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Torino. Una piazza borghese. E le sue paure

La piazza Si Tav del 10 novembre a Torino, a saperla osservare, ci racconta della persistenza del mito del progresso e della velocità. Il motore dello sviluppo, del benessere e del saldo ancoraggio al treno del primo mondo.
La piazza Si Tav, piazza borghese, per bene, torinese, che si alimenta del ricordo di Cavour e del canale di Suez, sogna un Piemonte che non c’è più. E non tornerà.
È una piazza la cui principale novità è il suo stesso esserci, la scelta di scendere in campo e di rendere visibile un aggregato sociale, che usualmente è restio a farlo.
Il paragone con la marcia dei 40.000 colletti bianchi della Fiat al termine dell’ultimo braccio di ferro tra la classe operaia torinese e i padroni della città appare tuttavia del tutto incongruo. In questi ultimi 40 anni tanta acqua è passata sotto i ponti della città dei tre fiumi.
I colletti bianchi difendevano, pagati e spinti dal padrone, una posizione di piccolo privilegio che ritenevano inattaccabile. Pochi anni dopo i fatti dimostrarono quanto grande fosse stato il loro errore. I protagonisti di quella marcia e i loro figli, colletti bianchi per via ereditaria, vennero licenziati, quando il padrone decise che non servivano più.
Ma. L’errore più grande lo commisero gli operai in lotta da trentacinque giorni davanti ai cancelli della Fiat. Credettero al sindacato, che già aveva pronto l’accordo che barattava ventimila licenziati con sessantamila cassaintegrati. La grande epopea dei lavoratori della città-fabbrica non finì per la marcia degli impiegati Fiat, ma per la resa ad un sindacato che stava cambiando pelle, avendo già mutato anima negli anni del compromesso socialdemocratico.
Se in quei giorni fosse partito un appello a tornare in piazza, la marcia dei “40.000” sarebbe scomparsa nel nulla e nessuno la ricorderebbe.
Quella vicenda si incise a sangue nella memoria collettiva, perché spianò la strada alla vendetta padronale, che fu implacabile.
Torino si è trasformata radicalmente. La città della Fiat, pensata e costruita come città fabbrica, ha lasciato il posto alla città immaginata tra il Politecnico, la stessa Fiat, le Banche e il partito Democratico. Città di servizi, turismo e grandi eventi. Gli antichi borghi operai, luogo di crescente marginalità sociale, sono costantemente sospesi tra riqualificazioni escludenti e il parco giochi per carabinieri, militari e poliziotti.
Evocare la marcia dei “40.000” è un abile artificio retorico per proclamare la vittoria prima di aver vinto.
Questa volta però, alla faccia del governo pentastellato della città, che si è affrettato ad aprire un’interlocuzione con i Si Tav, il movimento No Tav non ha esitato e ha lanciato un corteo per l’8 dicembre che, partendo da piazza Statuto, quella della rivolta del 1962 contro la UIL, si concluderà in piazza Castello, nello stesso luogo dei Si Tav.
La partita è quindi ancora apertissima.
Ed è meno banale di quanto sembri, perché ci racconta della città com’è ora, non di quella del tempo andato.
La borghesia scende garbatamente in piazza per rimettere a posto le cose, per fare ordine, per spiegare alla sindaca Appendino chi comanda in città.
La piazza Si Tav del 10 novembre è la piazza dei padroni. Basta dare un’occhiata all’elenco delle associazioni promotrici per rendersene conto. Si va dalle associazioni padronali a quelle del commercio per arrivare alle organizzazioni sindacali degli edili di CGIL, CISL e UIL, che questa volta non hanno problemi a stare nella stessa piazza dei padroni. Non devono più fingere.
«Noi stiamo perdendo le energie migliori della nostra società: le famiglie li hanno educati, le scuole formati e noi diamo ciò che abbiamo creato, i nostri giovani, all’estero. Voglio dedicare questa piazza a Pininfarina e Marchionne che si sono battuti per la Tav». Diceva uno degli speaker dal camion/palco. E giù applausi a Marchionne e, non guasta mai, anche alle forze dell’ordine.
Chi c’era, come il professor Semi, anche solo per dare un’occhiata, ha descritto così piazza Castello del 10 novembre: “Il garbo, la gentilezza, le maniere civili, sono state le parole d’ordine di questa riemersione della borghesia torinese dalla propria proverbiale riservatezza e aristocratico distacco. Oggi in piazza erano visibili diversi gruppi sociali che la compongono e, per contrasto, si vedeva ancora meglio chi non c’era.
Iniziamo dai presenti. Signori e signore perbene, dall’età media attorno ai Cinquanta, ogni tanto con i figli grandi e più spesso con amici e colleghi. Si sono rivisti in massa i Barbour, e le signore avevano dei cappotti da boutique, talvolta arancioni come da richiesta delle organizzatrici della matinée. Si tratta di una stima ‘ad occhio’, ma se erano molti anche gli anziani ben vestiti, mancavano quasi completamente i 20-30enni. Le classi sociali visibili non erano molte, c’era sicuramente diversa borghesia professionale, e un po’ di ceto medio tradizionale, commercianti e artigiani. Ad occhio non erano tantissime le partite IVA ai minimi, non c’erano operai, sicuramente il livello di istruzione medio in piazza era molto elevato e per nulla rappresentativo della città. Si è detto delle fasce mediane assenti e dei giovani in generale, ma quello che saltava all’occhio fin da subito era la totale assenza di popolazione straniera, sia povera che ricca. La folla oggi riunita era molto torinese, anche se i richiami al Piemonte, all’Italia e all’Europa sono stati tanti. Una massa bianca, matura se non anziana, benestante, istruita e gioiosa ha occupato per circa due ore la principale piazza della città.”
La borghesia torinese è scesa in piazza per dare un segnale all’amministrazione locale e al governo giallo verde. Puntano sul PD, ma potrebbero senza troppi problemi appoggiare un governo di centro destra.

