Categoria: autogestione

Marcia No Tav. Il futuro non si delega!

Sabato 6 maggio il movimento No Tav ha promosso una grande marcia da Bussoleno a San Didero.
Appuntamento ore 12 alla stazione di Bussoleno

Uno spezzone anarchico parteciperà alla marcia con lo striscione “Il futuro non si delega! Azione diretta autogestione”.

Il governo vuole, costi quel che costi, imporre con la forza la realizzazione di una nuova linea ferroviaria inutile, costosissima, nociva per la salute e il territorio.

In ballo c’è molto più di un treno. In ballo c’è la necessità di piegare e disciplinare un movimento che ha saputo resistere e lottare per 25 anni. Nel 2005 un’insurrezione popolare fermò un progetto ormai entrato nella fase esecutiva. Nel 2011, dopo anni di melina, consapevole di aver riportato all’ovile solo il leader istituzionale del movimento, il governo decise di usare nuovamente la forza. La realizzazione di un’opera accessoria, un tunnel di sei chilometri e mezzo a Chiomonte, è costato processi, condanne, ossa spezzate.

Un migliaio di persone sono state inquisite, processate e condannate, per aver partecipato attivamente ad un movimento che non ha mai voluto avere un mero ruolo testimoniale.

Oggi l’eco mediatica intorno al movimento No Tav si è spenta.
Non per caso.
Il momento è cruciale. A gennaio il parlamento italiano ha ratificato il trattato con la Francia sulla Torino Lyon, il CIPE ha approvato il progetto definitivo della tratta internazionale, sono partiti gli espropri e le procedure preliminari per l’inizio dei lavori in Bassa Valle, a Bussoleno, Susa, San Didero e Bruzolo.

La realizzazione della nuova linea ad alta velocità ferroviaria, che consegnerà la Val Susa al destino di corridoio logistico per le merci è ormai giunto al momento dell’apertura dei cantieri.

Cantieri enormi che modificheranno per sempre la vita degli abitanti, mettendo a repentaglio la salute di tutti. Camion carichi di smarino e polveri d’amianto percorreranno la valle a est come a ovest, il dispositivo militare oggi presente solo a Chiomonte investirà anche zone densamente abitate. La perdita di falde acquifere sarà inevitabile e irreversibile.
La lucida profezia fatta 25 anni fa dal movimento No Tav rischia di trasformarsi in dura realtà.

Il governo sta provando a logorarci. Fa conto sulla rassegnazione, sulla difficoltà a fermare cantieri difesi da esercito, polizia, carabinieri blindati.
La ferita nella montagna di Chiomonte è aperta a fa male.
Il movimento No Tav ha sulle spalle il peso della speranza che ha rappresentato per tanta gente di ogni dove.
Il rischio è l’usura dei sentimenti, anestesia del tempo che trascorre, il ripetersi dei passi già fatti, dei sentieri che conducono là dove la ferita si allarga. Forte è tuttavia l’orgoglio di esserci, di tenere duro, di continuare a dare del filo da torcere ai nostri avversari.
Il grande tunnel lo faranno scavando dentro la montagna, partendo dalla galleria di Chiomonte. Una scelta costosa e rischiosa. Una scelta dettata dalla paura di aprire subito un grande cantiere a Susa. Il segno chiaro che, nonostante le dichiarazioni di vittoria, il governo continua a temere il movimento No Tav.

L’imposizione violenta dei nuovi cantieri non è l’unico pericolo. Il pericolo maggiore è l’illusione della delega, la seduzione a 5Stelle che ha colpito tanta parte di un movimento, che pure è consapevole, che la strada percorsa sinora è stata fatta appoggiandosi saldamente sulle due gambe di tutti.

L’azione repressiva lungi dal dividere il movimento lo ha rinforzato nell’azione solidale, nell’appoggio ai carcerati, ai condannati. Ma ha scavato nel profondo. Non si sono scalfite le convinzioni, si è tuttavia allargata la distanza tra chi fa e chi applaude, ri-aprendo la strada a percorsi istituzionali e di delega.

La delega istituzionale rilegittima la macchina di chi si arroga il diritto di decidere per noi, di chi giocherà la sua partita ad un tavolo dove il banco vince sempre e prende tutto. Per prima la nostra libertà.

Troppe volte la febbre elettorale ha attraversato la Val Susa assorbendo energie enormi, sottratte alla quotidianità della lotta.

Qualche crepa comincia a vedersi. La “sindaca No Tav” di Torino ha preso le distanze dai “pochi violenti” giustificando così le violente cariche contro gli spezzoni degli anarchici, dei centri sociali e dei No Tav al corteo del Primo Maggio.
Lo stesso giorno si era congratulata con il PM Rinaudo e con la polizia per gli arresti di sei anarchici attivi nelle lotte a Torino e in Valle. Lo stesso Rinaudo protagonista di tante inchieste contro i No Tav.
Le parole di Appendino sono destinate a lasciare il segno.
Troppe volte politici “amici” le hanno usate per spingere alla rinuncia ad ogni resistenza attiva.

Tante volte la grande favola della democrazia si è sciolta come neve al sole. Ogni volta che libertà, solidarietà, uguaglianza vengono intese e praticate nella loro costitutiva, radicale alterità con un assetto sociale basato sul dominio, la diseguaglianza, lo sfruttamento, la competizione più feroce, la democrazia mostra il suo vero volto.
La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti opinione ineffettuale, mero esercizio di eloquenza, semplice gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia si fa discorso del potere che nega legittimità ad ogni parola altra. Ad ogni ordine che spezzi quello attuale.

È importante che la memoria non vacilli: i No Tav hanno sostenuto ed appoggiato la pratica dell’azione diretta contro il cantiere e le ditte collaborazioniste, i blocchi delle strade e delle ferrovie, lo sciopero generale, le grandi marce e i sabotaggi.
Fermare il Tav, costringere il governo a tornare su una decisione mai condivisa dalla popolazione locale è la ragion d’essere del movimento No Tav.
L’8 dicembre 2005 fu il culmine della rivolta contro il TAV. Ma già allora non era c’era in ballo molto di più: la libertà e la dignità di chi non tollerava l’imposizione con la forza di una scelta non condivisa.
Nessuno lo pianificò ma accadde. I primi a stupirci fummo noi. Le barricate, i tronchi in mezzo alla strada, il blocco delle strade furono la risposta all’occupazione militare.
La Valle divenne ingovernabile.
La Valle deve tornare ad essere ingovernabile.

Lunghi anni di azione diretta, confronto orizzontale, costruzione di percorsi decisionali condivisi sono stati una straordinaria palestra di libertà. Tutti noi portiamo nei nostri cuori, nella memoria viva del nostro movimento Venaus e la Maddalena. Libere Rebubbliche, vere comuni libertarie, dove la gerarchia si è spezzata facendo vivere un tempo altro.

Il futuro non si delega: oggi come allora solo l’azione diretta, senza passi indietro, può creare le condizioni per fermare ancora una volta la corsa folle, di chi antepone il profitto alla vita e alla libertà di tutti.

Vi aspettiamo numerosi.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

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Livorno. In piazza contro il governo

Lo scorso sabato si è svolta a Livorno una manifestazione contro il governo.
Il corteo era stato indetto dall’Assemblea verso il 18 febbraio, cui hanno partecipato la Federazione Anarchica Livornese, il Collettivo Anarchico Libertario, l’Assemblea Autonoma Livornese, l’Asia-USB, il Centro Politico 1921, la Communia Livorno, l’Ex Caserma Occupata, l’Unicobas e l’Unione Inquilini.

