ascoltare la diretta dell’info di Blackout a Dafne di NUDM Mi.

Fuori dal magazzino il freddo punge ma gli umori sono bollenti. «Ci trattano come mobili da smontare e rimontare. Per loro siamo solo numeri senza diritti».
I lavoratori hanno cartelli con la scritta “Pessima Ikea”
«I nostri turni di lavoro sono regolati da algoritmi. Non siamo più uomini e donne. Solo numeri»
A Corsico l’algoritmo che combina i dati per ottenere il maggior profitto al minor costo per Ikea, è arrivato a decidere 1800 cambi turno al mese su 450 dipendenti.
Lo sciopero di oggi è in appoggio anche ad un altro lavoratore licenziato a Bari, per essere rientrato con cinque minuti di ritardo dalla pausa pranzo. Ad altri due lavoratori di Corsico, licenziati per aver partecipato alle lotte e reintegrati dal giudice, sono ancora in strada, perché le porte dell’azienda restano chiuse.

Negli ultimi cinque anni Ikea ha ridotto le maggiorazioni per la domenica e i festivi mentre il premio di “partecipazione” – il nuovo nome del vecchio premio di produttività – è stato quasi azzerato. Da qualche mese i lavoratori sono anche assegnati ai reparti anche senza formazione specifica. Jolly, usa, sposta, paga poco e getta via, specie se protesta.

Flessibilità è la parola d’ordine nella logistica e nel commercio su grande scala, le catene di montaggio del Terzo Millennio. Chi non ci sta, chi non accetta trasferimenti a centinaia di chilometri, turni spalmati sulle esigenze calcolate dall’algoritmo, viene buttato fuori. Un figlio disabile non è rappresentato tra le variabili matematiche che decidono la vita delle persone.
Il lavoro di cura gratuito è oggi più che mai un destino assegnato alle donne. Chi non riesce a far uscire tutte le sei facce del cubo di Rubik, viene espulsa.

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Tunisia. Tra crisi, rivolta sociale e jihad

Le prime elezioni municipali dopo “Rivoluzione dei gelsomini” si svolgeranno entro la fine dell’anno. Lo ha dichiarato la scorsa settimana il presidente della repubblica Beji Caid Essebsi, in discorso alla nazione, che ha toccato i principali nodi problematici emersi dalle piazze. E che ha nel mancato decentramento del potere verso le amministrazioni locali – previsto dalla nuova Costituzione – uno dei suoi nodi.

Rabbia e richieste di «pane e dignità» tornano ad infiammare le zone interne del paese, svantaggiate rispetto alla costa. Una protesta sociale simile a quella che nel 2011 partì da Sidi Bouzid per travolgere il paese e il regime di Ben Ali. Per questo Essebsi nel suo discorso ha annunciato che d’ora in poi ci sarà l’esercito a difesa dei siti industriali e delle principali fonti produttive (fosfato, petrolio, gas), spesso bloccate dalle proteste dei giovani disoccupati.
L’ordine, emanato d’intesa con il Consiglio per la sicurezza nazionale, è destinato a sollevare nuove polemiche.

A fine marzo nel governatorato di Tataouine, nel sud, alcuni giovani disoccupati hanno ostacolato le attività di diverse compagnie petrolifere bloccandone il trasporto stradale.
All’inizio di aprile il Kef, nel nord-ovest, è insorto per la chiusura di una fabbrica di cavi elettrici della società tedesca Coroplast, intenzionata a rilocalizzare la produzione ad Hammamet, lasciando a casa 430 lavoratori (in maggioranza donne). Hammamet è logisticamente meglio connessa.
Il 19 aprile i disoccupati di Jendouba, sempre nel nord-ovest, hanno manifestato domandando a gran voce una soluzione per la cronica mancanza di opportunità di impiego nella zona, mentre il 20 aprile uno sciopero generale è stato indetto a Kef.
Crescono le tensioni intorno al polo siderurgico di El Fouladh, che il governo vorrebbe cedere a investitori esteri, nonostante l’opposizione dei lavoratori.
Il 22 maggio un manifestante di 18 anni è morto in ospedale a Tataouine per le ferite riportate negli scontri con le forze dell’ordine che intendevano sgomberare i manifestanti del sit-in di El Kamour. Il giovane potrebbe essere stato investito da un’autovettura della polizia in manovra. I media locali parlano anche di altri feriti.
A Tataouine la polizia il 23 maggio ha fatto ancora ricorso all’uso di gas lacrimogeni per disperdere la folla di giovani radunati da settimane in sit-in a El Kamour per chiedere misure concrete per l’occupazione e maggiori fondi per lo sviluppo regionale. Una parte dei manifestanti ha accettato nei giorni scorsi le misure proposte dal governo, un’altra parte ha invece deciso di proseguire nelle rivendicazioni.