Nonostante il Bon Ton e i bei modi esibiti è una piazza a suo modo patetica, perché Cavour e Suez sono roba di due secoli fa e non bastano più a nutrire l’illusione del progresso che consegna doni e sicurezza all’imprenditoria operosa e ai suoi intellettuali, professionisti, professori, giornalisti.
Il treno che buca le Alpi, come a suo tempo lo stesso Tunnel del Frejus, ai cui costruttori è stato dedicato un monumento in piazza Statuto, sventa la paura del piccolo Piemonte schiacciato contro le montagne, isolato dai traffici, emarginato da Milano, la cugina meneghina, che ha retto molto meglio l’impatto della terza e della quarta rivoluzione industriale. É un feticcio, non un treno. Certo ci sono gli affari delle lobby del cemento e del tondino, delle banche, degli edili, ma la sostanza che ha portato in piazza commercianti e imprenditori, assieme alla borghesia delle professioni è la forza simbolica acquisita da quel treno.
Lo scontro sarà quindi senza esclusione di colpi, perché, sottile, ben nascosto, ma evidente appare il motore di quella piazza: la paura. Gli orfani della città Fiat oggi si aggrappano al treno ad alta velocità. Poco importa che non serva a nulla. Però può rendere bene a chi la fa. E tanto basta: di doman non c’è certezza.
La città vetrina ha scongiurato gli orrori della Rust Belt statunitense, riciclando per Olimpiadi e grandi eventi, gli enormi capannoni vuoti dell’era dell’industria trionfante. Centri commerciali e mega padiglioni espositivi con intorno nuovi quartieri ed infrastrutture per raggiungerli sono stati la ricetta del post Fiat. Ma non bastano. Non possono bastare.
Sullo sfondo, ben nota ai borghesi torinesi c’è Flint, la città dove il futuro è già presente. A Flint nacque la General Motors: oggi interi quartieri sono abbandonati. Imponenti macerie industriali ne segnano il panorama, tra povertà, mafie e ghetti urbani. La gente beve acqua avvelenata, le truppe vi svolgono esercitazioni “antiterrorismo”. È il Michigan ma potrebbe essere lo specchio di Torino, delle sue periferie, dove le macerie sono quelle sociali.
Un baratro in cui tanti hanno paura di scivolare. E la paura genera mostri.
Lo sanno bene quelli delle periferie, che hanno abbandonato il PD e hanno votato, anche se a votare non sono più tanti come un tempo, per le Cinque Stelle. Sono quelli dei blocchi dei forconi del 2013. Niente Bon Ton: blocchi, tricolori, appelli ad un governo militare, caciara. Sembrava la gente del dopo stadio, tifosi con le bandiere e le trombette, fuori controllo anche dalla destra che provava a cavalcarli e da post autonomi e anarchici situazionisti, che puntavano al caos sistemico. In comune con i borghesi del 10 novembre l’amore per i poliziotti, applauditi e vezzeggiati da entrambe le piazze.
Tornati nei ranghi dopo tre giornate, perché la rivoluzione la volevano in un giorno e in un giorno è difficile farla, anche se credi di avere il vento in poppa e ti muove la tenera auroralità di chi crede all’iconografia della rivolta. Oggi pare vogliano tornare in piazza “contro l’Europa e non contro il governo”, sperando di spuntarla sulla odiatissima direttiva Bolkenstein e altre tasse. Forse in gilet giallo, alla francese.
Anni luce tra queste due piazze. Senza dubbio. Spinte però entrambe dalla paura del futuro che non c’è più. Paura e rabbia mescolate per le promesse non mantenute per il figlio laureato dell’operaio, che non ha né lavoro né prospettive, ma tanto risentimento.
L’amministrazione Appendino è figlia anche di quella piazza. Ma non solo, perché la vittoria di Appendino, due anni fa, fu possibile solo grazie all’appoggio delle destre subalpine. Parte delle quali sono oggi uno degli assi del governo pentastellato.
Quest’alchimia un po’ bastarda ma non troppo spiega le giravolte della giunta Appendino, che potrebbero portarla ad un’impasse difficile da superare.
D’altra parte, alla fetta di elettorato forcone dei 5 Stelle, fatto di mercandini, partite IVA, giovani precari bianchi e rancorosi, non importa nulla del Tav, ma sono a loro volta soggiogati dalla retorica della difesa dei confini, dell’illusione protezionista, in bilico tra il liberismo estremo dei no tax e la richiesta di tutela statale. Un bel groviglio.

In questo groviglio parte del movimento No Tav si è infilata mani e piedi, schierandosi in modo esplicito con i 5 Stelle, nonostante oggi in tanti comincino ad accorgersi che l’opposizione al Tav è più una palla al piede che un obiettivo per i 5 Stelle. In questi anni la lotta No Tav si è saldata in modo tanto forte con la critica delle relazioni politiche e sociali dominanti, da renderla incompatibile con il capitalismo e le sue regole feroci.
I No Tav sono corpi estranei allo scontro di potere in atto, gli unici, con numeri e consenso ampi, che pur nella diversità di approcci e prospettive, non sono mossi dalla paura ma dalla consapevolezza che il futuro dipende da ciascuno di noi. L’idea stessa di sviluppo si sgretola sotto le picconate di una critica che sarebbe sbagliato credere pauperista o ingenua, perché si nutre della comprensione dell’urgenza di tante piccole opere utili alla vita e alla salute di tutti, dell’urgenza di rallentare la curva del riscaldamento globale, dell’importanza di scommettere sulla capacità di autogoverno reale dei territori. E sulla consapevolezza che ribellarsi e vincere è possibile.