La manifestazione, diverse centinaia i partecipanti, ha attraversato il centro cittadino in modo forte e determinato.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con un Tiziano, un compagno di Livorno.

Di seguito il volantino della Federazione Anarchica Livornese e del Collettivo Anarchico Libertario:
Contro tutti i governi, azione diretta, autogestione!
I governi non cambiano. Oggi Gentiloni, ieri Renzi, l’altro ieri Letta, prima ancora Monti, prima di lui Berlusconi e così via: le politiche sono le stesse. Disoccupazione, precarietà, rapina dei salari, politiche di guerra, razzismo, tagli alla spesa sociale. Ogni governo si fonda sul legame con il capitale, con la Chiesa, con l’apparato militare. I governi fanno leva sempre sugli stessi elementi: impongono povertà e sfruttamento, per mantenere uno stato di perenne bisogno e di controllo; chiedono continuamente sacrifici, negano persino beni essenziali come la casa, o il diritto alla salute. Chi governa cerca di disarmare gli sfruttati, racconta balle, divide, reprime. E così ci raccontano che c’è la crisi anche quando i quattrini si trovano per qualsiasi cosa, dalle banche, ai superstipendi dei dirigenti, alle spese militari. Cercano di farci vedere il nemico in ogni immigrato per dividerci ed impedirci di individuare il vero nemico; reprimono con denunce, multe e diffide chi prova ad opporsi.Il nuovo governo non è da meno di chi lo ha preceduto: dopo l’approvazione della legge di stabilità, si prepara ad imporre nuovi tagli per accontentare le richieste dell’Unione Europea; ha proseguito con le iniziative di rifinanziamento delle banche; ha recentemente sfornato un pacchetto sicurezza degno di una dittatura. Il movimento di opposizione sociale che si manifesta nelle lotte in difesa del reddito, contro i licenziamenti, per l’ambiente, nelle varie campagne di solidarietà, non può essere incanalato nelle logiche parlamentari, come segnala l’astensione crescente alle elezioni.I regolamenti di conti interni al Pd coinvolgono protagonisti delle campagne antiproletarie: Renzi, Bersani, D’Alema e compagnia. L’opposizione sovranista e le forze reazionarie, dal Movimento 5 stelle alla Lega e ai gruppi fascisti, fanno leva sul sentimento razzista e antiproletario, agitando la campagna contro l’euro e gli immigrati. Con questi slogan vuoti cercano di nascondere il loro coinvolgimento in tutte le misure antipopolari. Non ci spaventa l’arroganza dei fascisti che, anche quando si mostrano in doppio petto non riescono a mascherare l’ignoranza, la violenza e l’odio contro i ceti popolari che li ha sempre caratterizzati. Non è un cambio della moneta che farà aumentare i nostri salari, sarà anzi l’occasione per gli speculatori di sempre per arricchirsi alle nostre spalle! Le case popolari non ci sono, la sanità e la scuola sono allo sfascio per colpa dei tagli decisi dai governi: sono loro i nostri nemici, non gli immigrati! Nuove elezioni non risolveranno i nostri problemi! La possibilità di cambiamento reale sta nelle nostre mani, non può essere delegata a nessun parlamentare, a nessuna istituzione, a nessun governo!Il cambiamento si costruisce dal basso, dai posti di lavoro, dalle scuole, dal territorio, dai momenti di lotta che ci vedono uniti contro le politiche di sfruttamento.

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Torino. Scritte al consolato greco (e a Rifondazione)

Martedì 2 agosto. Sabato 30 luglio a Torino, al Balon, si è svolto un presidio solidale con i compagni greci in lotta contro deportazioni e centri di detenzione per immigrati a Salonicco.
“Dalla Grecia all’Italia. Rivolta contro lo Stato” è lo striscione aperto al presidio, lo stesso che venne inaugurato in occasione di una manifestazione al consolato greco il 12 dicembre del 2008, quando la rappresentanza greca sotto la Mole venne occupata dopo l’assassinio di Alexis Grigoropulos, anarchico di 15 anni freddato dalla polizia sei giorni prima ad Atene.
Domani si svolgerà il processo ai compagni arrestati durante lo sgombero di Orfanotrofeio e Karoloudil, due case occupate che offrivano ospitalità a profughi e migranti. Gli occupanti dell’altra casa, Nikis, sono stati condannati la scorsa settimana.

Numerose scritte solidali sono apparse sui muri di Torino. Alcune foto sono state pubblicate sul sito di Indymedia Svizzera.
La scritta “Contro sgomberi e deportazioni solidali con i compagni greci!” è stata fatta al consolato greco di corso Galileo Ferraris 65, “Tsipras come Salvini. Solidarietà con i greci in lotta” è comparsa in via Brinsisi 11, sui muri della sede di Rifondazione Comunista, che si è gemellata alle europee con Syriza, il partito oggi al governo in Grecia. Syriza sta facendo le stesse politiche della destra: macelleria sociale, muri, deportazioni, arresti e sgomberi.
Nostra patria è il mondo intero!

Di seguito il volantino distribuito al Balon e durante la marcia in No Tav del 30 luglio da Giaglione al fortino di Clarea

Abbattere i muri, aprire le frontiere!

Il 27 luglio alle prime ore dell’alba, i poliziotti del MAT, l’antisommossa greca, hanno sgomberato tre case occupate, Nikis, Orfanotrofeio e Karoloudil.
Si trattava di occupazioni abitative che ospitavano profughi e migranti.
Orfanotrofeio è stata immediatamente demolita per impedire ulteriori occupazioni.
Profughi e migranti sono stati rinchiusi negli Hot Spot, i centri di detenzione, della zona, in attesa di essere deportati, 100 compagni e compagne sono stati arrestati.
In risposta all’operazione repressiva è stata occupata la sede del partito di governo, Syriza. Dopo due giorni di occupazione la protesta è cessata quando, nel tardo pomeriggio del 28 luglio. è arrivata la notizia che tutti gli attivisti arrestati erano stati liberati.
Gli ex occupanti di Nikis sono stati subito processati e condannati con la sospensione condizionale della pena, il processo per gli altri è stato fissato il 3 agosto.
In serata è stato occupato un altro edificio per ospitare profughi e migranti.

Il governo greco, la sinistra di al potere, ripercorre le stesse strade di quella italiana, che, passata dall’opposizione al governo contribuì all’apertura dei CIE, appoggiò la guerra, l’industria bellica e la chiusura delle frontiere.

I compagni del gruppo dei comunisti anarchici di Salonicco scrivono nel comunicato diffuso dopo l’operazione repressiva: “Il messaggio che il governo di sinistra vuole trasmettere è che non c’è nessuno spazio per risposte solidali e autogestite alla difficilissima situazione dei rifugiati. É ammessa solo la carità di Stato.” La ricetta è semplice “esclusione, emarginazione e deportazione selettiva effettuati da un governo che segue alla lettera le politiche criminali sull’immigrazione dell’Unione Europea.”
Lo sgombero è avvenuto solo un paio di giorni dopo la fine del No Border Camp a Salonicco, che ha unito migliaia di attivisti da tutto il continente per protestare contro queste stesse politiche. I No Border sono la rete di chi lotta contro le frontiere, per la libera circolazione di tutti.
Uno degli squat sgomberati, Nikis, era una vecchia occupazione aperta a famiglie di rifugiati. Un altro, Orfanotrofeio, è stato (ri) occupato lo scorso anno proprio per dare rifugio a immigrati e rifugiati in maniera autogestita. Karoloudil, che si trovava in pieno centro, era stato occupato pochi giorni prima, per offrire un nuovo posto dove vivere ai rifugiati e ai migranti.
Sotto le macerie di Orfanotrofeio sono state sepolte tonnellate di medicine, cibo, vestiti e oggetti di prima necessità che tanti avevano offerto per le famiglie dei rifugiati, che hanno perso anche le loro poche cose.