Il vento della Jhad
Sempre più forti sono invece i segnali di un’offensiva islamista dal sud che spaccherebbe in due il paese, portandolo alla guerra civile.
Sono 27.371 i tunisini aspiranti jihadisti cui le autorità del Paese hanno impedito di raggiungere i territori di combattimento. Lo ha affermato il 20 aprile il ministro dell’Interno di Tunisi, Hedi Mejboub, durante un’audizione al Parlamento del Bardo precisando che dei 3.000 jihadisti di nazionalità tunisina che si trovano ancora nelle zone di conflitto, il 60% è in Siria, il 30% in Libia e il restante 10% disperso in altri paesi. Il 96% di questi combattenti è rappresentato da uomini di età compresa tra i 24 e i 35 anni.

Per quanto riguarda invece i foreign fighters di ritorno Mejdoub ha sottolineato che degli 800 ufficialmente tornati in Tunisia, 190 si trovano attualmente in carcere, 37 in libertà controllata mentre 55 sono stati uccisi dalle forze dell’ordine durante azioni di guerra in Tunisia.

La Tunisia è il paese da cui è partito il maggior numero di combattenti della jhad: è più che un’ipotesi la tesi che, specie al sud le tensioni sociali possano incanalarsi nella guerra santa.

Ascolta l’intervista dell’info di radio Blackout a Karim Metref, blogger, insegnante, scrittore di origine kabila.

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Il referendum dei poveri e dei disoccupati

Nulla sarà più come prima:‭ ‬il referendum istituzionale ha visto un’ampia partecipazione popolare ed i‭ “‬NO‭” ‬hanno vinto.‭ ‬Aurore radiose attendono le legioni di votanti che,‭ ‬matita copiativa alla mano,‭ ‬hanno modificato radicalmente la situazione in Italia.‭ ‬Il blocco frigorenzaicomassonico è stato sconfitto.‭ ‬I superstiti renziani risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.‭ ‬Tutto il potere è andato al CNEL che ha decretato la fine della povertà e della disoccupazione in Italia.

Si sa,‭ ‬i sogni muoiono all’alba.‭ ‬E all’alba del‭ ‬6‭ ‬dicembre sono arrivati i dati ISTAT sulla povertà in Italia.‭ ‬Il‭ ‬28.7%‭ ‬delle famiglie italiane‭ (‬17,5‭ ‬milioni di persone‭) ‬è povera o in condizioni di grave indigenza.‭ ‬Più della metà delle coppie con tre o più figli minori è povera.‭ ‬Lo è quasi la metà delle persone che vivono nel Sud Italia.‭ ‬In Europa siamo tra quelli messi peggio.‭ ‬Alcune zone del Sud Italia sono quelle che hanno,‭ ‬percentualmente,‭ ‬più poveri d’Europa.‭

Aumenta il numero dei‭ ‬working poor:‭ ‬quelli che sono poveri nonostante lavorino regolarmente con un contratto di lavoro.‭ ‬Ormai si tratta di quasi un lavoratore su‭ ‬4‭ (‬23.5%‭)‬.‭

Negli ultimi‭ ‬5‭ ‬anni è anche aumentata la differenza di reddito tra chi ha molto e chi ha poco.‭ ‬La differenza di reddito tra il‭ ‬20%‭ ‬più povero‭ (‬che possiede il‭ ‬7.7%‭ ‬del reddito complessivo‭) ‬e il‭ ‬20%‭ ‬più ricco‭ (‬che ha quasi il‭ ‬40%‭ ‬del reddito complessivo‭) ‬è aumentata ulteriormente.‭ ‬Se invece del reddito‭ (‬che è quello che uno guadagna ogni anno‭)‬,‭ ‬guardiamo al patrimonio‭ (‬che è quello che uno possiede‭) ‬la situazione è ancora peggiore:‭ ‬le‭ ‬10‭ ‬famiglie più ricche in Italia possiedono quanto il‭ ‬40%‭ ‬dei residenti‭ (‬italiani e stranieri‭) ‬più poveri.