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Il seme dell’odio

Hannah Arendt, osservatrice al processo ad Eichmann, il “contabile dello sterminio”, che si atteggiava a grigio burocrate, scrisse di “banalità del male”. Probabilmente, al di là delle polemiche che suscitò all’epoca la sua rappresentazione di uno dei responsabili dello sterminio di milioni di persone, Arendt non poteva sospettare la fortuna che avrebbe avuto nei decenni successivi la sua amara constatazione su quanto conformista, insignificante, convenzionale, incolore fosse il male.
Oggi sappiamo che Eichmann era ben più che un mero “contabile”, bravo nel rendere più veloci, semplici, efficaci le modalità con le quali a ritmi da catena di montaggio, si raccoglievano, selezionavano, spogliavano, uccidevano e bruciavano i corpi di milioni di persone eliminate come polli allevati in batteria. Con la stessa, quieta, indifferenza. Resta il fatto che tanti furono gli esecutori materiali dello sterminio, come tanti vi collaborarono mettendo a frutto le proprie competenze tecniche, giuridiche, mediche, amministrative. Chi non collaborò attivamente sapeva ed approvava. La grandissima parte di queste persone non era né sadica né incline alla violenza.
Tanta cinematografia statunitense degli anni successivi ha confezionato un’immagine della dittatura nazista deformata dalle esigenze di propaganda del momento. La Germania Ovest era un’alleata preziosa durante la guerra fredda con l’Unione Sovietica. Il cinema costruì la narrazione, falsa ma potente, di una Germania schiacciata dal tallone dell’elite hitleriana e dalle SS, dove il popolo e l’esercito erano ignari ostaggi di una macchina feroce.
Sappiamo che non è così. Sappiamo che la “soluzione finale” era narrata nei cinegiornali, sappiamo che la deportazione e l’uccisione degli ebrei europei era approvata e plaudita, sappiamo che tutto venne codificato in un solido apparato legislativo.
Sappiamo che il Terzo Reich godeva dell’appoggio di un’ampia maggioranza della popolazione, perché era quel che era. Punto.
Altrimenti non vi sarebbe stata Auschwitz.
I 12 anni di nazismo venivano ridotti ad una parentesi di follia. Irripetibile.
Nel 1963 Arendt, nello specchio di Eichmann vide riflessa la normalità dello sterminio. Una banale procedura. Così banale che potrebbe ripetersi.
Non allo stesso modo, ma con la stessa ineluttabile semplicità. Semplice come la vita di ogni giorno, come la quotidianità che si nutre di ripetizioni, di piccoli rituali, di procedure consolidate.
Capita di chiedersi se non rischiamo di trovarci presto di fronte al bivio nel quale si separano complici e vittime, perché il tempo delle nuance, delle sfumature, delle gradazioni di grigio sta finendo.
Siamo abituati a pensare che il male sia estraneo alla vita quotidiana, estraneo alla normalità. Siamo convinti che il male non sia mai incolore. Persino quando lo è fingiamo che non lo sia, fingiamo che rappresenti l’eccezione, mai la regola.
La guerra, che pure è divenuta una costante di questi nostri anni, con truppe italiane che combattono su tanti fronti, viene raccontata come “male necessario”, o finanche come “male minore”. L’articolarsi della narrazione bellica intorno ad ossimori come la guerra umanitaria o edulcorazioni come l’operazione di polizia internazionale dimostra la volontà di nascondere la verità sui massacri delle truppe italiane.
Tutti sanno che la polizia picchia e tortura in modo ben più sistematico di quanto non rivelino vicende che solo la tenacia dei parenti delle vittime rende noti. Finché può lo Stato e le sue guardie armate negano l’evidenza, negano che Cucchi, Uva, Aldrovandi e tanti altri siano stati massacrati intenzionalmente. Negano perché temono lo sdegno che certi delitti potrebbero suscitare.
Negano e nascondono perché sono convinti di non avere il sostegno di una maggioranza significativa.
Sino ad oggi. Un giorno di questi potrebbe accadere che smettano di coprire con un tappeto il sangue per rivendicare la violenza sistematica di polizia, carabinieri, militari.
L’attuale ministro dell’interno, Matteo Salvini, ha approvato l’operato delle forze dell’ordine nel caso di Stefano Cucchi. Se il ministro di polizia sostiene che le botte a Cucchi sono giustificate, non sono ancora cambiate le leggi, ma potrebbero essersi modificati i rapporti di forza. Salvini ritiene di avere l’appoggio popolare: numerosi indizi inducono a ritenere che le sue convinzioni non siano prive di fondamento.
Questa lunga estate sembra scivolare via senza troppi contraccolpi, ma il sottile senso di inquietudine che attraversa le piazze dove, sin troppo timidamente, qualcuno prova a mettersi di mezzo, allude alla delicatezza del momento. La lunga storia della guerra ai migranti è come una pietra che rimbalzi a lungo quieta lungo un declivio, facendosi quasi frana, senza tuttavia mai correre all’impazzata. Pare che quest’estate di colpo il pendio sia divenuto più scosceso e la corsa stia accelerando. Non è questione di numeri ma di sostanza.
Le statistiche disegnano grafici inequivocabili: dallo scorso anno gli sbarchi sono nettamente diminuiti. Nell’estate del 2017 il governo Gentiloni inaugurò la stagione di lotta alle ONG impegnate in operazioni di serch and rescue nel Mediterraneo e strinse accordi con le milizie di Zawija e Sabratha, affinché bloccassero il traffico di migranti sotto il loro controllo.
Quest’anno il terreno era già stato sgomberato e reso disponibile a nuove operazioni di guerra non dichiarata. Il nuovo ministro ha solo completato l’opera, inserendo un tassello che né il suo predecessore Minniti, né, a suo tempo il suo camerata Maroni avevano osato portare sino in fondo.
Lo scontro esplicito con l’Europa è il perno su cui ha girato l’operato di Salvini e del ministro dei trasporti, il pentastellato Toninelli.
Impedire lo sbarco di centinaia di persone ripescate in mare da un’unità della Marina Militare Italiana va al di là della guerra alle ONG, criminalizzate come complici dei trafficanti. Negli ultimi mesi di governo già Minniti aveva chiuso i porti ad alcune ONG e, quando diede il via libera agli sbarchi, scattarono inchieste, blocchi delle imbarcazioni, accuse gravissime agli equipaggi.
Nel 2011, dopo un lunghissimo braccio di ferro con l’Europa, un altro ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni, si arrese e, in una sola notte, fece trasportare da Lampedusa alla Sicilia e, di lì, nei campi tenda settemila profughi della guerra per la Libia.
L’attuale governo è in sostanziale continuità con quelli precedenti di centro-sinistra e di centro-destra o siamo di fronte ad una frattura, ad una novità radicale, ad un salto di qualità?
Il dilemma, sebbene appaia autentico, nel dibattito politico estivo assume il sapore agre dell’interrogativo retorico. Rappresentare il governo Salvini-Di Maio nel segno della discontinuità radicale sui temi dell’immigrazione è operazione utile sia a destra che a sinistra del quadro istituzionale. Salvini, in continua campagna promozionale, vuole dimostrare di essere riuscito dove tutti gli altri hanno miseramente fallito, la disastrata opposizione Dem spera di rifarsi il trucco con l’antifascismo e l’antirazzismo.
Entrambi hanno ben poca lana da tessere, muovendosi sul terreno della propaganda.
Per i nazionalsocialisti non sarebbe stato facile promuovere lo sterminio degli ebrei se sin dai tempi della Seconda Internazionale i socialdemocratici non avessero soffiato sul fuoco dell’antisemitismo, equiparando l’ebreo al capitalista. Il che non implica negare la frattura ed l’imponente salto di qualità nazista.

