Categoria: razzismo

Torino. Una piazza borghese. E le sue paure

La piazza Si Tav del 10 novembre a Torino, a saperla osservare, ci racconta della persistenza del mito del progresso e della velocità. Il motore dello sviluppo, del benessere e del saldo ancoraggio al treno del primo mondo.
La piazza Si Tav, piazza borghese, per bene, torinese, che si alimenta del ricordo di Cavour e del canale di Suez, sogna un Piemonte che non c’è più. E non tornerà.
È una piazza la cui principale novità è il suo stesso esserci, la scelta di scendere in campo e di rendere visibile un aggregato sociale, che usualmente è restio a farlo.
Il paragone con la marcia dei 40.000 colletti bianchi della Fiat al termine dell’ultimo braccio di ferro tra la classe operaia torinese e i padroni della città appare tuttavia del tutto incongruo. In questi ultimi 40 anni tanta acqua è passata sotto i ponti della città dei tre fiumi.
I colletti bianchi difendevano, pagati e spinti dal padrone, una posizione di piccolo privilegio che ritenevano inattaccabile. Pochi anni dopo i fatti dimostrarono quanto grande fosse stato il loro errore. I protagonisti di quella marcia e i loro figli, colletti bianchi per via ereditaria, vennero licenziati, quando il padrone decise che non servivano più.
Ma. L’errore più grande lo commisero gli operai in lotta da trentacinque giorni davanti ai cancelli della Fiat. Credettero al sindacato, che già aveva pronto l’accordo che barattava ventimila licenziati con sessantamila cassaintegrati. La grande epopea dei lavoratori della città-fabbrica non finì per la marcia degli impiegati Fiat, ma per la resa ad un sindacato che stava cambiando pelle, avendo già mutato anima negli anni del compromesso socialdemocratico.
Se in quei giorni fosse partito un appello a tornare in piazza, la marcia dei “40.000” sarebbe scomparsa nel nulla e nessuno la ricorderebbe.
Quella vicenda si incise a sangue nella memoria collettiva, perché spianò la strada alla vendetta padronale, che fu implacabile.
Torino si è trasformata radicalmente. La città della Fiat, pensata e costruita come città fabbrica, ha lasciato il posto alla città immaginata tra il Politecnico, la stessa Fiat, le Banche e il partito Democratico. Città di servizi, turismo e grandi eventi. Gli antichi borghi operai, luogo di crescente marginalità sociale, sono costantemente sospesi tra riqualificazioni escludenti e il parco giochi per carabinieri, militari e poliziotti.
Evocare la marcia dei “40.000” è un abile artificio retorico per proclamare la vittoria prima di aver vinto.
Questa volta però, alla faccia del governo pentastellato della città, che si è affrettato ad aprire un’interlocuzione con i Si Tav, il movimento No Tav non ha esitato e ha lanciato un corteo per l’8 dicembre che, partendo da piazza Statuto, quella della rivolta del 1962 contro la UIL, si concluderà in piazza Castello, nello stesso luogo dei Si Tav.
La partita è quindi ancora apertissima.
Ed è meno banale di quanto sembri, perché ci racconta della città com’è ora, non di quella del tempo andato.
La borghesia scende garbatamente in piazza per rimettere a posto le cose, per fare ordine, per spiegare alla sindaca Appendino chi comanda in città.
La piazza Si Tav del 10 novembre è la piazza dei padroni. Basta dare un’occhiata all’elenco delle associazioni promotrici per rendersene conto. Si va dalle associazioni padronali a quelle del commercio per arrivare alle organizzazioni sindacali degli edili di CGIL, CISL e UIL, che questa volta non hanno problemi a stare nella stessa piazza dei padroni. Non devono più fingere.
«Noi stiamo perdendo le energie migliori della nostra società: le famiglie li hanno educati, le scuole formati e noi diamo ciò che abbiamo creato, i nostri giovani, all’estero. Voglio dedicare questa piazza a Pininfarina e Marchionne che si sono battuti per la Tav». Diceva uno degli speaker dal camion/palco. E giù applausi a Marchionne e, non guasta mai, anche alle forze dell’ordine.
Chi c’era, come il professor Semi, anche solo per dare un’occhiata, ha descritto così piazza Castello del 10 novembre: “Il garbo, la gentilezza, le maniere civili, sono state le parole d’ordine di questa riemersione della borghesia torinese dalla propria proverbiale riservatezza e aristocratico distacco. Oggi in piazza erano visibili diversi gruppi sociali che la compongono e, per contrasto, si vedeva ancora meglio chi non c’era.
Iniziamo dai presenti. Signori e signore perbene, dall’età media attorno ai Cinquanta, ogni tanto con i figli grandi e più spesso con amici e colleghi. Si sono rivisti in massa i Barbour, e le signore avevano dei cappotti da boutique, talvolta arancioni come da richiesta delle organizzatrici della matinée. Si tratta di una stima ‘ad occhio’, ma se erano molti anche gli anziani ben vestiti, mancavano quasi completamente i 20-30enni. Le classi sociali visibili non erano molte, c’era sicuramente diversa borghesia professionale, e un po’ di ceto medio tradizionale, commercianti e artigiani. Ad occhio non erano tantissime le partite IVA ai minimi, non c’erano operai, sicuramente il livello di istruzione medio in piazza era molto elevato e per nulla rappresentativo della città. Si è detto delle fasce mediane assenti e dei giovani in generale, ma quello che saltava all’occhio fin da subito era la totale assenza di popolazione straniera, sia povera che ricca. La folla oggi riunita era molto torinese, anche se i richiami al Piemonte, all’Italia e all’Europa sono stati tanti. Una massa bianca, matura se non anziana, benestante, istruita e gioiosa ha occupato per circa due ore la principale piazza della città.”
La borghesia torinese è scesa in piazza per dare un segnale all’amministrazione locale e al governo giallo verde. Puntano sul PD, ma potrebbero senza troppi problemi appoggiare un governo di centro destra.