Qualche milione di poveri ha dovuto rinunciare alle cure ed alle spese sanitarie e la mortalità é aumentata del‭ ‬9.1%‭ (‬sono morte‭ ‬54.000‭ ‬persone in più rispetto all’anno precedente‭)‬.‭ ‬Le aspettative di vita,‭ ‬in Italia,‭ ‬sono diminuite per la prima volta da‭ ‬150‭ ‬anni‭ (‬da quando vengono misurate‭)‬.‭ ‬Intanto però‭ ‬le persone che hanno più di‭ ‬30‭ ‬milioni di euro nelle proprie disponibilità finanziarie sono aumentate del‭ ‬7.8%.

Ma che ci frega dei poveri e dei malati,‭ ‬abbiamo passato gli ultimi mesi a parlare del referendum e passeremo i prossimi a parlare della legge elettorale.‭ ‬Queste sono le cose che contano.‭ ‬Del resto chiunque sia stato al governo non ha fatto altro che peggiorare le condizioni di vita e lavoro,‭ ‬quindi è meglio cianciare di come votare piuttosto che di come cambiare veramente le cose.

Poi però,‭ ‬mentre erano tutti impegnati a celebrare la vittoria,‭ ‬ottenuta peraltro con una buona partecipazione popolare,‭ ‬nessuno si è accorto che parecchi poveri non sono andati a votare e se ne sono fregati di un referendum che non sposta di una virgola la loro condizione di sfruttati.

C’è una correlazione diretta tra il numero degli astenuti al referendum costituzionale ed il tasso di povertà:‭ ‬le regioni con più poveri sono quelle che hanno votato di meno.‭ ‬Nel Sud e nelle Isole,‭ ‬dove il‭ ‬55%‭ ‬delle persone non riesce a sostenere una spesa imprevista di‭ ‬800‭ ‬euro‭ (‬uno degli indicatori di disagio sociale‭)‬,‭ ‬ha votato meno del‭ ‬60%‭ ‬degli aventi diritto.‭ ‬Nelle regioni con meno poveri è avvenuto l’inverso:‭ ‬più gente è andata a votare.

Allo stesso modo è andata per il numero di disoccupati.‭ ‬La provincia italiana con più disoccupati‭ (‬Crotone con il‭ ‬31,4%‭ ‬della popolazione disoccupata‭) ‬è quella che ha votato meno‭ (‬47.8%‭ ‬di votanti‭)‬.‭ ‬Vicenza,‭ ‬che è la città dove c’è stata la maggiore affluenza‭ (‬78,5%‭ ‬di votanti‭) ‬è la penultima per disoccupazione‭ (‬4,7%‭)‬.‭ ‬Tranne pochissime eccezioni,‭ ‬l’elenco delle province italiane ordinate per numero di disoccupati e ordinate per numero di astenuti sono sovrapponibili.

In queste ore,‭ ‬tanti stanno accreditandosi i voti referendari.‭ ‬Ci sono Renzi,‭ ‬Grillo e Salvini‭ (‬ed uno stuolo di mosche cocchiere‭) ‬che sostengono che i‭ “‬SI‭” ‬e i‭ “‬NO‭”‬,‭ ‬siano adesioni al loro disegno politico‭ (‬che consiste,‭ ‬al di fuori dei fronzoli,‭ ‬nell‭’ ‬andare al potere e mangiare più dei loro predecessori‭)‬.‭

Assistiamo anche a un tentativo di rivendicazione di taluni che hanno partecipato al teatrino elettorale con l’ossimoro del‭ “‬NO sociale‭”‬:‭ ‬un voto può essere sociale quanto un’accelerazione può essere rallentata.‭ ‬La vacuità del loro disegno di trasformazione attraverso il referendum fa il paio con la totale inconsistenza del risultato una volta ottenuta questa inutile vittoria.