La legislazione sull’immigrazione nel nostro paese ha delineato una rottura dell’ordine liberale, configurandosi come “diritto penale del nemico”, secondo la definizione coniata dal giurista tedesco Jacobs nel 1985, e articolandosi in termini che definirei di “diritto amministrativo del nemico”. Il mancato accesso ai diritti di cittadinanza finisce con il declinarsi in negazione dei diritti umani.
I governi di centro-sinistra, pur avendo inaugurato questa stagione nel lontano 1998 con la legge Turco-Napolitano che istituì la detenzione amministrativa nel nostro paese, provano a mantenere intatta la patina umanitaria. Una patina sottile. Tragicamente ridicola, ma simbolicamente importante. Per quanto abnormi siano la detenzione e la deportazione, per quanto sia criminale la blindatura delle frontiere, che uccidono chi prova ad attraversarle, per quanto evidenti siano le responsabilità di tutti i governi, le cerimonie del cordoglio mettono in scena la finzione che le stragi siano “disgrazie”, “incidenti” da imputare al mare o ai trafficanti.
Il nuovo governo ha annunciato un pacchetto sicurezza, che, pur annunciando un prolungamento della detenzione amministrativa non rappresenta una significativa rottura con il recente passato.
La novità è altrove. La sottile patina umanitaria, etichettata come “buonismo” è stata stracciata. La gente in viaggio viene etichettata come criminale, portatrice di malattie, pericolosa. Nemica.
Tutti. Sempre. Uomini, donne, bambini. Quest’estate non abbiamo assistito alla messa in scena del lutto istituzionale. Le barche affondate mentre le ONG assistevano impotenti, l’incriminazione di chi si è ribellato al ritorno in Libia sono state ragione di orgoglio.
Salvini è indagato per sequestro di persona, mancata assistenza perché non si è neppure preoccupato di adeguare le norme alle pratiche da lui imposte. Può così, pur essendo al potere, giocare il ruolo del perseguitato. Un gioco che i suoi alleati a cinque stelle hanno fatto con abilità e profitto per anni. Lungo questo declivio il ruzzolar di pietre può divenire frana. Il governo del cambiamento potrebbe chiedere ed ottenere più potere per assolvere il mandato di proteggere la comunità – gli italiani dimentichi del Po e dei riti celti – dal moloch della finanza, dall’immigrazione che mira a spezzare e cancellare l’identità, dalla libertà che nega il nucleo etico familiare.
Tra il 9 e il 12 dicembre del 2013 a Torino migliaia di persone si riversarono in strada imbracciando tricolori, decise a bloccare tutto perché deluse dal cambiamento che non arrivava, spaventate per il futuro che non c’era più. Bloccarono le strade e abbracciarono i poliziotti. Sui loro volantini si auspicava un governo militare, una dittatura. Finì presto. Tutti, delusi tornarono a casa, i media affondarono nel ridicolo quell’avventura e nessuno ci pensò più.
Oggi quella gente ha trovato la propria rappresentanza, un governo che ha promesso di realizzarne il programma.
Mentre scrivo le agenzie hanno appena battuto la notizia di un profugo sedicenne aggredito e ferito a Raffadali. Chi lo ha colpito gli ha gridato “vattene a casa tua”. È l’ultima di tante vicende tutte uguali.
Provate ad immaginare. Un uomo dal balcone vede una donna rom con una neonata in braccio, entra in casa, prende il fucile a pallini e spara alla bambina.
Un altro tizio vede un lavoratore sull’impalcatura. Prende il fucile e lo ferisce. L’operaio è di origine africana. Il ministro dell’Interno si mostra comprensivo con i fucilieri della ringhiera.
Impossibile? È successo quest’estate nel Belpaese. Ci sono case dove il rancore cova da tanto tempo, distillandosi goccia a goccia, corrodendo ogni senso di legame umano. Il seme dell’odio sta producendo i suoi frutti avvelenati.
Nessuno dica che non sapeva, nessuno dica che non aveva capito.

Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista

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L’altro Pride. Contro frontiere e decoro

Giugno è il mese del Pride. La giornata dell’orgoglio delle persone omosessuali, transessuali, queer, bisex, intersex nasce dopo la rivolta di 49 anni fa a a New York. Stanch* di violenze, irrisioni, soprusi della polizia quelli dello Stonewall alzarono la testa e attaccarono la polizia. Il primo Pride fu un riot.

A Torino il Pride è un’imponente sfilata attraversata da decine di migliaia di persone. Ma Stonewall è lontana, lontanissima da Torino.
Il Pride anno dopo anno è diventato un ibrido tra un carnevale, una passerella istituzionale e uno evento commerciale.
C’è sempre meno spazio per le voci critiche, per un approccio intersezionale, per chi vuole che libertà e diritti siano per tutti, anche per gli esclusi dal grande banchetto, per i migranti, i poveri, i rom, i senza casa.
Lo slogan di quest’anno era “Nessun dorma”, una maniera appena accennata di alludere alle componenti omofobe, maschiliste, transfobiche del governo giallo-verde. Senza esagerare, senza permettersi critiche al governo della città e a quello della Regione. In punta di piedi, per non disturbare troppo.
Non poteva essere altrimenti, perché le istituzioni erano in testa al corteo.
La sfilata del 16 giugno è stata organizzata dal Coordinamento Torino Pride con il patrocinio di Comune di Torino, Regione Piemonte, Consiglio regionale del Piemonte, Torino Metropolitana, Provincia di Cuneo, Provincia di Novara. Tra gli sponsor la Coop, la Gtt, Il corpo di polizia municipale della città di Torino.

La sfilata, cui ogni carro entrava solo pagando, è stata tenuta sotto controllo dalla polizia di Stato e dal servizio d’ordine di due compagnie private, i City Angels, noti per la pulizia etnica a San Salvario e l’Hydra Service, i picchiatori prezzolati al servizio del PD, tristemente noti per i loro interventi muscolari contro ogni forma di opposizione sociale. Noi li ricordiamo per il camion dello spezzone anarchico e antimilitarista spaccato il primo maggio 2011, ma i loro bastoni si sono esibiti in molte altre occasioni.

Quest’anno al Torino Pride gli attivist* di “Nessun* Norma!”, il Pride contro frontiere e decoro del 28 giugno hanno distribuito volantini, che sono immediatamente entrati nel mirino della polizia, che li ha circondati pretendendo di sequestrarli, per le immagini satiriche stampate sul retro. Immagini considerate offensive, perché non è lecito burlare ministri e sindaci. Specie se si tratta di Salvini, Fontana e Appendino. Diverse compagn* sono state identificate e minacciate dalla digos. Alla fine gli uomini e le donne della polizia politica si sono accontentat* di sequestrare solo una parte del materiale.
Ma non è finita lì. Più tardi è stato aperto uno striscione in via Po ed acceso qualche fumogeno per attirare l’attenzione. Sullo striscione campeggiava la scritta “Il Pride è rivolta. Contro frontiere, decoro, istituzionalizzazione. Nessun Norma” Lo striscione è stato due volte rimosso dal servizio d’ordine del Pride. Un fumogeno è stato lanciato addosso alle persone.

La repressione al Pride istituzionale ha dato una bella spruzzata di pepe a chi stava organizzando il corteo indecoroso del 28 giugno.

In maggio individui e gruppi diversi, che si erano intrecciati nelle lotte contro le frontiere, gli sgomberi, la repressione hanno cominciato ad incontrarsi per costruire un altro Pride. Una scommessa che ha visto accanto Ah Squeerto e Studenti Indipendenti, Manituana e Federazione Anarchica, Breacktheborder e l’infoshock del Gabrio.
Una scommessa difficile, che si è dovuta scontrare con l’indifferenza e l’ostilità di chi, anche nei movimenti di opposizione sociale, nonostante tutto, preferiva affacciarsi al Pride istituzionale. Non Una di Meno, rete “transfemminista ed intersezionale”, avrebbe potuto portare un contributo importante all’iniziativa, invece si è divisa senza raggiungere una sintesi, ma, nei fatti partecipando attivamente, sia pure in tono minore, solo al Pride istituzionale dove sono stati distribuiti volantini, fatti interventi e portate a spasso le matrioske.
Una brutta scivolata della Rete torinese, preoccupante in un clima politico e culturale sempre più difficile.

Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.
E non può che andare peggio. Se Appendino riuscirà ad aggiudicarsi il carrozzone olimpico del 2026, il restyling della città costerà caro a chi non corrisponde ai criteri di decoro urbano.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria, cedendo alle tentazioni populiste e nazionaliste, rischiando di scivolare sul declivio della guerra tra poveri.

Il governo della città è stato per decenni nelle mani del Partito Democratico.
Da due anni governano i Cinque Stelle. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche e dai padroni.
Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. Appendino fa la guerra ai rom, sguinzaglia i vigili urbani a caccia di mendicanti, lavavetri, spacciatori di accendini, senza casa.

Chi aveva creduto alla retorica della democrazia penta stellata sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. I posti occupati che non hanno accettato la normalizzazione a Cinque Stelle sono stati sgomberati. La baraccopoli rom di corso Tazzoli è stata demolita per la “sicurezza” degli abitanti gettati in strada.
La retorica della “cittadinanza” partecipativa sceglie chi includere e chi escludere, nel gioco feroce delle poltrone, del potere, delle alleanze.
Appendino prepara la vetrina olimpica, cementifica la città, si congratula con la polizia che arresta gli anarchici… sfila in testa al Pride e benedice le famiglie arcobaleno.

Il 28 giugno l’altro Pride ha attraversato il centro cittadino, nonostante il nuovo questore avesse imposto divieti di sapore squisitamente politico. Piazza Palazzo di città, dove ha sede il comune, è stata chiusa e blindata da Digos e poliziotti in assetto antisommossa. Un blocco risibile di fronte alla folla queer che li fronteggiava, irrideva, mimava. Il segno che i timori per “l’ordine pubblico” erano solo paura di corpi ed identità erranti indisponibili a farsi rinchiudere in una gabbia dorata, dove il prezzo della “libertà” è l’accettazione delle linee di cesura che attraversano il nostro spazio sociale.
Cartelli con le “coppie di fatto” danno il segno di una critica intollerabile per la questura e la prefettura, la lunga mano del governo sui territori.
Chiara Appendino e Lorenzo Fontana, la sindaca gay friendly ed il ministro della famiglia omofobo e maschilista. Merkel ed Erdogan, Di Maio e Salvini, le coppie oscene del teatro politico.

Il corteo, cresciuto lungo il percorso, ha sostato in piazza Castello, percorso via Po e via Accademia tra musica, balli, corpi liberi e interventi. In corso Vittorio è dilagato su tutti e quattro i viali sino alla blindatissima stazione di Porta Nuova, vera frontiera invisibile nel cuore di Torino. Ogni giorno, da mesi, i binari da dove partono i treni diretti in Val Susa sono sorvegliati da pattuglie interforze di poliziotti e militari, che selezionano i passeggeri. Se sei nero, anche se hai un documento in tasca ed un biglietto, ti rimandano indietro. La frontiera con la Francia erige i suoi muri nel cuore di Torino.
Le frontiere sono linee su una mappa. Sottili righe scure fatte di nulla che uomini armati in divisa rendono vere.
Le frontiere dividono e uccidono.
Nel Mediterraneo e in montagna. Nei ghetti dei raccoglitori di frutta e pomodori, nei cantieri dove la sicurezza è un lusso.
Nei tanti interventi durante il corteo abbiamo ricordato Blessing e Mamadou, uccisi dalle frontiere chiuse al Montgenevre, Soumaila Sacko ammazzato dalla lupara al servizio dei padroni.
Le frontiere sono in mezzo a noi. Sono le leggi sul decoro che cacciano i poveri dai luoghi pubblici, sono le leggi sulla proprietà che negano una casa a chi non ce l’ha.
Sono le frontiere tra i sessi, che piegano i corpi e le soggettività erranti alle regole della famiglia, nucleo “etico” che ingabbia le relazioni, fissa i ruoli, nega la possibilità di percorsi individuali fuori dal reticolo patriarcale, statale, religioso.
Il corteo si è concluso con una festa al Valentino benefit per il rifugio autogestito Chez Jesus di Claviere.

Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo, hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Questi principi tengono saldamente fuori tanta parte dell’umanità. Poveri, donne, omosessuali, transessuali, bambini, stranieri erano/sono esclusi dall’accesso a questi diritti. La loro universalità, formalmente neutra, è modellata sul maschio adulto, benestante, bianco, eterosessuale. Il resto è margine. Chi non è pienamente umano non può essere “cittadino”, soggetto di diritto.
Chi non è pienamente umano non può aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni. Per chi ne è escluso si tratta di privilegi, per chi vi è inscritto diviene una gabbia normativa.
Come il matrimonio. Un legame sancito dallo Stato (e dalla chiesa) che fissava la diseguaglianza e l’asservimento delle donne, sottomesse al marito alla cui tutela venivano affidate. Eterne minorenni passavano dalla potestà paterna a quella maritale.
Le lotte che hanno segnato le tante vie della libertà femminile hanno in parte cancellato quella servitù. Ma ne hanno pagato il prezzo. Il prezzo dell’emancipazione femminile è l’adeguamento all’universale, che resta saldamente maschile, bianco, benestante ed eterosessuale.
Lo spazio della sperimentazione, della messa in gioco dei percorsi identitari, tanto radicati nella cultura da sembrare «naturali», tende ad estinguersi, polverizzato dalle cazzutissime donne in divisa, dalle manager in carriera, dal femminismo della differenza che inventa le gerarchie femminili per favorire manovre di lobbing. Tutto deve diventare “normale”, vendibile, controllabile.
Le differenze tra le persone non sono iscritte nella natura o nella cultura, ma offrono una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Percorsi possibili solo fuori e contro il reticolo normativo stabilito dallo Stato, che, non per caso, nega diritti e tutele alle persone che scelgono di non sposarsi.
La strada del movimento lgbtqi è stata ed è ancora in netta salita. Fascisti e preti continuano le loro crociate per escludere dall’umanità una sua parte. Le discriminazioni, la violenza statale e culturale sono molto forti.
Chi vorrebbe le stesse possibilità degli eterosessuali – adozioni, pensione di reversibilità, diritto alla cura del partner – deve adeguarsi ad un modello rigido di relazione costruita sulla coppia e sui loro figli, alla legalizzazione dei sentimenti, delle passioni, della tenerezza.
Chi sceglie di starne fuori, di fare altre strade, non può avere questi privilegi anche se eterosessuale.
La normalizzazione delle nostre identità erranti è il prezzo per accedere ad alcune libertà che si ottengono solo con il matrimonio, un legame sancito e regolato dallo Stato. È un prezzo che tanti non sono dispost* a pagare.
Abbiamo attraversato la città con la leggerezza di chi si scioglie da vincoli e lacci. Con la stessa leggerezza attraversiamo le nostre vite.
Senza frontiere, che separino i sommersi dai salvati, i cittadini e gli stranieri.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.