Nonostante il Bon Ton e i bei modi esibiti è una piazza a suo modo patetica, perché Cavour e Suez sono roba di due secoli fa e non bastano più a nutrire l’illusione del progresso che consegna doni e sicurezza all’imprenditoria operosa e ai suoi intellettuali, professionisti, professori, giornalisti.
Il treno che buca le Alpi, come a suo tempo lo stesso Tunnel del Frejus, ai cui costruttori è stato dedicato un monumento in piazza Statuto, sventa la paura del piccolo Piemonte schiacciato contro le montagne, isolato dai traffici, emarginato da Milano, la cugina meneghina, che ha retto molto meglio l’impatto della terza e della quarta rivoluzione industriale. É un feticcio, non un treno. Certo ci sono gli affari delle lobby del cemento e del tondino, delle banche, degli edili, ma la sostanza che ha portato in piazza commercianti e imprenditori, assieme alla borghesia delle professioni è la forza simbolica acquisita da quel treno.
Lo scontro sarà quindi senza esclusione di colpi, perché, sottile, ben nascosto, ma evidente appare il motore di quella piazza: la paura. Gli orfani della città Fiat oggi si aggrappano al treno ad alta velocità. Poco importa che non serva a nulla. Però può rendere bene a chi la fa. E tanto basta: di doman non c’è certezza.
La città vetrina ha scongiurato gli orrori della Rust Belt statunitense, riciclando per Olimpiadi e grandi eventi, gli enormi capannoni vuoti dell’era dell’industria trionfante. Centri commerciali e mega padiglioni espositivi con intorno nuovi quartieri ed infrastrutture per raggiungerli sono stati la ricetta del post Fiat. Ma non bastano. Non possono bastare.
Sullo sfondo, ben nota ai borghesi torinesi c’è Flint, la città dove il futuro è già presente. A Flint nacque la General Motors: oggi interi quartieri sono abbandonati. Imponenti macerie industriali ne segnano il panorama, tra povertà, mafie e ghetti urbani. La gente beve acqua avvelenata, le truppe vi svolgono esercitazioni “antiterrorismo”. È il Michigan ma potrebbe essere lo specchio di Torino, delle sue periferie, dove le macerie sono quelle sociali.
Un baratro in cui tanti hanno paura di scivolare. E la paura genera mostri.
Lo sanno bene quelli delle periferie, che hanno abbandonato il PD e hanno votato, anche se a votare non sono più tanti come un tempo, per le Cinque Stelle. Sono quelli dei blocchi dei forconi del 2013. Niente Bon Ton: blocchi, tricolori, appelli ad un governo militare, caciara. Sembrava la gente del dopo stadio, tifosi con le bandiere e le trombette, fuori controllo anche dalla destra che provava a cavalcarli e da post autonomi e anarchici situazionisti, che puntavano al caos sistemico. In comune con i borghesi del 10 novembre l’amore per i poliziotti, applauditi e vezzeggiati da entrambe le piazze.
Tornati nei ranghi dopo tre giornate, perché la rivoluzione la volevano in un giorno e in un giorno è difficile farla, anche se credi di avere il vento in poppa e ti muove la tenera auroralità di chi crede all’iconografia della rivolta. Oggi pare vogliano tornare in piazza “contro l’Europa e non contro il governo”, sperando di spuntarla sulla odiatissima direttiva Bolkenstein e altre tasse. Forse in gilet giallo, alla francese.
Anni luce tra queste due piazze. Senza dubbio. Spinte però entrambe dalla paura del futuro che non c’è più. Paura e rabbia mescolate per le promesse non mantenute per il figlio laureato dell’operaio, che non ha né lavoro né prospettive, ma tanto risentimento.
L’amministrazione Appendino è figlia anche di quella piazza. Ma non solo, perché la vittoria di Appendino, due anni fa, fu possibile solo grazie all’appoggio delle destre subalpine. Parte delle quali sono oggi uno degli assi del governo pentastellato.
Quest’alchimia un po’ bastarda ma non troppo spiega le giravolte della giunta Appendino, che potrebbero portarla ad un’impasse difficile da superare.
D’altra parte, alla fetta di elettorato forcone dei 5 Stelle, fatto di mercandini, partite IVA, giovani precari bianchi e rancorosi, non importa nulla del Tav, ma sono a loro volta soggiogati dalla retorica della difesa dei confini, dell’illusione protezionista, in bilico tra il liberismo estremo dei no tax e la richiesta di tutela statale. Un bel groviglio.

In questo groviglio parte del movimento No Tav si è infilata mani e piedi, schierandosi in modo esplicito con i 5 Stelle, nonostante oggi in tanti comincino ad accorgersi che l’opposizione al Tav è più una palla al piede che un obiettivo per i 5 Stelle. In questi anni la lotta No Tav si è saldata in modo tanto forte con la critica delle relazioni politiche e sociali dominanti, da renderla incompatibile con il capitalismo e le sue regole feroci.
I No Tav sono corpi estranei allo scontro di potere in atto, gli unici, con numeri e consenso ampi, che pur nella diversità di approcci e prospettive, non sono mossi dalla paura ma dalla consapevolezza che il futuro dipende da ciascuno di noi. L’idea stessa di sviluppo si sgretola sotto le picconate di una critica che sarebbe sbagliato credere pauperista o ingenua, perché si nutre della comprensione dell’urgenza di tante piccole opere utili alla vita e alla salute di tutti, dell’urgenza di rallentare la curva del riscaldamento globale, dell’importanza di scommettere sulla capacità di autogoverno reale dei territori. E sulla consapevolezza che ribellarsi e vincere è possibile.