Non c’è niente da fare,‭ ‬gli anarchici sono diversi.‭ ‬Non credo ci sia uno di noi che sostenga che chi non è andato a votare sia necessariamente anarchico.‭ ‬Noi non siamo andati a votare con le nostre motivazioni,‭ ‬altri con le loro.‭ ‬E non necessariamente coincidono.‭ ‬Ci limitiamo a registrare che,‭ ‬nelle aree dove è maggiore il disagio sociale,‭ ‬è maggiore l’astensione da questa inutile sceneggiata.‭

A differenza di tutti quelli che si sono battuti per il‭ “‬SI‭” ‬o per il‭ “‬NO‭”‬,‭ ‬affermando che votando in un modo o nell’altro sarebbe cambiato tutto,‭ ‬noi astensionisti abbiamo detto fin dall’inizio che,‭ ‬chiunque avesse vinto,‭ ‬non sarebbe cambiato nulla.

Incuranti della tempestiva smentita da parte dei fatti,‭ ‬delle roboanti promesse elettorali,‭ ‬gli attori del teatrino della politica stanno affrettandosi a rimettere in scena la pantomina della legge elettorale.‭ ‬Che si parli di come eleggere questo o quello,‭ ‬piuttosto che di disoccupazione,‭ ‬povertà,‭ ‬salario,‭ ‬abitazioni,‭ ‬istruzione,‭ ‬sanità.‭ ‬Tutte cose delle quali non hanno nessuna voglia di occuparsi,‭ ‬se non per peggiorarne le già catastrofiche condizioni.‭

La maggior parte delle persone è andata a votare al referendum illudendosi di cambiare qualcosa.‭ ‬Noi siamo stati gli unici a dire che non sarebbe cambiato nulla.‭ ‬I fatti ci hanno dato ragione.‭ ‬Aver dimostrato lungimiranza e coerenza non serve però a cambiare la situazione.‭ ‬E‭’ ‬necessario sottrarsi a questo teatrino‭ ‬rilanciando la lotta‭ (‬questa sì‭ “‬sociale‭”) ‬per migliorare le condizioni di vita e lavoro di tutti e tutte.

Fricche in Umanità Nova

Per approfondimenti:

Ascolta la diretta a caldo di Massimo Varengo per l’info di Blackout

Ascolta la chiacchierata con Francesco nella puntata di Anarres del 9 dicembre

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Tav low cost: il tunnel nel deserto

Tunnel1Se un idraulico per riparare un guasto congiungesse un tubo piccolo ad uno molto più grande, anche il più sprovveduto di noi capirebbe che il tubo si intaserebbe. Se la stessa cosa la fa il ministro dei trasporti Graziano Del Rio i quotidiani parlano di sensibilità ecologica, razionalizzazione dei costi, realizzazione dell’opera in modo graduale, verificando nel tempo le necessità. La tratta italiana dell’opera può essere realizzata utilizzando in buona parte le infrastrutture già esistenti – il tubo piccolo – ma il tunnel di base di 57 chilometri non va toccato, perché nel 2030 il flusso delle merci avrà un’impennata.

Delle due una: o da quel tubo passerà poca acqua e quindi non serve innestarlo in un tubo più grosso oppure serve e quindi occorre mettere tubi grandi in tutto il nostro impianto di casa.
Quello che vale per i tubi dell’acqua, vale a maggior ragione per una nuova linea ad alta velocità e capacità.

Il progetto Tav o vale tutto o non vale niente. Elementare? Non tanto.
Nel complesso risico del Tav, la nuova linea è un affare per chi la realizza ma solo spese e danni ambientali per tutti gli altri. Al ministro interessa salvaguardare gli affari, senza esporsi troppo con le banche per un progetto per il quale i soldi non ci sono. Lo stesso tunnel geognostico è partito grazie al finanziamento europeo di 172 milioni di euro e il tunnel principale dipende dal 40% che l’UE dovrebbe buttare sul piatto.

Quindi niente investimenti a Torino e in Bassa Val Susa, ma via a testa bassa per completare il tunnel geognostico di Chiomonte e far partire il tunnel di base. La tavola del Tav resta imbandita, ma per il momento non si aprono nuove cucine e nuove abbuffate di denaro pubblico, usato per fini privatissimi.

Non solo. Se non cantierizzano in Bassa Valle, se non fanno le nuove gallerie, se non spostano l’autoporto di Susa, se non devastano la frazione San Giuliano a Susa, evitano un ulteriore duro confronto con il movimento No Tav sul terreno dove è nato ed è cresciuto, quello della Bassa Valle.

Nonostante la repressione il movimento No Tav resta la spina nel fianco di una classe politica abituata a finanziarsi con le grandi opere, garantite dalla legge obiettivo, che semplifica controlli e verifiche sull’ambiente, il lavoro, la sostenibilità economica.