Il governo di Syriza continua a perseguire politiche autoritarie. “Dopo aver applicato disastrose misure di austerità che i precedenti governi di destra non erano stati in grado di imporre, compete con la peggior destra anche nel campo della repressione più pesante, per tutti e tutte coloro che continuare a lottare per la libertà e la dignità umana.”

Non ci sono governi “amici”. Le illusioni sul governo greco, diffuse anche nella triste sinistra italiana, si sono dissolte, seppellite sotto le macerie di Orfanotrofeio, di Idomeni, negli occhi di chi viene ricacciato a forza verso l’inferno da cui è fuggito.

In Grecia, come nel resto d’Europa, si moltiplicano i muri, le prigioni per chi fugge guerra e povertà, le deportazioni nella Turchia, alleata dei macellai dell’ISIS, dove torture, epurazioni, arresti di oppositori, chiusura di giornali sono pane quotidiano.

L’unico argine alla chiusura delle frontiere, alla detenzione amministrativa, alle deportazioni è l’azione diretta, la solidarietà dal basso, la liberazione di spazi abbandonati.
Anche in Italia ci sono frontiere serrate da Ventimiglia al Brennero, dal Mediterraneo alle Alpi. Anche in Italia c’è chi si mette di mezzo, chi occupa spazi, chi, insieme ai profughi e ai migranti, lotta contro le frontiere, gli stati, gli eserciti e le polizie.

Federazione Anarchica Torinese
www.anarresinfo.noblogs.org

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Barricate e vernice rosa al Rog di Lubiana

Lunedì 6 giugno c’è stato il primo tentativo di sgombero di Rog, centro sociale a Lubiana occupato da 10 anni. Rog è molto vicino al più noto Metelkova.
In mattinata occupanti e solidali hanno respinto la ruspa che provava a demolire di una delle palazzine del complesso. La ruspa è stata circondata e non è riuscita più a muoversi: ora è al centro del cortile dipinta di rosa. Se la demolizione, anche parziale, riuscisse, sarebbe il via ufficiale ai lavori per un nuovo edificio che porterebbe pian piano allo sgombero dell’intero centro sociale che ospita tantissime realtà: gallerie d’arte, rampe da skate, collettivi di solidarietà ai rifugiati…
Gli attivisti e solidali – in prima fila i compagni e compagne del gruppo anarchico di Lubiana – sorvegliano le barricate giorno e notte perché è probabile un nuovo tentativo di entrare entro il 14 giugno, data ultima per l’inizio dei lavori.
Se non venisse rispettata quella scadenza la ditta che ha avuto in appalto i lavori perderebbe la commessa e il comune di Lubiana dovrebbe far ripartire tutto l’iter burocratico.
Dolpo la resistenza di lunedì la ditta incaricata dei lavori e il sindaco sindaco l’8 giugno si sono rivolti al tribunale per richiedere l’intervento della polizia per permettergli di entrare al Rog e iniziare le demolizioni. Ci si aspetta un nuovo attacco, questa volta più deciso.
I media stanno dando grande attenzione alla resistenza del Rog. In un video sulla resistenza alla lotta si vede la security privata della ditta atterrare violentemente un ragazzo.

Il Rog ha lanciato un appello ad andare a Lubiana per sostenere la lotta.
Molti compagni e compagne hanno risposto da Trieste.
Di seguito la breve testimonianza di uno di loro: “Un’altra città, una di quelle dove non capisci un acca di che cazzo dicono ma in cui ti senti sempre a casa. Un posto occupato sotto sgombero. Un assemblea in tarda sera coi compagni e compagne con solo la luce di una candela e senza cellulari. Si parla di barricate e resistenza. E poi un paio di giri di perlustrazione e verso le 3 a nanna dentro il sacco a pelo, accanto il casco e il fazzolettone perché stanotte non dovrebbe succedere nulla ma non si sa mai.
Sveglia presto per tornare a casa e a lavoro. Dentro una gran voglia di tornare e una sensazione di vita che solo chi è militante può capire. Rog resiste!”

Qui stralci dell’appello del Rog
Rog, sotto attacco da più di 10 anni contro la gentrificazione e il capitalismo
Artisti, attivisti, filofosofi, membri di gruppi e collettivi, siamo riuniti insieme nella fabbrica abbandonata da più di 10 anni.
Il nostro lavoro è basato sull’autonomia, la solidarietà e il mutuo aiuto.
Il Comune di Ljubljana ha deciso di ignorare le iniziative che si svolgono alla fabbrica e di farla finita con la ricchezza di attività il cui obbiettivo è di impedire la gentrificazione del centro città, che verrebbe “riqualificato” per turisti e artisti “riconosciuti”.
Venite di persona proteggiamo insieme il rog!”
La solidarietà è un arma!”

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Ridi pagliaccio

Il ghigno del clown è più triste e duro di una disperata pietà marmorea (Euf.)

Nel “18 di Brumaio” Karl Marx sosteneva che le tragedie, quando si ripetono, si volgono in farsa. La parabola di questi primi due decenni del nuovo millennio, lungi dal chiudere i conti con il secolo breve, ne mima tragedie ed utopie in farse spesso tragiche. Mai, però, davvero serie.

Viviamo i tempi dell’usa e getta, della vita regolata dal ritmo della merce. L’obsolescenza programmata è garanzia di crescita economica, lo spreco criminale un mero effetto collaterale.
Il pianeta che arde, i mari che si innalzano, il deserto che cinge d’assedio le vite di milioni di persone è solo uno show tra i tanti. I Grandi della terra hanno suonato la grancassa sulla salvezza del pianeta prima dell’ultima conferenza sul clima di Parigi, ma nulla si è mosso dopo il clamoroso flop finale. Le emozioni si erano ormai esaurite: era tempo di guardare altrove.
La distopia orwelliana del controllo globale si è consumata nell’acquario del Grande Fratello televisivo, mentre, senza traumi, le tecniche del controllo globale irrompevano nella quotidianità, trasformando ogni luogo in un set cinematografico. Come lumache ci muoviamo lasciandoci alla spalle una traccia di bava elettronica. Sottrarsi è quasi impossibile. Molti nemmeno lo vorrebbero.
Nel magico mondo di Facebook le persone si espongono allo sguardo di centinaia di “amici” mai visti e si sottopongono a continui sondaggi per ogni genere di marketing ed inchiesta.
Non c’è nessuna forma di coercizione, basta un click per fuggire, ma non c’è bisogno di psicopolizia, perché tutti sono felici di entrare nel Luna Park. E la giostra gira senza fine. Chi non sale è fuori dalla società, non è dentro il flusso delle cose che succedono, degli “eventi”, delle “relazioni”.
Nel libro delle facce scorre tutto: dalle teste mozzate esibite dagli adepti del jihad globale, alle tecniche di coltivazione dell’orto bio.
Il Novecento ha inaugurato la dittatura del nuovismo, della giovinezza come categoria politica, ma non è riuscito a liberare l’umanità dalla schiavitù del futuro. Oggi invece viviamo intrappolati nel presente, senza un domani, che non sia un “altro” oggi. Persino l’indignazione di fronte alla guerra, alle migliaia di morti, feriti, torturati si esaurisce in fretta. Quest’estate le immagini dei profughi siriani, la fotografia di un bimbo piccolo, rannicchiato come nel sonno, le onde e la sabbia come sudario, si è presto sciolta nella memoria.
Click, click, click! Gira ossessiva, un pungolo per le coscienze, poi la foto del bambino scompare: al suo posto c’è la gatta Kitty e i suoi cuccioli, un tramonto al mare, una barzelletta, una carica della polizia, un articolo sui danni del cioccolato… Un bombardamento si mescola con le prime istantanee del nipotino di chissachi da qualche parte.
Tutto scorre ma nulla si ferma, neppure le tragedie vere balzano fuori dal Luna Park. Anzi. Vi si installano come gli orrori di cartapesta di una casa di fantasmi che svetta accanto al banchino del torronaio e al tirassegno.
La messa in scena della guerra la rende irreale, parte dello spettacolo. Nulla che ci riguardi davvero.