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Il seme dell’odio

Hannah Arendt, osservatrice al processo ad Eichmann, il “contabile dello sterminio”, che si atteggiava a grigio burocrate, scrisse di “banalità del male”. Probabilmente, al di là delle polemiche che suscitò all’epoca la sua rappresentazione di uno dei responsabili dello sterminio di milioni di persone, Arendt non poteva sospettare la fortuna che avrebbe avuto nei decenni successivi la sua amara constatazione su quanto conformista, insignificante, convenzionale, incolore fosse il male.
Oggi sappiamo che Eichmann era ben più che un mero “contabile”, bravo nel rendere più veloci, semplici, efficaci le modalità con le quali a ritmi da catena di montaggio, si raccoglievano, selezionavano, spogliavano, uccidevano e bruciavano i corpi di milioni di persone eliminate come polli allevati in batteria. Con la stessa, quieta, indifferenza. Resta il fatto che tanti furono gli esecutori materiali dello sterminio, come tanti vi collaborarono mettendo a frutto le proprie competenze tecniche, giuridiche, mediche, amministrative. Chi non collaborò attivamente sapeva ed approvava. La grandissima parte di queste persone non era né sadica né incline alla violenza.
Tanta cinematografia statunitense degli anni successivi ha confezionato un’immagine della dittatura nazista deformata dalle esigenze di propaganda del momento. La Germania Ovest era un’alleata preziosa durante la guerra fredda con l’Unione Sovietica. Il cinema costruì la narrazione, falsa ma potente, di una Germania schiacciata dal tallone dell’elite hitleriana e dalle SS, dove il popolo e l’esercito erano ignari ostaggi di una macchina feroce.
Sappiamo che non è così. Sappiamo che la “soluzione finale” era narrata nei cinegiornali, sappiamo che la deportazione e l’uccisione degli ebrei europei era approvata e plaudita, sappiamo che tutto venne codificato in un solido apparato legislativo.
Sappiamo che il Terzo Reich godeva dell’appoggio di un’ampia maggioranza della popolazione, perché era quel che era. Punto.
Altrimenti non vi sarebbe stata Auschwitz.
I 12 anni di nazismo venivano ridotti ad una parentesi di follia. Irripetibile.
Nel 1963 Arendt, nello specchio di Eichmann vide riflessa la normalità dello sterminio. Una banale procedura. Così banale che potrebbe ripetersi.
Non allo stesso modo, ma con la stessa ineluttabile semplicità. Semplice come la vita di ogni giorno, come la quotidianità che si nutre di ripetizioni, di piccoli rituali, di procedure consolidate.
Capita di chiedersi se non rischiamo di trovarci presto di fronte al bivio nel quale si separano complici e vittime, perché il tempo delle nuance, delle sfumature, delle gradazioni di grigio sta finendo.
Siamo abituati a pensare che il male sia estraneo alla vita quotidiana, estraneo alla normalità. Siamo convinti che il male non sia mai incolore. Persino quando lo è fingiamo che non lo sia, fingiamo che rappresenti l’eccezione, mai la regola.
La guerra, che pure è divenuta una costante di questi nostri anni, con truppe italiane che combattono su tanti fronti, viene raccontata come “male necessario”, o finanche come “male minore”. L’articolarsi della narrazione bellica intorno ad ossimori come la guerra umanitaria o edulcorazioni come l’operazione di polizia internazionale dimostra la volontà di nascondere la verità sui massacri delle truppe italiane.
Tutti sanno che la polizia picchia e tortura in modo ben più sistematico di quanto non rivelino vicende che solo la tenacia dei parenti delle vittime rende noti. Finché può lo Stato e le sue guardie armate negano l’evidenza, negano che Cucchi, Uva, Aldrovandi e tanti altri siano stati massacrati intenzionalmente. Negano perché temono lo sdegno che certi delitti potrebbero suscitare.
Negano e nascondono perché sono convinti di non avere il sostegno di una maggioranza significativa.
Sino ad oggi. Un giorno di questi potrebbe accadere che smettano di coprire con un tappeto il sangue per rivendicare la violenza sistematica di polizia, carabinieri, militari.
L’attuale ministro dell’interno, Matteo Salvini, ha approvato l’operato delle forze dell’ordine nel caso di Stefano Cucchi. Se il ministro di polizia sostiene che le botte a Cucchi sono giustificate, non sono ancora cambiate le leggi, ma potrebbero essersi modificati i rapporti di forza. Salvini ritiene di avere l’appoggio popolare: numerosi indizi inducono a ritenere che le sue convinzioni non siano prive di fondamento.
Questa lunga estate sembra scivolare via senza troppi contraccolpi, ma il sottile senso di inquietudine che attraversa le piazze dove, sin troppo timidamente, qualcuno prova a mettersi di mezzo, allude alla delicatezza del momento. La lunga storia della guerra ai migranti è come una pietra che rimbalzi a lungo quieta lungo un declivio, facendosi quasi frana, senza tuttavia mai correre all’impazzata. Pare che quest’estate di colpo il pendio sia divenuto più scosceso e la corsa stia accelerando. Non è questione di numeri ma di sostanza.
Le statistiche disegnano grafici inequivocabili: dallo scorso anno gli sbarchi sono nettamente diminuiti. Nell’estate del 2017 il governo Gentiloni inaugurò la stagione di lotta alle ONG impegnate in operazioni di serch and rescue nel Mediterraneo e strinse accordi con le milizie di Zawija e Sabratha, affinché bloccassero il traffico di migranti sotto il loro controllo.
Quest’anno il terreno era già stato sgomberato e reso disponibile a nuove operazioni di guerra non dichiarata. Il nuovo ministro ha solo completato l’opera, inserendo un tassello che né il suo predecessore Minniti, né, a suo tempo il suo camerata Maroni avevano osato portare sino in fondo.
Lo scontro esplicito con l’Europa è il perno su cui ha girato l’operato di Salvini e del ministro dei trasporti, il pentastellato Toninelli.
Impedire lo sbarco di centinaia di persone ripescate in mare da un’unità della Marina Militare Italiana va al di là della guerra alle ONG, criminalizzate come complici dei trafficanti. Negli ultimi mesi di governo già Minniti aveva chiuso i porti ad alcune ONG e, quando diede il via libera agli sbarchi, scattarono inchieste, blocchi delle imbarcazioni, accuse gravissime agli equipaggi.
Nel 2011, dopo un lunghissimo braccio di ferro con l’Europa, un altro ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni, si arrese e, in una sola notte, fece trasportare da Lampedusa alla Sicilia e, di lì, nei campi tenda settemila profughi della guerra per la Libia.
L’attuale governo è in sostanziale continuità con quelli precedenti di centro-sinistra e di centro-destra o siamo di fronte ad una frattura, ad una novità radicale, ad un salto di qualità?
Il dilemma, sebbene appaia autentico, nel dibattito politico estivo assume il sapore agre dell’interrogativo retorico. Rappresentare il governo Salvini-Di Maio nel segno della discontinuità radicale sui temi dell’immigrazione è operazione utile sia a destra che a sinistra del quadro istituzionale. Salvini, in continua campagna promozionale, vuole dimostrare di essere riuscito dove tutti gli altri hanno miseramente fallito, la disastrata opposizione Dem spera di rifarsi il trucco con l’antifascismo e l’antirazzismo.
Entrambi hanno ben poca lana da tessere, muovendosi sul terreno della propaganda.
Per i nazionalsocialisti non sarebbe stato facile promuovere lo sterminio degli ebrei se sin dai tempi della Seconda Internazionale i socialdemocratici non avessero soffiato sul fuoco dell’antisemitismo, equiparando l’ebreo al capitalista. Il che non implica negare la frattura ed l’imponente salto di qualità nazista.