Quella del ministro Del Rio è una truffa ben impacchettata ed infiocchettata. La stessa di sempre.

Le relazioni politiche e sociali che il modello Tav prefigura presuppongono la crescita infinita della produzione e del trasporto delle merci. Una follia sul piano ecologico, sociale, politico. La follia della logica del profitto, accentuata dalla smaterializzazione della ricchezza, più che insostenibile, perché banalmente impossibile.

Ascolta la diretta realizzata dall’info di Blackout con Angelo Tartaglia, docente al Politecnico di Torino ed esponente del Controsservatorio Val Susa, che ci ha mostrato, anche su un piano squisitamente tecnico, la trasparenza del gioco di Del Rio

Di seguito l’articolo di Tartaglia, uscito sul Fatto Quotidiano del 4 luglio:

“I maggiori mezzi di comunicazione hanno dato grande rilievo all’intenzione manifestata dal ministro Delrio di modificare il tracciato della tratta italiana della nuova linea Torino-Lione (Nltl), riducendo costi e impatti sul nostro versante. Come sempre ci si è sbizzarriti nelle valutazioni “politiche” senza nemmeno provare a entrare nel merito. Il ministro ha parlato di una “revisione” del progetto, di una riduzione delle gallerie ivi previste, di una maggiore utilizzazione della linea storica e, in conseguenza di ciò, di una riduzione della spesa, da 4,3 a 1,7 miliardi. Con una sorta di gioco di prestigio si cerca così di trasformare in dimostrazione di attenzione alle istanze dei cittadini e ai problemi economici del Paese una scelta che, da un lato, è ineluttabile e, dall’altro, dimostra che la faraonica ipotesi iniziale realizzava in realtà un inutile spreco (in quella tratta come in tutta l’opera).

La nuova soluzione altro non è che la riproposizione di una strategia di realizzazione per fasi, in cui il maggior utilizzo del tracciato esistente (sul solo versante italiano) sarebbe transitorio, fino al 2030, rinviando la soluzione definitiva, per mancanza di denaro, al 2050 e oltre… E ciò senza dare risposta alla domanda fondamentale che la stessa “apertura” del ministro pone: perché non utilizzare, con opportuni interventi di ammodernamento, tutto il percorso attuale, lasciando cadere un tunnel di base che, nella versione prevista, sarebbe del tutto inutile senza gli adduttori sul versante italiano e francese?

Le manipolazioni del tracciato lasciano tal quale la questione fondamentale e cioè il fatto che la Nltl è un’opera inutile realizzata a debito pubblico, direttamente, per la quota italiana, e indirettamente, per quella europea (in Francia è la Court des Comptes che ha da ridire sulla produttività della spesa); un’opera per di più destinata ad accumulare passività, sempre a carico nostro, anno dopo anno. Le ragioni di questa valutazione sono state esposte in dettaglio in moltissime occasioni e non sono mai state contestate o smontate; in particolare non è mai stato accettato un pubblico confronto in sede tecnica.

Le ferrovie non si dimensionano in base alle chiacchiere della politica e alle dichiarazioni ai giornali, ma in base alle tonnellate che si prevede di trasportare. Ora, il fatto è che le tonnellate che attraversano la frontiera terrestre tra Italia e Francia lungo tutti i canali e in tutte le modalità sono in calo dal 2002; lungo l’asse della Valle di Susa il flusso (ferroviario) è circa un sesto della capacità della linea; il flusso attraverso l’intero arco alpino mostra la tendenza a stabilizzarsi dal 2012 in poi, dopo aver visto, fino al 2008, andamenti crescenti lungo le direzioni da nord a sud; l’economia mondiale continua a trovarsi in condizioni di stagnazione dovuta ai vincoli materiali che i governanti ignorano.

Queste tendenze hanno delle spiegazioni che, nella sintesi qui necessaria, sono riconducibili alla saturazione materiale dei mercati dell’Europa centro-occidentale, idea che i “politici” tradizionali, insieme ad una parte degli economisti, si rifiutano di accettare. Per capire di che cosa si tratti basta pensare a una unità abitativa media italiana, francese, tedesca… e ai beni, attrezzature e oggetti (cose che vengono trasportate) reperibili al suo interno.