I fantasmi del Novecento
Non c’è ragionare ed agire di trasformazione sociale che possa prescindere dal Luna Park.
I movimenti che si sono sviluppati negli ultimi vent’anni hanno provato a chiudere definitivamente i conti con il Novecento, ma ci sono riusciti solo in parte. Il tramonto delle filosofie della Storia, l’annullarsi dell’ipoteca del futuro sul presente, la coerenza tra mezzi e fini sono tasselli importanti in un processo rivoluzionario di segno libertario. In questi anni è stata netta la chiusura di credito nei confronti della tradizione autoritaria dei movimenti anticapitalisti.
Scrollarsi di dosso il peso delle grandi narrazioni ha liberato energie che si sono espresse nella tensione a processi di trasformazione sociale i cui primi frutti maturano già ora, rendendo fertile il terreno per forme di esodo conflittuale dall’ordine politico e sociale nel quale siamo forzati a vivere.
Tuttavia smuovere i macigni è più facile che uscire dalla vischiosità del presente, dalla volatilità del fluire informativo, dal ritegno a confrontarsi con una prospettiva rivoluzionaria, che non appare né vicina né probabile. L’ansia per la concretezza smorza la tensione progettuale, condizionando fin anche la riflessione sulla situazione e sulle possibilità che si offrono.
La democrazia (e il capitalismo) sono divenuti a tal punto pervasivi da farci credere di essere l’unico orizzonte possibile. Non il meglio, ma il meno peggio. La tensione al rovesciamento dell’ordine politico è sociale si inabissa con il Novecento.
Tanta parte dei movimenti non riesce ad andare oltre lo spazio di una singola, specifica lotta, perché non riesce ad immaginare come costruire un percorso che, al di là dell’occasionale radicalità dell’agire, sappia porre in primo piano la forza sovversiva dei propri fini.
Eppure oggi farla finita con l’ordine gerarchico e con la logica del profitto, non è mero esercizio di prefigurazione utopica, ma deflagrante necessità imposta dalla furia distruttrice che devasta e saccheggia il pianeta, condannando a morte e miseria la gran parte di quelli che ci vivono.
I movimenti degli ultimi anni, specie in Europa, chiudono la loro parabola nella desolante “concretezza”, di una lista elettorale o nell’illusione che il cocktail di demagogia più internet offra spazi partecipativi altrimenti inattingibili. È l’esito delle piazze “indignate”, dove la ri-scoperta dell’autonomia dello spazio politico ha ceduto il passo alla rincorsa alle poltrone, smarrendo la forza dirompente del momento istituente. È l’approdo delle piazze greche, che nel febbraio del 2012, negavano legittimità ad ogni governo, bruciando banche e ministeri. Quel febbraio si è smarrito nel realismo che ha portato ad un governo dei “movimenti”, l’unico che poteva (potrà?) tenere a bada le piazze elleniche.
Il consenso, registrato qua è là, verso pratiche di lotta più radicali, che parevano sepolte nel passato, non basta a spezzare la fascinazione istituzionale, quando non si traduce in reale, concreta sottrazione al gioco elettorale, nella pratica di forme di autogoverno, nell’apertura di spazi pubblici non statali.

In tanta parte del nord africa e in Siria le primavere di rivolta si sono inacidite in dittature e jihad. Una tragedia vera che ha il sapore della farsa.
Troppo facile una lettura in chiave meramente reattiva. Le dinamiche neocoloniali che hanno investito questi paesi hanno contribuito ad alimentare un potente risentimento, una desiderio di riscatto, un rifiuto di ogni prospettiva, foss’anche rivoluzionaria, che abbia il retaggio dell’Occidente.
Se fosse tutto qui gli esiti avrebbero potuto essere ben altri, come dimostra il percorso delle comunità del Bakur e del Rojava, passate da un nazionalismo in salsa marxista al rigetto dell’idea di Stato-nazione in chiave di autogoverno, femminismo ed ecologia sociale.

Nel barile della jihad, come in quello dei movimenti xenofobi, ultranazionalisti e razzisti che crescono nel cuore dell’Europa, c’è l’horror vacui di fronte ad un ordine del mondo che non ha più futuro. Nemmeno nella ripetizione dell’oggi.
Il nemico non è l’Occidente o la Democrazia o la Globalizzazione, ma la paura. La paura che si nutre di fantasmi, tanto potenti quanto invisibili. L’estrema destra ha trovato spazio in paesi come l’Ungheria o la Slovacchia, paesi che certo non attraggono immigrati e profughi, ma dove il futuro appare incerto.
Il vento della jihad soffia nelle banlieue francesi come in paesi ricchi come la Libia. La guerra santa offre un luogo dove ri-trovare se stessi, uno spazio identitario forte, un vaccino contro la paura.
Chi ne da una lettura anticapitalista e banalmente antimperialista non coglie che gli stessi che fracassano gli strumenti musicali e riducono in schiavitù le donne viaggiano in rete, usano i satellitari, sono, a pieno titolo, uomini ultramoderni.
Non si contentano di mostrare decapitazioni, torture e crocefissioni: sono ormai passati dalla spettacolarizzazione della morte all’esibizione di morti sempre più spettacolari.
Nulla dura: se si vuole mantenere alta l’audience servono numeri sempre più scenografici. I jihadisti sono a pieno titolo dentro il Luna Park.

La guerra mondiale che ha l’epicentro in Siria potrebbe presto allargarsi in modo incontrollato.
Incepparla non sarà facile, perché la paura rischia di crescere ancora, perché la scelta di rifugiarsi sotto una bandiera potrebbe trovare nuovi adepti.
Coniugare la pratica autogestionaria dei movimenti e una prospettiva di trasformazione globale chiude davvero i conti con quella parte del Novecento, che pretendeva di ipotecare l’oggi al domani. Liquidato il peso della Storia, si tratta di sciogliere la vischiosità del presente senza resuscitare la dittatura del futuro.
(Quest’articolo è uscito questo mese su A rivista)

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Storie di periferia. Sgomberi, occupazioni, deportazioni

Era la più grande baraccopoli d’Europa. Difficile dire quanta gente abitasse in lungo Stura Lazio. Un luogo oltre la stessa periferia: il fiume, le casette di lamiera e assi, l’immondizia, i topi. Di fronte gli stabilimenti dell’Iveco, oggi divisi nello spezzatino del dopo Fiat, pur nella crosta imponente della vecchia fabbrica.
Lungo i marciapiedi le prostitute a poco prezzo, tutte venute da qualche altro margine di questo mondo. Questi margini non sono sottili e bianchi, come nei quaderni delle elementari, sono enormi, sozzi, un luogo limite tra la discarica e il nulla.