La legislazione sull’immigrazione nel nostro paese ha delineato una rottura dell’ordine liberale, configurandosi come “diritto penale del nemico”, secondo la definizione coniata dal giurista tedesco Jacobs nel 1985, e articolandosi in termini che definirei di “diritto amministrativo del nemico”. Il mancato accesso ai diritti di cittadinanza finisce con il declinarsi in negazione dei diritti umani.
I governi di centro-sinistra, pur avendo inaugurato questa stagione nel lontano 1998 con la legge Turco-Napolitano che istituì la detenzione amministrativa nel nostro paese, provano a mantenere intatta la patina umanitaria. Una patina sottile. Tragicamente ridicola, ma simbolicamente importante. Per quanto abnormi siano la detenzione e la deportazione, per quanto sia criminale la blindatura delle frontiere, che uccidono chi prova ad attraversarle, per quanto evidenti siano le responsabilità di tutti i governi, le cerimonie del cordoglio mettono in scena la finzione che le stragi siano “disgrazie”, “incidenti” da imputare al mare o ai trafficanti.
Il nuovo governo ha annunciato un pacchetto sicurezza, che, pur annunciando un prolungamento della detenzione amministrativa non rappresenta una significativa rottura con il recente passato.
La novità è altrove. La sottile patina umanitaria, etichettata come “buonismo” è stata stracciata. La gente in viaggio viene etichettata come criminale, portatrice di malattie, pericolosa. Nemica.
Tutti. Sempre. Uomini, donne, bambini. Quest’estate non abbiamo assistito alla messa in scena del lutto istituzionale. Le barche affondate mentre le ONG assistevano impotenti, l’incriminazione di chi si è ribellato al ritorno in Libia sono state ragione di orgoglio.
Salvini è indagato per sequestro di persona, mancata assistenza perché non si è neppure preoccupato di adeguare le norme alle pratiche da lui imposte. Può così, pur essendo al potere, giocare il ruolo del perseguitato. Un gioco che i suoi alleati a cinque stelle hanno fatto con abilità e profitto per anni. Lungo questo declivio il ruzzolar di pietre può divenire frana. Il governo del cambiamento potrebbe chiedere ed ottenere più potere per assolvere il mandato di proteggere la comunità – gli italiani dimentichi del Po e dei riti celti – dal moloch della finanza, dall’immigrazione che mira a spezzare e cancellare l’identità, dalla libertà che nega il nucleo etico familiare.
Tra il 9 e il 12 dicembre del 2013 a Torino migliaia di persone si riversarono in strada imbracciando tricolori, decise a bloccare tutto perché deluse dal cambiamento che non arrivava, spaventate per il futuro che non c’era più. Bloccarono le strade e abbracciarono i poliziotti. Sui loro volantini si auspicava un governo militare, una dittatura. Finì presto. Tutti, delusi tornarono a casa, i media affondarono nel ridicolo quell’avventura e nessuno ci pensò più.
Oggi quella gente ha trovato la propria rappresentanza, un governo che ha promesso di realizzarne il programma.
Mentre scrivo le agenzie hanno appena battuto la notizia di un profugo sedicenne aggredito e ferito a Raffadali. Chi lo ha colpito gli ha gridato “vattene a casa tua”. È l’ultima di tante vicende tutte uguali.
Provate ad immaginare. Un uomo dal balcone vede una donna rom con una neonata in braccio, entra in casa, prende il fucile a pallini e spara alla bambina.
Un altro tizio vede un lavoratore sull’impalcatura. Prende il fucile e lo ferisce. L’operaio è di origine africana. Il ministro dell’Interno si mostra comprensivo con i fucilieri della ringhiera.
Impossibile? È successo quest’estate nel Belpaese. Ci sono case dove il rancore cova da tanto tempo, distillandosi goccia a goccia, corrodendo ogni senso di legame umano. Il seme dell’odio sta producendo i suoi frutti avvelenati.
Nessuno dica che non sapeva, nessuno dica che non aveva capito.

Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista

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L’altro Pride. Contro frontiere e decoro

Giugno è il mese del Pride. La giornata dell’orgoglio delle persone omosessuali, transessuali, queer, bisex, intersex nasce dopo la rivolta di 49 anni fa a a New York. Stanch* di violenze, irrisioni, soprusi della polizia quelli dello Stonewall alzarono la testa e attaccarono la polizia. Il primo Pride fu un riot.

A Torino il Pride è un’imponente sfilata attraversata da decine di migliaia di persone. Ma Stonewall è lontana, lontanissima da Torino.
Il Pride anno dopo anno è diventato un ibrido tra un carnevale, una passerella istituzionale e uno evento commerciale.
C’è sempre meno spazio per le voci critiche, per un approccio intersezionale, per chi vuole che libertà e diritti siano per tutti, anche per gli esclusi dal grande banchetto, per i migranti, i poveri, i rom, i senza casa.
Lo slogan di quest’anno era “Nessun dorma”, una maniera appena accennata di alludere alle componenti omofobe, maschiliste, transfobiche del governo giallo-verde. Senza esagerare, senza permettersi critiche al governo della città e a quello della Regione. In punta di piedi, per non disturbare troppo.
Non poteva essere altrimenti, perché le istituzioni erano in testa al corteo.
La sfilata del 16 giugno è stata organizzata dal Coordinamento Torino Pride con il patrocinio di Comune di Torino, Regione Piemonte, Consiglio regionale del Piemonte, Torino Metropolitana, Provincia di Cuneo, Provincia di Novara. Tra gli sponsor la Coop, la Gtt, Il corpo di polizia municipale della città di Torino.

La sfilata, cui ogni carro entrava solo pagando, è stata tenuta sotto controllo dalla polizia di Stato e dal servizio d’ordine di due compagnie private, i City Angels, noti per la pulizia etnica a San Salvario e l’Hydra Service, i picchiatori prezzolati al servizio del PD, tristemente noti per i loro interventi muscolari contro ogni forma di opposizione sociale. Noi li ricordiamo per il camion dello spezzone anarchico e antimilitarista spaccato il primo maggio 2011, ma i loro bastoni si sono esibiti in molte altre occasioni.