È difficile immaginare che ce ne possano stare molti di più di quanti ce ne sono. È certamente possibile rinnovare, cambiare, ammodernare quegli oggetti, ma non si può pensare di ridurre a pochi giorni i tempi di sostituzione (proviamo a pensare ad autoveicoli, elettrodomestici e persino telefonini). Insomma il flusso totale di merci può oscillare un poco su e giù ma non può crescere in modo esplosivo. Orbene i proponenti la Nltl hanno individuato quale dovrebbe essere il flusso di merci (complessivo, non solo ferroviario) tale da giustificare economicamente l’opera (occhio e croce tre volte quello attuale) e hanno trasformato questa esigenza in “previsione” per la prossima decina d’anni (il moltiplicatore diventerebbe addirittura 15-20, estrapolando al 2053).

Queste “previsioni” sono del tutto infondate; per ottenerle i consulenti hanno utilizzato anche modelli matematici manipolando in maniera plateale e professionalmente indecorosa i parametri in modo da far emergere i risultati richiesti dai committenti. Questi sono i nodi e sicuramente non è il tracciato italiano della linea a scioglierli. Non so quanto Delrio sia “ambientalista”; so che il suo governo e molti altri soggetti nel merito non entrano e alle obiezioni di sostanza non hanno risposte. Ma i fatti sono più testardi e il guaio è che le conseguenze della irresponsabilità le pagheremo tutti.”

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La truffa del petrolio lucano

Più di tremila giovani ogni anno lasciano la Basilicata. Le trivelle continuano a pompare una ricchezza che non li sfiora. E loro vanno via dalla regione più povera d’Italia dove il 31,6% di chi ha dai 15 ai 34 anni non ha uno straccio di lavoro, e più del 28% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà.
Dai pozzi di petrolio non sono usciti né lavoro, né sviluppo. Altro che Texas, altro che “Libia di casa nostra”, come sosteneva il governatore Vito De Filippo, Pd. Dopo decenni di trivellazioni Potenza non è Dubai, la Val d’Agri non ha l’aspetto di un emirato e la “Basilicata coast-to coast” è solo un bel film.

Per capire il grande inganno del petrolio bisogna dare un’occhiata ai numeri. Dai 25 pozzi attivi in Val d’Agri, la Basilicata estrae l’80 per cento della produzione petrolifera italiana, il 5-6 del fabbisogno nazionale. Le compagnie petrolifere, l’Eni e la Shell, in particolare, puntano a passare dagli attuali 80mila barili al giorno ai 104 mila previsti da un accordo del 1998, più altri 25 mila che dovrebbero venir fuori dal miglioramento delle tecniche estrattive. Con l’ampliamento del Centro oli di Viggiano e l’entrata in funzione dell’impianto Total di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, la Basilicata raddoppierebbe la sua produzione petrolifera fino a 175 mila barili al giorno, il 12% del consumo italiano.

L’illusione di un improvviso benessere si chiama royalty, la quota che le compagnie pagano allo Stato italiano per lo sfruttamento dei pozzi. Una legge del 1957 definiva un sistema di sliding scale royalty che andava dal 2 al 22% a barile, nel ‘96 una nuova normativa bloccò la percentuale al 7. Un vero eldorado per le compagnie. Che in Italia pagano molto di meno rispetto alla Norvegia e all’Indonesia, dove le royalty sono all’80%, o alla Libia, 90, mentre in Canada i governi locali si lamentano perché giudicano insufficiente il 45% che incassano su ogni barile. Solo le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano.

Nel 2010, anno d’oro per l’Eni (utile netto di 6,89 miliardi), la quota destinata alla regione e ai comuni lucani, più il 2,10% per il fondo benzina, è stata di 110 milioni. Pochissima cosa rispetto a quella che qui chiamano la “royalty camuffata”, quel 42% di tasse che lo Stato impone alle compagnie petrolifere.

Un bel business. La recente inchiesta che ha obbligato alle dimissioni la ministra Guidi e fatto traballare il governo non è destinata a cambiare gli affari ma solo a regolare i conti all’interno dell’attuale classe dirigente.
Il malaffare è normale nell’assegnazione di appalti e concessioni. Di tanto in tanto un’inchiesta manda all’aria equilibri consolidati. Ma è solo questione di tempo. Il tempo necessario a mettere in sella altri attori nell’eterna sceneggiata della spartizione dei beni pubblici a fini privati.
In Basilicata restano i danni alla salute e all’ambiente, senza neppure i benefici delle royalty.

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