Eppure. Eppure se si vinceva la voglia di scappare via e si imboccavano le stradine che portavano nel cuore del campo, ci si accorgeva che in Lungo Stura c’era una piccola città. Tendine alle finestre, il bagliore di una TV o di un computer, i bambini che giocavano. Nelle narici il puzzo dell’immondizia si mescolava al fumo delle stufe a legna. Di sera i generatori di corrente erano un rumore di fondo cui si finiva con il fare l’abitudine.
Pur nella miseria si coglievano i segni di una vita che aspirava ad essere come quella di tutti gli altri, quelli che abitavano nelle case, avevano l’acqua, il bagno, la corrente, il riscaldamento.
L’aspirazione di chi governa la città è una sola, far sparire i poveri. Visto che eliminare la povertà è un agire eversivo estraneo alla cultura e alla pratica del Partito Democratico, l’importante era nascondere la polvere sotto il tappeto.
Se non ci fossero stati di mezzo i soldi forse questa storia sarebbe stata diversa.
I cinque milioni e rotti di euro stanziati dal Ministero dell’Interno per “l’emergenza rom” a Torino sono stati utilizzati per realizzare il progetto “La città possibile”. Il progetto, messo in atto dall’unica cordata di associazioni e cooperative che aveva partecipato alla gara d’appalto, prevedeva l’inserimento progressivo delle famiglie “meritevoli” in appartamenti o social housing. All’inizio l’affitto era basso, ma in pochi mesi è arrivato a prezzi da mercato. Poco a poco le famiglie vengono gettate in strada, senza alcuna alternativa.
Per due anni tutto è filato liscio. Non c’erano elenchi chiari di chi era dentro e chi fuori dal progetto. Chi entrava doveva collaborare con lo zingaro-kapò incaricato delle demolizioni a rendere inabitabile la propria baracca. Doveva “dimostrare” la propria volontà di “superare il campo”, come se la baracca fosse un destino etnicamente programmato e non un obbligo imposto dalla povertà, dall’impossibilità di pagare un affitto. Non basta servire il Grande Fratello, bisogna amarlo. La mimesi delle dinamiche tipiche dell’universo concentrazionario non è casuale. Il ridurre le persone a minori da tutelale o minorati da sterminare è all’origine profonda di ogni forma di razzismo.
O accetti le mie regole e “cresci” o le rifiuti e vieni eliminato. Pochissimi ce l’hanno fatta, perché le carte erano truccate. Chi non ha un reddito adeguato, non può pagare affitti a prezzo di mercato. La gente delle baracche vive riciclando e vendendo le cose che pesca nei cassonetti. Si muovono discreti con un gancio per muovere l’immondizia, qualcuno gira con vecchi passeggini, un carretto per la spesa, i più fortunati hanno una bici con una grossa cassetta. Qualcuno raccoglie metalli, li rivende a italianissimi grossisti che guadagnano bene, mentre chi rovista le discariche, smonta i posti abbandonarmi, rischia molto ma guadagna pochissimo. Al campo ogni giorno arrivavano camioncini pieni di rottami, macerie, amianto, che venivano scaricati senza spendere per il conferimento in discariche autorizzate. La gente del campo accettava, sperando di trovare qualcosa di buono da rivendere.
I comitati razzisti e fascisti promuovono periodicamente marce per lo sgombero, protestando per i fumi tossici e chiudendo gli occhi sul resto.
I “fortunati” dei social housing, vengono gettati in strada poco a poco, per evitare che si uniscano agli altri sfrattati e sgomberati e decidano di lottare.

Per la maggior parte degli altri, quelli giudicati indegni di “emergere”, incapaci per “natura”, tarati all’origine, c’è stata solo violenza. Sgomberi progressivi si sono susseguiti per due anni. Le ruspe operavano selettivamente, perché i salvati non si unissero ai sommersi, perché non deflagrasse la forza di migliaia di persone gettate in strada.
Nel mezzo la vita quotidiana. Una vita con regole sue, dove le pur esili tutele garantite di cui godono gli altri, quelli del mondo di sopra, non valgono. Senza residenza, senza tessera sanitaria, senza lavoro in regola vivi nel limbo, rischiando ogni giorno un decreto di espulsione o un viaggio di sola andata in Romania. Se resti nascosto, se tieni la testa basta, se non protesti per i soprusi quotidiani, forse te la cavi, altrimenti finisci nel mirino di vigili urbani, polizia, magistratura, assistenti sociali. Al campo c’erano tantissimi bambini: il ricatto sui figli,il più odioso, è anche il più efficace. E’ l’arma più usata dalle istituzioni e dalle associazioni per piegare ogni accenno di protesta, per convincere i riottosi, per sedare gli animi più caldi.
L’amministrazione comunale di Torino è stata molto abile. Tra promesse e minacce, tra illusioni e repressione è riuscita a trasformare la più grande baraccopoli d’Europa in un cumulo di macerie, disinnescando una miscela potenzialmente esplosiva.
Le associazioni amiche – Valdocco, Terra del Fuoco, Strana Idea, Liberi Tutti, Aizo, Croce Rossa Italiana – hanno assorbito i soldi, il vice sindaco Tisi si è appuntato un fiore all’occhiello, la baraccopoli non c’è più. L’ultima manciata di casette è stata buttata giù il 10 dicembre.

Tutto perfetto? Non proprio.
Un gruppo di famiglie sgomberate dal campo, sfrattate dai social housing, dopo un anno di assemblee, incontri, conoscenza con un alcuni antirazzisti e anarchici torinesi, quando la rassegnazione pareva prevalere, ha deciso che la misura era colma. Hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo.

Alla fine di settembre Aramis, un ragazzo del campo ha reagito contro l’intimazione ad abbandonare la sua baracca. Tre vigili del nucleo nomadi lo hanno bloccato a terra, hanno sparato spray urticante, hanno minacciato tutti estraendo la pistola, poi l’hanno arrestato con l’accusa di aggressione. Al processo un paio di video girati con il telefonino da altri abitanti del campo hanno smentito le dichiarazioni dei vigili in tribunale.
Il 12 ottobre a centinaia hanno attraversato il centro cittadino per raccontare la loro storia, con un corteo aperto da uno striscione bianco con una scritta rossa “no a sgomberi e sfratti. Casa per tutti/e!”. Quello striscione sarà il simbolo di tutte le lotte successive.
Per la prima volta da molti anni gli invisibili, la gente dei margini, è scesa in strada, ha preso la parola, ha mostrato la propria determinazione nel denunciare la truffa milionaria della “Città possibile”.
Il Comune ha replicato con un ulteriore sgombero il 19 ottobre. In risposta gli sgomberati hanno occupato l’ufficio nomadi e fatto un piccolo corteo.

Il primo novembre 25 famiglie sgomberate e sfrattate si sono prese una casa occupando una parte dell’ex caserma La Marmora di via Asti. Un luogo impresso a sangue nella memoria della nostra città: in quella caserma durante l’occupazione nazifascista venivano rinchiusi, torturati e uccisi i partigiani.
Il luogo non è stato scelto a caso. Una parte dell’imponente ex complesso militare, oggi di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti, era stato occupato in aprile da Terra del Fuoco, associazione vicina a SEL, che è parte attiva del progetto “La città Possibile”. Le 25 famiglie illuse dal sogno di una casa, sgomberate dal campo, si sono prese un posto per vivere in uno spazio, in parte occupato da chi si era arricchito, sgomberando il campo. La vicenda ha un’eco mediatica enorme. La tensione tra il PD e SEL è da tempo alle stelle: proprio in quei giorni viene annunciata la candidatura dell’ex leader Cgil Giorgio Airaudo a sindaco di Torino, una mossa che mette a rischio la rielezione di Piero Fassino, che solo un mese dopo annuncerà la propria ricandidatura. Terra del Fuoco fiuta il pericolo e, dopo una reazione stizzita ed incazzata, tenta, senza riuscirci, di assorbire l’anomalia. La gente di lungo Stura ha imparato a conoscerli e intima loro di stare lontani. “Siamo qui e di qui non ce ne andiamo”
Il fior fiore della sinistra intellettuale sabauda si affaccia in via Asti. Siamo in precollina, una zona residenziale borghese, dove i baristi cacciano i rom, che entrano a prendere il caffè. E’ un succedersi di nuance tra grigio e rosa pallido.
Il 12 novembre arriva la polizia a sgombera tutti. Le famiglie gettate in strada partono in corteo e raggiungono il centro. Romeo e Catalin, due ragazzi dell’occupazione che non avevano mai chinato la testa, sono ammanettati e portati al CIE. Si fanno presidi e raccolte fondi per sostenerli. Cinque giorni dopo vengono deportati in Romania. È la vendetta contro i rom che avevano osato prendersi una casa in precollina.
Fassino, per ricucire lo strappo con Terra del Fuoco promette che le attività dell’associazione “amica” continueranno.