Maria Matteo

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Aquarius. La stretta finale sulle ONG

La nave Aquarius della ONG SOS Mediterranee con a bordo 629 naufraghi provenienti dalla Libia, dopo due giorni di stallo in acque internazionali, trasborderà parte dei migranti su unità militari italiane, per dirigersi verso il porto spagnolo di Valencia.

Sembrava un’operazione come tante altre. L’Aquarius si è mossa in base alle indicazioni ricevute dal coordinamento della guardia costiera di Roma. Dopo aver salvato i passeggeri di due gommoni, uno già affondato, l’altro in grave difficoltà, ha accolto a bordo altre persone ripescate da unità della marina italiana.
In un primo tempo la guardia costiera aveva indicato Messina come approdo sicuro. L’Aquarius era in viaggio verso quel porto, quando è arrivato lo stop del governo.

La chiusura dei porti italiani è stata decisa dal responsabile della guardia costiera, il ministro dei trasporti e infrastrutture, Danilo Toninelli.
La situazione di stallo seguita alla mossa di Toninelli e Salvini si è sbloccata grazie alla decisione presa dal nuovo governo spagnolo, guidato dal socialista Sanchez.

La partita apertasi lo scorso anno con l’attacco del ministro dell’Interno Minniti alle ONG, che ha portato al sequestro di navi e all’incriminazione dei membri dell’equipaggio, da Jugend Rettet a Proactiva Open Arms, è tutt’altro che chiusa. I porti sono interdetti solo alle ONG. La nave della marina militare Diciotti, con a bordo 800 persone, approderà nelle prossime ore a Catania.

Salvini aveva disertato la riunione dei ministri degli Interni dell’Unione Europea, che la scorsa settimana si sono riuniti per discutere la bozza di riforma del regolamento di Dublino voluta soprattutto da Francia, Germania e paesi nordici ma fortemente contrastata dai paesi dell’est del cosiddetto gruppo di Visegrad, capeggiato dall’Ungheria di Orban.
Salvini, che si è detto molto vicino alle posizioni di chiusura totale delle frontiere caldeggiata e praticata dal gruppo di Visegrad, sulla riforma del regolamento di Dublino è su posizioni opposte. In perfetta continuità con il governo Gentiloni, che, con toni diversi, ma uguale sostanza, aveva contestato la bozza di riforma, perché lascia intatto il principio dell’accoglienza nel primo paese di approdo. Solo dopo 8 anni, se ha ottenuto lo status di rifugiat*, chi è arrivato in uno dei paesi della sponda sud dell’Europa, potrebbe spostarsi in uno degli altri paesi europei.

Il governo Conte sa bene che la partita europea ha tempi lunghi e possibilità limitate, preferisce quindi sferrare l’attacco finale alle ONG che operano nel Mediterraneo. Un colpo ad effetto per accontentare il proprio elettorato. Una partita nella quale oggi Salvini sostiene di aver segnato un punto, fingendo di aver obbligato un altro paese europeo ad aprire i propri porti. Un gioco che probabilmente durerà poco.
Innegabile l’abilità con cui il governo ha condotto l’operazione: grande durezza verbale, ma estrema prudenza.
Il richiamo alla solidarietà europea mette a nudo uno dei nodi irrisolti dal 2011. Allora Maroni giocò la carta del ricatto, concentrando migliaia di profughi della guerra per la Libia a Lampedusa in condizioni terribili in un clima di tensione crescente, ma dovette arrendersi di fronte ai secchi dinieghi dell’UE.
In una notte settemila profughi furono imbarcati e trasferiti in campi tende colabrodo, da dove si riversarono verso le frontiere, che, per un po’ furono molto permeabili.
I tentativi di instaurare un principio di solidarietà di fronte all’esodo dalla Siria devastata dalla guerra civile, si infransero contro i muri che sorsero sempre più fitti, in un’Europa dove rispuntarono i confini.
Oggi il debole tentativo di riforma del trattato di Dublino si infrange contro quei muri.

Ora Salvini prova a giocare di anticipo convocando a Roma una conferenza sulla Libia, cui ha invitato la Francia, la Tunisia, Al Sarraj, “presidente libico” con limitato controllo sulla Tripolitania e Haftar, il militare vicino ad Egitto e Russia, padrone della Cirenaica.
Lo scopo dell’incontro, che precederebbe di pochi giorni il vertice europeo su Dublino 3, è chiudere la rotta libica, pagando per il servizio. A fine mese il ministro dell’Interno volerebbe in Libia per distribuire le mazzette necessarie ad oliare chi controlla le rotte dei migranti, scafisti e gestori dei lager.
Salvini ricalca le orme del suo predecessore, che si recò in Libia a pochi giorni dal proprio insediamento, promise navi, addestratori e soldi ad Al Sarraj. In agosto pagò direttamente le milizie che controllano il traffico degli esseri umani.

Secondo indiscrezioni pubblicate da El Pais ma non confermate dalla Commissione, il governo italiano avrebbe intenzione di bloccare il finanziamento di 3 miliardi di euro che l’Unione europea si è impegnata a destinare alla Turchia, con l’accordo con Ankara del 2016, per fermare l’arrivo dei migranti sulle coste europee. Il governo italiano intenderebbe chiedere che la somma venga destinata alla Libia. Una megatangente per i predoni che controllano l’ex colonia italiana.
Una mossa ardita, ma abile, anche se si esaurisse nell’effetto annuncio, perché potrebbe dar fiato alle pulsioni antieuropeiste, che attraversano il DNA di questo governo.

Sullo sfondo, invisibili, restano 629 uomini, donne e bambini della Aquarius diretti a Valencia. E i tanti altri che si giocano la vita sui sentieri montani, nelle gallerie ferroviarie, in mare e nel deserto, tra mercanti d’uomini e scafisti in abito da ministro. Come Salvini e Toninelli, che per propaganda, li usano come pedine di una scacchiera.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Riccardo Gatti dell’ONG Proactiva Open Arms.

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2 giugno a Torino. Lo sberleffo degli antimilitaristi

Tanto tuonò che non piovve. Doveva essere il 2 giugno della riscossa democratica contro la coalizione giallo-verde. I pentastellati avevano chiesto la destituzione di Mattarella per alto tradimento, il PD aveva fatto una chiamata alle armi a favore del presidente della Repubblica.
Poi i giochi si sono chiusi con un compromesso. Il professor Savona non è andato al Tesoro, ma si è preso una poltrona da Ministro è tutto è rientrato nei binari.
Evitato l’economista blasonato ma antieuro all’economia, Mattarella ha dato il via al governo. Il presidente del consiglio con i titoli taroccati e la sua allegra banda di razzisti, omofobi, misogini hanno avuto la benedizione del presidente, che ha firmato senza batter ciglio.