Quest’anno al Torino Pride gli attivist* di “Nessun* Norma!”, il Pride contro frontiere e decoro del 28 giugno hanno distribuito volantini, che sono immediatamente entrati nel mirino della polizia, che li ha circondati pretendendo di sequestrarli, per le immagini satiriche stampate sul retro. Immagini considerate offensive, perché non è lecito burlare ministri e sindaci. Specie se si tratta di Salvini, Fontana e Appendino. Diverse compagn* sono state identificate e minacciate dalla digos. Alla fine gli uomini e le donne della polizia politica si sono accontentat* di sequestrare solo una parte del materiale.
Ma non è finita lì. Più tardi è stato aperto uno striscione in via Po ed acceso qualche fumogeno per attirare l’attenzione. Sullo striscione campeggiava la scritta “Il Pride è rivolta. Contro frontiere, decoro, istituzionalizzazione. Nessun Norma” Lo striscione è stato due volte rimosso dal servizio d’ordine del Pride. Un fumogeno è stato lanciato addosso alle persone.

La repressione al Pride istituzionale ha dato una bella spruzzata di pepe a chi stava organizzando il corteo indecoroso del 28 giugno.

In maggio individui e gruppi diversi, che si erano intrecciati nelle lotte contro le frontiere, gli sgomberi, la repressione hanno cominciato ad incontrarsi per costruire un altro Pride. Una scommessa che ha visto accanto Ah Squeerto e Studenti Indipendenti, Manituana e Federazione Anarchica, Breacktheborder e l’infoshock del Gabrio.
Una scommessa difficile, che si è dovuta scontrare con l’indifferenza e l’ostilità di chi, anche nei movimenti di opposizione sociale, nonostante tutto, preferiva affacciarsi al Pride istituzionale. Non Una di Meno, rete “transfemminista ed intersezionale”, avrebbe potuto portare un contributo importante all’iniziativa, invece si è divisa senza raggiungere una sintesi, ma, nei fatti partecipando attivamente, sia pure in tono minore, solo al Pride istituzionale dove sono stati distribuiti volantini, fatti interventi e portate a spasso le matrioske.
Una brutta scivolata della Rete torinese, preoccupante in un clima politico e culturale sempre più difficile.

Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.
E non può che andare peggio. Se Appendino riuscirà ad aggiudicarsi il carrozzone olimpico del 2026, il restyling della città costerà caro a chi non corrisponde ai criteri di decoro urbano.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria, cedendo alle tentazioni populiste e nazionaliste, rischiando di scivolare sul declivio della guerra tra poveri.

Il governo della città è stato per decenni nelle mani del Partito Democratico.
Da due anni governano i Cinque Stelle. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche e dai padroni.
Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. Appendino fa la guerra ai rom, sguinzaglia i vigili urbani a caccia di mendicanti, lavavetri, spacciatori di accendini, senza casa.

Chi aveva creduto alla retorica della democrazia penta stellata sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. I posti occupati che non hanno accettato la normalizzazione a Cinque Stelle sono stati sgomberati. La baraccopoli rom di corso Tazzoli è stata demolita per la “sicurezza” degli abitanti gettati in strada.
La retorica della “cittadinanza” partecipativa sceglie chi includere e chi escludere, nel gioco feroce delle poltrone, del potere, delle alleanze.
Appendino prepara la vetrina olimpica, cementifica la città, si congratula con la polizia che arresta gli anarchici… sfila in testa al Pride e benedice le famiglie arcobaleno.

Il 28 giugno l’altro Pride ha attraversato il centro cittadino, nonostante il nuovo questore avesse imposto divieti di sapore squisitamente politico. Piazza Palazzo di città, dove ha sede il comune, è stata chiusa e blindata da Digos e poliziotti in assetto antisommossa. Un blocco risibile di fronte alla folla queer che li fronteggiava, irrideva, mimava. Il segno che i timori per “l’ordine pubblico” erano solo paura di corpi ed identità erranti indisponibili a farsi rinchiudere in una gabbia dorata, dove il prezzo della “libertà” è l’accettazione delle linee di cesura che attraversano il nostro spazio sociale.
Cartelli con le “coppie di fatto” danno il segno di una critica intollerabile per la questura e la prefettura, la lunga mano del governo sui territori.
Chiara Appendino e Lorenzo Fontana, la sindaca gay friendly ed il ministro della famiglia omofobo e maschilista. Merkel ed Erdogan, Di Maio e Salvini, le coppie oscene del teatro politico.

Il corteo, cresciuto lungo il percorso, ha sostato in piazza Castello, percorso via Po e via Accademia tra musica, balli, corpi liberi e interventi. In corso Vittorio è dilagato su tutti e quattro i viali sino alla blindatissima stazione di Porta Nuova, vera frontiera invisibile nel cuore di Torino. Ogni giorno, da mesi, i binari da dove partono i treni diretti in Val Susa sono sorvegliati da pattuglie interforze di poliziotti e militari, che selezionano i passeggeri. Se sei nero, anche se hai un documento in tasca ed un biglietto, ti rimandano indietro. La frontiera con la Francia erige i suoi muri nel cuore di Torino.
Le frontiere sono linee su una mappa. Sottili righe scure fatte di nulla che uomini armati in divisa rendono vere.
Le frontiere dividono e uccidono.
Nel Mediterraneo e in montagna. Nei ghetti dei raccoglitori di frutta e pomodori, nei cantieri dove la sicurezza è un lusso.
Nei tanti interventi durante il corteo abbiamo ricordato Blessing e Mamadou, uccisi dalle frontiere chiuse al Montgenevre, Soumaila Sacko ammazzato dalla lupara al servizio dei padroni.
Le frontiere sono in mezzo a noi. Sono le leggi sul decoro che cacciano i poveri dai luoghi pubblici, sono le leggi sulla proprietà che negano una casa a chi non ce l’ha.
Sono le frontiere tra i sessi, che piegano i corpi e le soggettività erranti alle regole della famiglia, nucleo “etico” che ingabbia le relazioni, fissa i ruoli, nega la possibilità di percorsi individuali fuori dal reticolo patriarcale, statale, religioso.
Il corteo si è concluso con una festa al Valentino benefit per il rifugio autogestito Chez Jesus di Claviere.

Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo, hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Questi principi tengono saldamente fuori tanta parte dell’umanità. Poveri, donne, omosessuali, transessuali, bambini, stranieri erano/sono esclusi dall’accesso a questi diritti. La loro universalità, formalmente neutra, è modellata sul maschio adulto, benestante, bianco, eterosessuale. Il resto è margine. Chi non è pienamente umano non può essere “cittadino”, soggetto di diritto.
Chi non è pienamente umano non può aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni. Per chi ne è escluso si tratta di privilegi, per chi vi è inscritto diviene una gabbia normativa.
Come il matrimonio. Un legame sancito dallo Stato (e dalla chiesa) che fissava la diseguaglianza e l’asservimento delle donne, sottomesse al marito alla cui tutela venivano affidate. Eterne minorenni passavano dalla potestà paterna a quella maritale.
Le lotte che hanno segnato le tante vie della libertà femminile hanno in parte cancellato quella servitù. Ma ne hanno pagato il prezzo. Il prezzo dell’emancipazione femminile è l’adeguamento all’universale, che resta saldamente maschile, bianco, benestante ed eterosessuale.
Lo spazio della sperimentazione, della messa in gioco dei percorsi identitari, tanto radicati nella cultura da sembrare «naturali», tende ad estinguersi, polverizzato dalle cazzutissime donne in divisa, dalle manager in carriera, dal femminismo della differenza che inventa le gerarchie femminili per favorire manovre di lobbing. Tutto deve diventare “normale”, vendibile, controllabile.
Le differenze tra le persone non sono iscritte nella natura o nella cultura, ma offrono una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Percorsi possibili solo fuori e contro il reticolo normativo stabilito dallo Stato, che, non per caso, nega diritti e tutele alle persone che scelgono di non sposarsi.
La strada del movimento lgbtqi è stata ed è ancora in netta salita. Fascisti e preti continuano le loro crociate per escludere dall’umanità una sua parte. Le discriminazioni, la violenza statale e culturale sono molto forti.
Chi vorrebbe le stesse possibilità degli eterosessuali – adozioni, pensione di reversibilità, diritto alla cura del partner – deve adeguarsi ad un modello rigido di relazione costruita sulla coppia e sui loro figli, alla legalizzazione dei sentimenti, delle passioni, della tenerezza.
Chi sceglie di starne fuori, di fare altre strade, non può avere questi privilegi anche se eterosessuale.
La normalizzazione delle nostre identità erranti è il prezzo per accedere ad alcune libertà che si ottengono solo con il matrimonio, un legame sancito e regolato dallo Stato. È un prezzo che tanti non sono dispost* a pagare.
Abbiamo attraversato la città con la leggerezza di chi si scioglie da vincoli e lacci. Con la stessa leggerezza attraversiamo le nostre vite.
Senza frontiere, che separino i sommersi dai salvati, i cittadini e gli stranieri.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.

Maria Matteo

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Frontiere. Binario 17

Stazione di Porta Nuova a Torino, una sera come tante in un gennaio tiepido. L’aria è quella dei luoghi di transito, dove la gente passa e va. Vite sospese tra i propri luoghi d’elezione, minuti di un fluire che non si interrompe, anelli di congiunzione.
Per i profughi l’intervallo è la vita. Lunghe soste nel viaggio verso un futuro che non arriva. Il loro tempo è fatto di attese.
Siamo al binario 17. Da lì parte il treno per Bardonecchia, alta Valle Susa. Quando si aprono le porte dei vagoni, arriva la pattuglia. Due poliziotti e due militari con il mitra in braccio si piazzano all’imbocco della banchina. La gente va e viene. Arriva un ragazzo di origine africana: lo fermano, gli chiedono i documenti e lo fanno passare. Si avvicinano altri due africani, ma si allontanano subito. Quando il treno parte, gli uomini in divisa si dirigono verso di loro per controllarne i documenti. Poi, sino al prossimo treno per la Valle, si spostano verso gli ingressi.
É così ogni giorno da molti mesi. Uomini in divisa a caccia di ragazzi africani.
La stazione è una delle tante frontiere che tagliano in due le nostre città. Frontiere invisibili ed impalpabili per chi gode della cittadinanza, diventano barriere difficili da valicare per chi, a prima vista, potrebbe non avere in tasca le carte giuste.

Chi arriva Italia e vuole proseguire viene imbrigliato in gabbie fisiche e normative. I trattati europei impongono di fare richiesta d’asilo nel paese d’arrivo. A tanti, dopo anni di attesa, viene negata l’accoglienza e diventano clandestini. Le nuove leggi, emanate dal governo in primavera ma divenute operative in estate, rendono ancora più difficile far valere le proprie ragioni ed ottenere il pezzo di carta, che permette di restare in Italia.
Molti, forse i più, vorrebbero proseguire il viaggio, perché la loro meta è più a nord.
La frontiera con la Francia è aperta per la libera circolazione delle merci ma è chiusa per i migranti.
Le persone, mercanzia di nessun valore, restano impigliate nelle reti messe lungo il cammino.
La strada che porta nel cuore dell’Europa è disseminata di insidie. Il governo paga i trafficanti, invia truppe per fermare la gente in viaggio. Gli esecutori sono in Africa, i mandanti siedono in Parlamento.

Le frontiere uccidono
I muri della fortezza Europa uccidono uomini, donne e bambini che fuggono guerre, miseria, persecuzioni e dittature.
Quelli che partono lo sanno, ma ogni giorno, nel cuore dell’Africa, qualcuno si mette comunque in viaggio. Per arrivare servono soldi per pagare i trafficanti.
In Libia la guardia costiera e gli uomini delle milizie gestiscono prigioni per migranti. La Libia è un inferno per la gente in viaggio: sequestri, ricatti, torture, stupri per ottenere un riscatto dalle famiglie. Dai campi libici molti non escono vivi. Chi sopravvive alle violenze, chi riesce a farsi mandare altri soldi da casa, si imbarca sui gommoni.
Il governo Gentiloni si vanta di aver ridotto gli sbarchi negli ultimi mesi. Il prezzo pagato è stato altissimo. In soldi e in vite umane.