Qualcuno pensava che sarebbe finita lì. L’arte di seminare la paura ha moltiplicato i propri adepti. La tentazione di sparire in qualcuno dei tanti buchi neri della metropoli è forte. Ma il prezzo è alto. Occorre accettare di rintanarsi in un margine sporco dove l’invisibilità è condizione materiale e simbolica “normale”.
Le famiglie che si sono conquistate uno spazio pubblico, entrandovi con la forza della propria stessa presenza, non hanno aderito ad un qualche progetto per cambiare il mondo, non sono diventate anarchiche, anche se la maggior parte dei solidali che ne hanno appoggiato la lotta, lo sono.
Hanno però trovato del tutto normale fare tante assemblee sotto il ritratto di Bakunin che campeggia nella sede della FAT, non lontano da una bandiera nera con una grande A nel mezzo.
Il loro agire è diventato politico, quando hanno deciso di lottare contro chi li voleva schiavi, sottomessi, muti, servili. Prendere la parola, occupare una casa hanno concretizzato un agire che non era più mera strategia di sopravvivenza, ma agire per qualcosa che è più di una casa, più di un luogo fisico. È la dignità, la libertà di essere protagonisti della propria storia. La dignità non è condizione dello spirito, ma si concretizza proprio in una casa. Una casa vera.

Così il 20 novembre una parte delle famiglie sgomberate da Avion in via Asti, ha occupato una palazzina comunale abbandonata, in via Borgo Ticino, in Barriera di Milano. Uomini, donne e bambini lasciato la paura a tempi ancora peggiori.
La nuova casa si chiamava “Casa Catalin e Romeo”, dal nome dei due ragazzi deportati in Romania per aver partecipato all’occupazione di via Asti.
I vicini qui erano decisamente più amichevoli. Una domenica il giardinetto è stato aperto a tutto il quartiere. La vita dopo 20 giorni di occupazione stava riprendendo il sapore della quotidianità, fatta di abitudini, lavoro, gioco e affetti.
Il 10 dicembre la parola è tornata alle armi. Sono arrivati a “Casa Catalin e Romeo” intorno alle 9,30 del mattino. Blindati, digos, Amiat e vigili del fuoco hanno bloccato l’accesso a via Borgoticino, impedendo a tutti di avvicinarsi.
Nonostante i blocchi, un gruppo di solidali è riuscito a passare dal cortile del Lidl. Dopo un lungo tira e molla una di noi è riuscita ad entrare. Poi sono arrivati anche gli avvocati.
Al momento dell’irruzione tanti occupanti erano fuori a lavorare o a scuola. Nella casa c’erano solo una quindicina di persone, qualche anziano, alcuni ragazzi e un bambino di cinque mesi.
Tutti sono stati fotografati e identificati. Catalin è stato ammanettato e portato in questura e di lì al CIE.
Ha la testa dura Catalin. Non si è rassegnato agli sgomberi e alla deportazione. Ha deciso di tornare e raggiungere parenti e amici che avevano occupato un’altra casa.
La struttura di via Borgoticino è stata blindata dagli operai del comune al termine dello sgombero. Resterà vuota tutto l’inverno, mentre un gruppo di famiglie con figli piccoli ed anziani è di nuovo in strada.
Quell’occupazione periferica era un affronto che l’amministrazione comunale non poteva tollerare. Era la dimostrazione pratica che il progetto “la città possibile” è stato un fallimento, che la gran parte degli abitanti della Baraccopoli di Lungo Stura Lazio era stata buttata in strada senza alternative abitative.
In questi giorni il prezzo di una baracchetta al campo di via Germagnano è salito a 600 euro. Gli sgomberi hanno fatto lievitare i prezzi nel mondo di sotto.

Il sabato successivo una trentina di solidali è davanti al CIE: musica, interventi, petardi e un grosso fuoco d’artificio. I fratelli e i genitori di Catalin lo salutano, gli fanno sentire la propria presenza. Sono preoccupati per Catalin, ma anche orgogliosi di questo ragazzo, che non molla, che non abbassa la testa.
La Questura e il Comune giocano ancora la carta della paura, per costringere le persone a nascondersi nei fabbriconi gelati e fatiscenti, in baracche ai margini del nulla urbano.

Non sempre ci riescono. C’è sempre qualcuno come Catalin che si gioca la libertà per avere un tetto. C’è sempre qualcuno che alza la testa e occupa una casa.

Maria Matteo
(Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero del settimanale Umanità Nova

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Sgombero in via Borgoticino. Catalin portato in questura

10 dicembre. Sono arrivati a “Casa Catalin e Romeo” intorno alle 9,30 del mattino. Blindati, digos, Amiat e vigili del fuoco hanno bloccato l’accesso a via Borgoticino, impedendo a tutti di avvicinarsi.
Questa mattina, nonostante i blocchi, un gruppo di solidali è riuscito a passare dal cortile del Lidl. Dopo un lungo tira e molla una di noi è riuscita ad entrare. Poi sono arrivati anche gli avvocati.
Al momento dell’irruzione tanti occupanti erano fuori a lavorare o a scuola. Nella casa c’erano solo una quindicina di persone, qualche anziano, alcuni ragazzi e un bambino di cinque mesi.
Tutti sono stati fotografati e identificati. Catalin, il ragazzo portato al CIE e poi espulso in Romania dopo lo sgombero di via Asti dello scorso 12 novembre, è stato ammanettato e portato in questura.
Ha la testa dura Catalin. Non si è rassegnato agli sgomberi e alla deportazione. Ha deciso di tornare e raggiungere parenti e amici che il 20 novembre avevano occupato una casa in via Borgoticino. Una casa che si chiamava come lui e Romeo, l’altro ragazzo espulso per aver occupato in via Asti.
La Questura gioca la carta della paura, per costringere le persone a diventare invisibili, a nascondersi nei fabbriconi gelati e fatiscenti, in baracche invisibili ai margini del nulla urbano. Non sempre ci riesce. C’è sempre qualcuno come Catalin che si gioca la libertà per avere un tetto. C’è sempre qualcuno che alza la testa e occupa una casa.

Il Comune vuole chiudere i conti con i rom di Lungo Stura Lazio. Ha deciso lo sgombero dei locali di via Borgoticino, nonostante siano abbandonati e non vi sia alcun progetto per il loro riutilizzo. L’idea di farne un dormitorio è naufragata due anni fa, perché il comune sempre sull’orlo della bancarotta dopo il grande buco nero delle Olimpiadi, non aveva i soldi necessari.
La struttura di via Borgoticino è stata blindata dagli operai del comune al termine dello sgombero. Resterà vuota tutto l’inverno, mentre un gruppo di famiglie con figli piccoli ed anziani è di nuovo in strada.
Quell’occupazione periferica era un affronto che l’amministrazione comunale non poteva tollerare. Era la dimostrazione pratica che il progetto “la città possibile” è stato un fallimento. La gran parte degli abitanti della Baraccopoli di Lungo Stura Lazio è stata buttata in strada senza alternative abitative.