A Torino, il 2 giugno, il presidente Dem della Regione, Chiamparino, e la sindaca a 5 Stelle della città, si sono trovati fianco a fianco alla cerimonia militarista di piazza Castello.
Nel capoluogo subalpino, come in tutt’Italia la Repubblica ha celebrato se stessa con esibizioni militari, parate e commemorazioni.
Lo Stato ha il monopolio legale della violenza. Guerre, stupri, occupazioni di terre, bombardamenti, torture, l’intero campionario degli orrori umani, se fatto da uomini e donne in divisa, diventa legittimo, necessario, opportuno, eroico.
Le divise da parata, le bandiere, le medaglie non sono solo retaggio di un passato più retorico e magniloquente del nostro presente da supermercato, ma la rappresentazione sempre attuale che lo Stato da di se stesso.
La democrazia reale, strumento duttile di ricambio delle elite, non può fare a meno della forza militare e poliziesca, modulandone l’impiego in base ai rapporti di forza che attraversano la società.
Da qualche anno la funzione di polizia e quella militare si intrecciano e si intersecano sempre più. Gli interventi bellici oltre confine e sui confini sono diventati operazioni di polizia, mentre è diventato “normale” l’impiego dei militari con funzioni di ordine pubblico: la distanza tra guerra interna e guerra esterna è assottigliata.

Le guerre che si combattono altrove, sebbene vedano soldati italiani in prima fila, non suscitano indignazione. Forse neppure attenzione: sono diventate “normali”. Necessarie.

La guerra interna contro migranti, oppositori politici e sociali è più tangibile e gode di ampi consensi. Gli impenditori politici della paura sono riusciti a piazzare bene il proprio prodotto, fornendo un nemico “interno” da combattere. L’estraneo, l’intruso, il mangiapane a tradimento.

I tempi sono grami, inutile nasconderselo. Una buona ragione per darsi da fare, nella consapevolezza che il vento può cambiare solo se si da una mano a remare per intercettare la brezza che segna la fine della bonaccia.

Il 2 giugno anche gli antimilitaristi sono scesi in piazza, per contrastare le cerimonia armata per la festa delle Repubblica.
La polizia ha chiuso l’ingresso di piazza Castello, blindandolo con camionette, furgoni e uomini dell’antisommossa.
Il presidio convocato all’angolo con la piazza si è dovuto spostare una decina di metri più indietro. Lì è stato montato un binario e una mostra, che racconta di controlli etnici alla stazione di Porta Nuova, per impedire la partenza dei migranti diretti in alta val Susa e, di lì, in Francia.
Numerosi interventi, musica e volantinaggio per circa un’ora, finché, aperto lo striscione dell’assemblea antimilitarista “contro tutti gli eserciti, per un mondo senza frontiere” ci si è mossi verso la polizia, che dopo qualche minuto si è ritirata. Il piccolo corteo ha guadagnato piazza Castello, dove si era appena conclusa la cerimonia militarista.

La gente in piazza ha ascoltato e plaudito gli interventi finali della manifestazione. Un segnale che qua e là il vento soffia nella direzione giusta.

Nella notte ignoti antimilitaristi hanno appeso uno striscione “militari assassini” al monumento ai bersaglieri in corso Galileo Ferraris e ai sei bersaglieri di ferro hanno messo sul capo mutandine colorate.
Una beffa per smontare la retorica militarista, per “fare la festa” alla Repubblica. Un passante ci ha inviato alcune foto che volentieri pubblichiamo.

Di seguito il volantino che l’assemblea antimilitarista ha distribuito in piazza nel pomeriggio.

“L’Italia è in guerra. A pochi passi dalle nostre case si producono e si testano le armi impiegate nelle guerre di ogni dove.

Le usano le truppe italiane nelle missioni di “pace” all’estero, le vendono le industrie italiane ai paesi in guerra. Queste armi hanno ucciso milioni di persone, distrutto città e villaggi, avvelenato irrimediabilmente interi territori.
L’Italia è in guerra. Ma il silenzio è assordante.
La retorica sulla sicurezza alimenta l’identificazione del nemico con il povero, mira a spezzare la solidarietà tra gli oppressi, perché non si alleino contro chi li opprime.

Chi promuove guerre in nome dell’umanità paga il governo libico e quello turco perché i profughi vengano respinti e deportati.

Ogni giorno dalla stazione di Torino partono treni diretti in alta Val Susa. Polizia e militari selezionano le persone in base al colore della pelle.
In Piemonte i migranti prendono le rotte alpine al confine con la Francia.
Il confine è una linea sottile sulle mappe. Tra boschi e valichi, tra le acque del Mare di Mezzo, non ci sono frontiere: solo uomini in armi che le rendono vere.
Le frontiere tra i sommersi e i salvati sono ovunque, ben oltre i confini di Stato e le dogane.
Ogni strada è una frontiera, da attraversare con circospezione. I senza carte ogni giorno rischiano di incappare in una pattuglia, di essere rinchiusi nel CPR o deportati a migliaia di chilometri di distanza.
Pochi giorni fa una giovane donna per sfuggire ai gendarmi è scappata da sola, di notte nei boschi. L’hanno trovata morta nella Durance. Il corpo di un migrante sconosciuto è riaffiorato nella neve,

I militari che vedete a Porta Nuova e al confine sono gli stessi che fanno la guerra in Afganistan, Iraq, Libia…
Anche qui fanno la guerra. La guerra ai poveri, la guerra a chi fugge dalle bombe e dall’occupazione militare.
Guerra interna e guerra esterna sono due facce della stessa medaglia. Oggi i militari fanno la guerra ai poveri senza documenti, domani faranno la guerra a tutti.

Il silenzio è assordante. Il pensiero sulla sicurezza – lo stesso a destra come a sinistra – sembra aver paralizzato l’opposizione alla guerra, al militarismo, alla solidarietà a chi fugge persecuzioni e bombe.

In Val Susa, nel brianzonese e a Torino c’è chi ha deciso di non stare a guardare la gente che crepa, i ragazzi cui amputano i piedi perché non hanno le scarpe adatte, che si perdono nella neve, che dormono in strada.
Mettersi in mezzo è possibile. Dipende da ciascuno di noi.”