Nel febbraio del 2017 il ministro Minniti ha stretto un accordo con il governo della Tripolitania per i respingimenti in mare, offrendo denaro, pattugliatori e uomini in armi per l’addestramento.
In estate il governo ha obbligato buona parte delle ONG che soccorrevano la gente dei gommoni ad andarsene dal Mediterraneo, accusandole di collaborare con gli scafisti.
In agosto ha pagato le milizie libiche di Zawiya e Sabratha, che gestiscono il traffico dei migranti, affinché bloccassero le partenze.
A gennaio il parlamento ha ratificato la decisione governativa di potenziare la missione militare in Libia. In aride cifre: 400 uomini e poco meno di 35 milioni di euro.
L’ambizione del governo italiano è il blocco delle partenze in Africa. Per questa ragione Gentiloni ha messo in campo una nuova missione militare in Niger, che potrebbe porre le basi per la costruzione di campi di prigionia nel cuore del Sahel, lungo le rotte verso la Libia.
Ma in Africa, terra di conquista post-coloniale, lo scontro tra le potenze europee, gli Stati Uniti e la Cina per il controllo delle risorse è sempre più aspro. L’avventura italiana in Niger potrebbe non essere gradita al governo francese e subire una seconda battuta d’arresto in due anni, ma il governo di turno difficilmente mollerà la presa.
In questo mese sono ripresi gli sbarchi. Sono cambiate le rotte: si parte da Turchia e Tunisia. Il governo turco, impegnato militarmente nell’attacco al cantone di Afrin in Siria del Nord, aumenta la pressione sull’Europa per ottenerne appoggio politico ed economico. Mentre i Paesi Bassi ritiravano l’ambasciatore ad Ankara, Erdogan era ricevuto in Italia con tutti gli onori.

Da Ventimiglia a Bardonecchia. Le rotte dei senza carte
A Ventimiglia arrivano da anni. Il loro tempo è fatto di attesa. Attesa dell’occasione buona per passare. Tanti provano e riprovano. Qualcuno ci lascia la pelle: nelle gallerie ferroviarie o sull’autostrada, dove un cartello fisso avvisa gli automobilisti della presenza di pedoni. Ai caselli ci sono gendarmi ad ogni punto di accesso: chi ha la pelle scura viene quasi sempre fermato. Per gli altri basta un’occhiata fugace: la loro pelle chiara è il passpartout.
Nelle giornate e notti impastate del nulla dell’attesa molti bivaccano dove possono, spesso in luoghi freddi e pericolosi come il greto del torrente Roja, che fa paura quando le piogge lo gonfiano e scende ruggendo dai monti. Le tende sono sgomberate ciclicamente dalla polizia. Chi viene preso finisce su un pullman per il sud Italia o deportato nel paese di origine.
É un tragico gioco dell’oca: chi torna alla partenza non sempre riesce ad arrivare.
Era il 2009: alcuni cittadini eritrei diretti in Italia vennero respinti in Libia e rinchiusi in prigione, grazie agli accordi di Berlusconi con Gheddafi. Fecero ricorso alla corte europea per i diritti umani e lo vinsero: l’Italia venne condannata. Nel frattempo due di loro erano morti. Il mare li aveva inghiottiti durante un ulteriore tentativo di passare la frontiera.
Per migliaia di uomini, donne, bambini il tempo si ferma tra le acque del Mediterraneo. Una strage infinita. Pochi anni fa i grandi numeri di certi naufragi guadagnavano le prime pagine dei giornali. Oggi sono infilati nelle pagine interne, spesso restano sul web senza mai approdare alla carta inchiostrata. Troppo breve la durata della notizia, perché valga l’effimera luce di un quotidiano.

Chi ha affrontato il deserto, le torture, la prigionia è disposto a tutto pur di arrivare.
Molti sfidano le intemperie, pur di superare i dispositivi di controllo.
Da circa un anno chi va in Francia prende i sentieri sui valichi alpini. Lo scorso inverno Mamadou è stato trovato sul colle della Scala. É sopravvissuto ma gli sono stati amputati entrambi i piedi. In estate, due ragazzi, inseguiti dai gendarmi, sono precipitati, ferendosi gravemente.
Ogni giorno almeno una ventina di migranti provano a passare, rischiando la vita nella neve, spesso senza abiti e scarpe adatti, senza conoscere la montagna, le condizioni meteo, il pericolo di valanghe. Tanti vengono respinti più e più volte. I gendarmi che li pescano lungo la strada li caricano sulle camionette e li lasciano al di là del confine, anche in piena notte quando il freddo morde le carni.
Sul versante francese l’autista di un pullman diretto a fondovalle ha preso i soldi dei biglietti, poi ha chiuso le porte del bus e ha chiamato la polizia.
Gendarmi francesi controllano la stazione di Bardonecchia, per impedire ai migranti di prendere il treno diretto a Modane. In alta valle di Susa i sindaci hanno fatto chiudere le sale d’aspetto delle stazioni in pieno inverno. Da quando le immagini e le storie di questa frontiera sono arrivate sui media main stream, una saletta riscaldata viene aperta alle dieci di sera a Bardonecchia.
Da qualche mese molti hanno deciso di non stare a guardare.
A Briancon una casa occupata ospita chi arriva. A Torino e in Valle sono stati raccolti e distribuiti abiti pesanti, scarponi, sciarpe, qualcuno ha aperto la propria casa per le emergenze dell’ultimo minuto. Una vasta rete di solidarietà attiva è stata intessuta tra la città e la montagna. Una marcia da Claviere a Montgenevre ha mostrato nella pratica la volontà di vivere come se le frontiere non ci fossero, lottando perché non ci siano più.

Il confine è una linea sottile sulle mappe. Tra boschi e valichi, tra le acque del Mare di Mezzo, non ci sono frontiere: solo uomini in armi che le rendono vere.
Inceppare il meccanismo infernale che tiene sotto scacco i migranti è possibile. La solidarietà dal basso spezza l’indifferenza, rompe il silenzio. Chi elude i confini finisce nel mirino della magistratura: Cedric Herrou, contadino francese che ha aiutato duecento africani a passare la frontiera in Val Roja, lo scorso agosto è stato condannato a quattro mesi di carcere.