Due anni fa in lungo Stura c’erano oltre mille persone. Una polveriera sociale che l’amministrazione comunale torinese è stata abile a disinnescare. Cinque milioni di euro affidati alle sapienti mani di una cordata di cooperative ed associazioni che tra promesse e minacce, illusioni e violenza hanno trasformato l’area in un cumulo di macerie.
L’amministrazione Fassino mirava a sgomberare tutti, facendo leva sulla complicità degli sgomberati illusi dal miraggio di una casa che non è mai arrivata, dividendo i sommersi dai salvati.
Alla fine i nodi sono arrivati al pettine.
Si è frantumata la narrazione – intrinsecamente razzista – “sull’emersione dal campo”, come se il campo, la baracca fossero una scelta e non una necessità.
La trama logora del progetto la “città possibile”, si è lacerata del tutto in questi mesi, in cui tra cortei, occupazioni, sgomberi e nuove occupazioni, la gente delle baracche, stanca di inganni e false promesse, ha deciso di prendersi una casa.

Assemblea questa sera alle 19 alla Fat in corso Palermo 46.

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Occupata “Casa di Romeo e Catalin”

Questa sera alcune famiglie senza casa hanno occupato una palazzina abbandonata in via Borgoticino 7 – alle spalle di piazza Rebaudengo, in Barriera di Milano.

Sono uomini, donne e bambini che una settimana fa sono stati sgomberati da Avion, una palazzina della ex caserma La Marmora in via Asti. Durante lo sgombero due ragazzi dell’occupazione sono stati portati al CIE e dopo cinque giorni deportati in Romania. La nuova occupazione si chiama come loro “Casa di Romeo e Catalin”, la casa di chi lotta per la propria vita, per la propria dignità.

Le famiglie della nuova occupazione per tanti anni sono state costrette a vivere in miseria, nelle baracche ai margini della città. Recentemente, queste donne, uomini e bambini sono stati sgomberati da quello che le istituzioni hanno sempre chiamato il “campo nomadi” di Lungo Stura Lazio. Nessuna di queste persone si definirebbe un “nomade”; bastano le loro esperienze di vita per dimostrare la falsità di quello che le istituzioni vogliono far credere agli abitanti della città nei confronti di centinaia di persone che da più di dieci anni vivono a Torino.
Bisogna ascoltare le storie di vita di queste famiglie per capire come le istituzioni e mass-media hanno diffuso un racconto fondato su razzismo e discriminazione. Un racconto in cui questi uomini, donne, bambini, anziani sono presentati come una tribù che per la sua “cultura” muta spesso il luogo della dimora, come se nel loro sangue scorresse l’olio di un motore che nessuno vede.
Bisogna ascoltare la storia di queste persone per capire che per tanti versi le loro esperienze sono simili a quelle di tanti altri abitanti di Torino. Nel 2015, la città di Torino è stata nominata sulla carta “Capitale dello sport” ma sappiamo che in realtà da anni la stessa città è la Capitale degli Sfratti. Ci dicono che lo sport “deve essere patrimonio di tutti gli uomini e di tutte le classi sociali”, ma sentiamo la voce di migliaia di persone convinte che in primo luogo è la casa che deve essere patrimonio di tutti e soprattutto dei più poveri. I più ricchi, i padroni di alberghi e di interi palazzi, i governanti della “capitale dello sport”, dicevano che nel 2015 questa città avrebbe vissuto una “emozione di sentirsi comunità”. L’ipocrisia istituzionale non ha mai limiti, soprattutto in una città dove, solo nel 2014, quasi quattromilasettecento persone sono state sfrattate: queste persone sicuramente non hanno sentito l’emozione di sentirsi comunità…

Le persone che oggi hanno occupato una sede abbandonata dell’ASL hanno vissuto in Lungo Stura Lazio per necessità, e non perché “nomadi”. Dopo l’ultimo sgombero subìto nelle scorse settimane sulla riva del fiume, loro avevano deciso di occupare uno spazio abitativo all’interno della caserma La Marmora, in via Asti. L’associazione che gestiva la caserma si chiama Terra del Fuoco, insieme alla quale altre associazioni e cooperative si sono spartite più di cinque milioni di euro – soldi pubblici spesi con il progetto La Città Possibile – promettendo una casa e soldi agli abitanti del campo; mentre il comune ordinava alle ruspe di demolire le loro baracche lasciando centinaia di persone senza nessuna alternativa abitativa!

Dopo un paio di settimane li hanno sgomberati anche dall’occupazione di via Asti, dicendo che era un’occupazione illegale. Invece sei mesi prima sono stati in tanti, tra politici e magistrati, a dire che l’occupazione dello stesso posto, da parte di Terra del Fuoco, era giusta perché “ristabiliva la pubblica utilità”.

Oggi queste persone, ex abitanti di Lungo Stura e via Asti, hanno deciso di continuare la lotta per la dignità, per una casa. Davanti alla prospettiva di dormire in strada nei giorni più freddi della stagione, hanno deciso di occupare questo spazio vuoto. Per necessità. Sono convinti che questa azione non solo ristabilisce la pubblica utilità di uno spazio abbandonato ma credono che sia proprio questa la risposta giusta, difficile ma possibile, di chi lasciato senza alternative non vuole più essere trattato come un oggetto da parte delle istituzioni, di chi non vuole più subire la violenza della polizia. Nel contesto della crisi e di un mercato degli affitti sempre più inaccessibile ai più poveri, l’occupazione è l’azione diretta per avere un posto dove dormire, riposare, crescere i più piccoli.

Una città “possibile” è una città in cui nessuna persona viene buttata in strada o in carcere perché povera o senza documenti! Tutte/i hanno diritto alla casa!
Lottiamo uniti per una città in cui sia possibile vivere in autonomia, solidarietà, senza discriminazioni, razzismo, sfruttamento!

Occupanti e solidali di Casa di Romeo e Catalin

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I rom di lungo Stura occupano l’ex caserma di via Asti

Domenica primo novembre tante famiglie della baraccopoli di lungo Stura Lazio sotto sgombero e del social housing di corso Vigevano sotto sfratto hanno occupato una parte dell’ex caserma La Marmora di via Asti.
L’ex caserma è stata occupata in aprile da Terra del Fuoco, una delle associazioni, che si erano aggiudicate l’appalto del progetto “la città possibile”.
Due anni fa in lungo Stura c’erano oltre mille persone. Una polveriera sociale che l’amministrazione comunale torinese è stata abile a disinnescare. Cinque milioni di euro affidati alle sapienti mani di una cordata di cooperative ed associazioni che tra promesse e minacce, illusioni e violenza hanno trasformato l’area in un cumulo di macerie.
L’amministrazione Fassino mirava a sgomberare tutti, facendo leva sulla complicità degli sgomberati illusi dal miraggio di una casa che non è mai arrivata, dividendo i sommersi dai salvati.
Alla fine i nodi sono arrivati al pettine.

Di seguito il comunicato degli ex abitanti della baraccopoli.