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Occupazione, sgombero e manganellate. I rider torinesi di Deliveroo in trasferta a Milano

Deliveroo è una multinazionale delle consegne rapide. Si avvale della “collaborazione” di lavoratori non dipendenti, liberi professionisti, che non hanno diritto all’indennità da infortunio, alle ferie, alla mutua, alla previdenza. Nessuna copertura. La compensazione di tale vuoto di tutele sarebbe la libertà di lavorare quanto e quando si vuole.
O no? Sino a poco tempo fa i fattorini dichiaravano la propria disponibilità a lavorare per la settimana, la app che ne governa l’attività confermava o meno i turni richiesti. C’era una paga oraria minima e poi un tot a consegna. Per guadagnare qualcosa era necessario essere molto disponibili per molte ore.
Ora Deliveroo alza il tiro, mira a tenere al guinzaglio i fattorini, lasciando a terra i meno disponibili e flessibili.
La nuova app, già introdotta in vari altri paesi europei, prevede una selezione dei fattorini in base alla loro disponibilità a lavorare, specie nei fine settimana, quando le richieste di consegna aumentano.
Non solo. Deliveroo mira ad introdurre il cottimo. Se non pedali, anche se hai passato ore ad aspettare, non guadagni nulla. Se non pedali in fretta il tuo guadagno sarà risibile.
Non c’è bisogno della frusta: o ti disciplini da solo o non guadagni niente.
Vi ricordate “Samarcanda”? La ballata di Vecchioni dove il protagonista lancia il suo cavallo in una corsa folle, per scoprire che la morte da cui fuggiva lo aspettava all’arrivo?
Lavorare a cottimo è una corsa folle verso Samarcanda.
Secondo una recente indagine Istat la produttività del lavoro e la redditività del capitale hanno avuto una significativa crescita nel 2017.
Queste cifre, tradotte dai numeri ai fatti, ci descrivono la crescita dello sfruttamento dei lavoratori, che lavorano sempre più per sempre meno.
Nulla di nuovo sotto il sole. L’unica novità è la spersonalizzazione del rapporto padrone/lavoratore favorita dalla tecnologia utilizzata. Gli algoritmi che governano le vite dei fattorini sono pensati per rispondere alle esigenze di chi si arricchisce sul lavoro altrui.

Il 20 marzo i rider torinesi hanno deciso di scioperare. Ritrovo nella Casa dei Rider in attesa degli ordini di consegna. Man mano che gli ordini arrivano vengono rifiutati, sino alla paralisi del servizio. Da tempo è stata abolita la possibilità di darsi disponibili anche fuori turno, che consentiva chi non era in servizio di unirsi allo sciopero.

Il giorno dopo i rider si danno appuntamento allo sportello rider: unico momento in cui i fattorini possono incontrare fisicamente responsabili dell’azienda, ormai organizzata in modo totalmente virtuale: firma dei contratti, organizzazione del lavoro e ogni altra comunicazione avvengono on line.
La responsabile rifiuta l’incontro, poi promette di telefonare ai capi a Milano. Poi chiama un taxi e, con gli altri due impiegati si dilegua, chiudendo lo sportello per l’intera giornata.

Di qui la decisione di andare a stanarli nella loro sede centrale a Milano, che sabato scorso è stata occupata e poi sgomberata con la forza.

Nel pomeriggio di venerdì 13 aprile, in occasione dello sportello riders milanese, una ventina tra ciclofattorini e solidali hanno occupato gli uffici di Deliveroo Italia per pretendere delle risposte alle proprie richieste.
I lavoratori si sono presentati con una lettera di rivendicazioni. Matteo Sarzana, il general manager della multinazionale, arriva protetto dalle guardie private. Sarzana, visibilmente nervoso, si attacca alla retorica della precarietà della sua posizione. Siamo tutti sulla stessa barca: chi al timone, chi a remare, chi a sparare su chi non va lesto, chi a contare i soldi guadagnati.
É subito chiaro che Sarzana non molla un centimetro. Chi non china il capo e pedala in silenzio per pochi soldi, è libero di licenziarsi. O, meglio, di rescindere il contratto di collaborazione.
Le chiacchiere di Sarzana servono solo a prendere tempo, il tempo necessario all’arrivo della polizia, che lo “scorta” fuori dall’edificio. La Digos entra e cerca di identificare i lavoratori, che stavano provando ad aprire un tavolo di trattativa.
Di fronte al rifiuto, la polizia politica minaccia di far arrivare l’antisommossa, che poco dopo arriva e si schiera all’esterno, dove accorrono anche alcuni solidali.
In questo caos, i dispatcher, che sovrintendono gli ordini dei fattorini, continuano a pigiare i tasti del loro PC come se nulla fosse.
I guardioni spingono, fanno battute sessiste, provocano. La tensione si alza sia dentro che fuori: guardie private e poliziotti picchiano e manganellano rider e solidali
Un ragazzo viene lievemente ferito alla testa durante gli scontri.
Poi si parte per un breve corteino in zona.

Il giorno dopo la dirigenza della multinazionale emette un comunicato volto ad isolare e criminalizzare i lavoratori in lotta, additati come rivoluzionari di professione, pochi arruffapopoli invisi agli altri lavoratori fidelizzati. Le lotte di questi mesi, gli scioperi con blocco totale delle consegne, dimostrano che Deliveroo gioca la carta della delegittimazione dei lavoratori più attivi nelle lotte, nella speranza di riuscire a spezzare il fronte dei ciclofattorini.
La lotta continua.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Stefano, uno dei rider in lotta

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Vittorio Taviani. Le coq est mort

È morto Vittorio Taviani. Nel 1972, con il fratello Paolo, aveva scritto e diretto il film “San Michele aveva un gallo”. La vicenda, pur con una chiara nuance allusiva, non si riferiva a fatti realmente accaduti.
Il protagonista è un anarchico militante nella Prima Internazionale, condannato all’ergastolo dopo un tentativo insurrezionale.
In galera subiva un isolamento totale. Gran parte della narrazione si dipana intorno ai suoi tentativi di mantenersi lucido in quella situazione terribile.
Dopo dieci anni decidono il suo trasferimento in un altro carcere.

Si trova su un’imbarcazione nella laguna veneta, scortato alla nuova prigione. Durante il viaggio la sua barca incrocia quella di altri detenuti. Uno di loro gli dice che ora il socialismo era elettoralista, che la sua visione della rivoluzione era perdente, perché mancava della scienza del materialismo storico.
L’uomo, in quei pochi minuti prende coscienza del fallimento dell’anarchismo di fronte alla scienza marxista e si suicida, annegandosi nella laguna.
Quel film era il tipico esempio della spocchiosa arroganza dei marxisti di quegli anni, convinti che, forti dei loro gulag, avevano trionfato su quei poveri utopisti degli anarchici.
Tanti anni sono passati da allora. Il marxismo e la socialdemocrazia sono morti, fallendo miseramente nei loro progetti di emancipazione sociale.
L’anarchismo è invece ancora vivo nelle lotte sociali del pianeta.
Anche Vittorio Taviani è morto. Non possiamo non notare la sua incoerenza. Ha preferito morire nel suo letto. Dopo la constatazione del fallimento del marxismo, per un briciolo di dignità, avrebbe dovuto annegarsi nella laguna veneta.
E. P.

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