“In questa città è Possibile che le istituzioni buttino in strada uomini, donne e bambini.
Qui è Possibile che un bambino di quattro mesi sia strappato dalle braccia della madre in una fredda mattina di ottobre e buttato in mezzo a ruspe e poliziotti che hanno l’ordine di non guardare in faccia nessuno e radere al suolo tutto.
A Torino è Possibile che vengano spesi più di cinque milioni di euro per un progetto fatto di violenza, discriminazione, razzismo.

Associazioni e cooperative come AIZO, Terra del Fuoco, Liberi tutti, Stranaidea, Croce Rossa, vincitori del bando di questo progetto, hanno dimostrato come sia Possibile, a Torino, demolire baracche e cacciare in strada centinaia di persone senza dare loro nessuna alternativa abitativa. Queste associazioni, per conto del comune, ci hanno fatto vedere come sia Possibile lavorare per distruggere le speranze per un futuro migliore di centinaia di bambini.
La violenza e gli abusi di potere che subiamo quotidianamente sono Possibili in nome di un progetto che questi signori hanno chiamato … “La Città Possibile”. Un progetto, dicono, con «carattere di innovazione e sperimentazione». Noi ci e vi chiediamo: una città Possibile per chi?

Il campo di lungo stura Lazio non è mai stato un «campo nomadi» ma è stato un luogo periferico in cui da anni migliaia di persone hanno vissuto per necessità e non per scelta. Perché nessuno di noi sceglie la povertà, la discriminazione, lo sfruttamento ma li subiamo – e non solo noi rom – come strumenti di controllo e di oppressione nelle mani di chi ha il potere di dare nomi o di creare uffici come l’«Ufficio Nomadi» in via Bologna. I campi «nomadi» non li abbiamo creati noi, li hanno creati le istituzioni italiane decine di anni fa.

Dopo tanti mesi vissuti con la paura di non avere più un posto dove dormire, dopo anni in cui ci hanno promesso falsamente di farci «emergere» da questo campo, vediamo che in realtà la soluzione del comune di Torino è ancora più precaria delle baracche: tante delle persone portate in una casa, come quella in corso Vigevano – gestita da AIZO – sono già finite in strada; ad altre sono stati promessi 300 euro per tornare «volontariamente» in Romania dove una casa non ce l’hanno più. E chi non poteva o voleva accettare queste «alternative» è stato considerato non «compatibile», cioè da buttare in strada, da sfrattare liberamente senza alcun preavviso!

Non crediamo più alle promesse di chi lucra sulla pelle dei poveri!
Il 12 ottobre abbiamo organizzato un corteo di lotta per la casa occupando le strade del centro per ribadire la verità sul progetto “La città possibile” portato avanti da Comune, Prefettura, associazioni e cooperative complici. Donne, uomini e bambini hanno gridato forte «Contro sgomberi e sfratti! Casa per tutte/i».

Oggi abbiamo deciso di riprenderci quello che è giusto che tutti abbiano: una casa!
Abbiamo occupato un pezzo della ex caserma di via Asti, che l’associazione “Terra del Fuoco”, una delle tante che hanno partecipato al progetto “la città possibile”, ha occupato in aprile promettendone un uso sociale. Da allora tanti di noi sono finiti in strada mentre la caserma restava in buona parte vuota.
Da oggi si riempie di uomini, donne e bambini che non hanno soldi per gli affitti del comune, che non vogliono più una baracca, che non vogliono tornare in Romania.
Abbiamo scelto questa casa perché ci sembra giusto avere un posto adeguato nella casa di chi questi anni ha guadagnato milioni di euro promettendocene una!

Gli ex abitanti della baraccopoli di lungo Stura Lazio”

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In piazza contro sgomberi e manicomi

Torino, 26 settembre. L’appuntamento è in piazza XVIII dicembre, a pochi passi dalla lapide che ricorda i 23 anarchici e comunisti caduti nella strage fascista del 18 dicembre 1922.
Il corteo si dipana per le strade del centro: sul selciato compaiono scritte contro le REMS, le nuove galere psichiatriche e contro lo sgombero del Barocchio Squat.
Un corteo comunicativo con molti interventi per informare i passanti sull’estendersi del controllo psichiatrico sulla società, sul diffondersi di strutture neo-manicomiali, sulla farsa della chiusura degli OPG, che restano aperti, nonostante ne fosse stata decretata la chiusura il 31 marzo.
Al corteo hanno partecipato numerosi esponenti dei collettivi antipsichiatrici, tra cui quello di Torino, dedicato a Francesco Mastrogiovanni, torturato e ucciso dalla psichiatria durante un TSO, legato mani e piedi ad una letto senza acqua né cibo per 92 ore.
Viene ricordato anche Andrea Soldi, strangolato da tre vigili urbani di Torino, incaricati di sottoporlo a TSO, perché si era rifiutato di fare l’iniezione mensile di psicofarmaci, la camicia di forza chimica, con cui la psichiatria lega chi ne è vittima.
Al corteo c’erano anche esponenti delle altre case occupate e autogestite di Torino e gli anarchici della FAI torinese, che hanno dato vita ad uno spezzone aperto dallo striscione “L’unica follia è essere governati”.

Il corteo di sabato, cui hanno partecipato oltre cinquecento persone, ha dato un segnale forte e chiaro alla Questura e alla Regione: la resistenza contro lo sgombero del Barocchio e la costruzione di una nuova gabbia per persone “socialmente pericolose” è solo all’inizio.
Continuerà nei prossimi giorni il campeggio resistente al Barocchio. In caso di sgombero un nuovo corteo attraverserà Torino il sabato immediatamente successivo.
“Socialmente pericolosi” sono i padroni che lucrano sulle nostre vite, i soldati che militarizzano i quartieri, i CIE, il cantiere/fortino della Maddalena, le fabbriche d’armi, la polizia messa a guardia di un ordine feroce, ingiusto oppressivo.

Di seguito il comunicato di solidarietà della Federazione Anarchica Torinese.

“Con il Barocchio, contro sgomberi, galere e manicomi
Dante avrebbe parlato di legge del contrappasso, il principio che regola la pena eterna dei dannati in base ai loro vizi peggiori. Il vizio di chi occupa una casa, libera uno spazio, pratica la condivisione, si ribella alla mercificazione delle relazioni è la libertà. La Regione Piemonte al posto di uno spazio autogestito ha progettato una galera che chiuda con lacci chimici, corde e sbarre i “folli rei”.
Questo il destino del Barocchio di Grugliasco, che rischia lo sgombero e la demolizione per far posto ad una REMS, una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, l’ultima metamorfosi del manicomio criminale, dopo la farsa della chiusura dei sei OPG – Ospedali Psichiatrici Giudiziari – della scorsa primavera.

La Regione Piemonte è in ritardo con la costruzione delle due REMS che dovrebbero accogliere i prigionieri piemontesi oggi ancora rinchiusi nell’OPG di Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova. Trasformare il centro residenziale vicino alla casa occupata e il Barocchio stesso in REMS “provvisoria” è il coniglio nel cappello del prestigiatore Saitta, l’assessore regionale alla Sanità.

Peccato che il diavolo sappia fare le pentole ma non i coperchi: la decisione di prendere due piccioni con una fava, lo sgombero del Barrocchio e la galera psichiatrica, si sta rivelando un boomerang per l’amministrazione Chiamparino, perché la lotta contro le Rems e quella per la difesa del Barocchio si stanno saldando, allargando il fronte di lotta.

Come anarchici saremo al fianco di chi si batte contro le nuove galere psichiatriche e per la difesa di uno spazio autogestito. Anche noi abbiamo lo stesso il vizio tenace, quello della libertà.

Solidarietà al Barocchio! Nessuno sgombero, nessuna galera, nessun manicomio!

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese”

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