Una normale strage fascista
Viviamo tempi terribili. L’anestesia dei sentimenti, la loro declinazione secondo le logiche della paura e del ripiegamento identitario, generano normalissimi mostri.
Un fascista spara su gente inerme, colpevole di avere la pelle scura. La notizia della tentata strage di Macerata non è dilagata sui media come le stragi dell’Isis, dei terroristi che sparano nel mucchio per spaventare tutti. Anzi. Sui media c’è chi giustifica e chi applaude.
Scenografia perfetta, studiata a lucidamente a tavolino: prima gli spari, il terrore, poi il tricolore in spalla, il braccio teso, il monumento ai caduti. La paccottiglia nazionalista ed identitaria per una guerra che non è la “follia” di uno, ma il fascismo che torna. Ben oltre i gruppi che se ne dicono eredi ed appoggiano chi spara ai migranti. Il fascismo è già qui. Da lunghi anni. Decenni di guerre (post)coloniali, respingimenti in mare, leggi razziste, deportazioni, prigioni per migranti, esternalizzazione della violenza, militari in strada, confini blindati, criminalizzazione della solidarietà sono l’emblema di questi tempi feroci. Finite le ideologie, le politiche razziste le fanno i governi di centro destra e quelli di centro sinistra. Tanti, troppi, plaudono. Chi non si accontenta delle stragi per procura, dei morti nel deserto, dei torturati nei lager libici, vuole una più radicale pulizia etnica. Traini non è solo. E lo sa. Di fronte al terrorismo fascista si sono sprecati i distinguo, i “ma” i “però”.
I fascisti forniscono la cornice giusta per incanalare la paura, il desiderio di rivalsa verso immigrati e profughi. Ma il nostro oggi non è quello di un secolo fa.
I confini, le linee di demarcazione tra sommersi e salvati, ricalcano quelli coloniali, le patrie, i confini invalicabili, ma non mettono al sicuro nessuno. Chi ha le carte in regola, il passaporto europeo, la cittadinanza italiana, può andare dove vuole, ma non ha alcun porto sicuro dove approdare.
Lungo le strade del postumano i ricchi si stanno costruendo un lungo futuro. I pezzi di ricambio coltivati in provetta non sono più utopie, ma un tempo che è già oggi.
Per i poveri, di qualsiasi colore, c’è un orizzonte da robot umani, al servizio delle macchine intelligenti. Un braccialetto al polso ed il tempo scandito dai ritmi della merce. È la realtà nei magazzini di Jeff Bezos, quelli dove corpi in eccesso vengono spremuti finché reggono. Poi qualcun altro lo sostituisce.
Per gli scarti, di qualsiasi colore, non c’è posto.
Il fascismo storico fu una controrivoluzione preventiva attuata per bloccare le insorgenze sociali che avevano fatto tremare i padroni nel biennio rosso. Il fascismo disciplinò con la violenza operai e contadini del BelPaese. L’impero, ottenuto massacrando i civili con l’iprite e le bombe, creò un’illusione di grandezza per i proletari italiani, spinti verso le colonie.
Oggi la conquista dell’Africa la fanno eserciti di professionisti, seguiti da imprese con manodopera intercambiabile, che quando serve spostano il proprio core business ovunque trovino condizioni migliori. L’industria 4.0 è leggera, mobile, senza legami veri con un territorio. Non ci sono più certezze, sia pure minime, per nessuno.
Le piccole patrie, il tricolore, il monumento ai caduti danno un ombrello identitario ad un’umanità spaventata e rancorosa. Ma ovunque piovono pietre.

Serve oggi una rivoluzione preventiva che fermi il fascismo, che inceppi la macchina che trita la vite della gente in viaggio.
Non è facile e neppure probabile, tuttavia è impossibile non avvertirne l’urgenza.
Abbattere le frontiere simboliche e reali che si stanno moltiplicando nel cuore delle nostre città è un primo passo.
È il momento di decidere da che parte stare. Un giorno non potremo fingere di non aver visto, di non aver saputo. Chi tace, chi volta lo sguardo è complice. Nessuno lo farà al nostro posto. Tocca a ciascuno di noi.

Stazione di Porta Nuova, Torino. Binario 17. Un ragazzo africano ha in mano un biglietto per Bardonecchia: chiede informazioni ma pochi capiscono. Poi incrocia la persona giusta e un filo della sua vita si intreccia con gli altri.

Questo articolo è uscito sull’ultimo numero di A rivista

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Macerata. Oltre la cronaca

Sul corpo delle donne si giocano continue partite di “civiltà”. L’omicidio di Pamela Mastropietro, la sua vita trasformata in spettacolo pornografico horror è l’incipit. Le persone indagate per il delitto sono nigeriane, nere, forse pusher. Nei giorni successivi vengono arrestati in tre. Una buona occasione di propaganda elettorale per le destre.
Il 3 febbraio Traini, un leghista con il simbolo di Terza posizione tatuato sulla tempia, si lancia in una caccia all’uomo per le vie di Macerata, insegue sparando undici persone, tutte africane. Le testate italiane titolano: “Sparatoria Macerata, Traini: Volevo vendicare Pamela” (TgCom, cfr.)”; “Macerata, Traini in carcere per strage: Penso a Pamela” (Ansa, cfr.). Il bilancio è di sei feriti, di cui due gravi.

Un fascista spara su gente inerme, colpevole di avere la pelle scura. La tentata strage di Macerata non deflagra sui media. Non è mica l’Isis che brucia ogni altra notizia. La jihad, la guerra santa unisce, trasforma i diversi in eguali, ci “livella”. I terroristi dello Stato islamico sparano nel mucchio per spaventare tutti. Traini sceglie le sue vittime, spara in un mucchio di neri. Tutti colpevoli di esistere, di vivere in Italia, di non essere morti per strada. Tutti uguali. Uomini neri, il babau delle notti di inverno per i bambini pallidi d’Europa.
Sui media c’è chi giustifica e chi applaude.
Gli argomenti di Traini sono fatti propri da Salvini e dall’intera compagnia di giro che lo affianca nella campagna elettorale. Le sei persone ferite da Traini scompaiono, in primo piano solo il viso di Pamela Mastropietro e le foto di uno degli uomini arrestati.
A poche ore dalla tentata strage fascista il centro sociale Sisma di Macerata lancia una manifestazione nazionale antifascista e antirazzista per il 10 febbraio.
Anpi ARCI, Cgil aderiscono alla manifestazione.
Anche i fascisti annunciano iniziative di piazza.
Il sindaco di Macerata vuole annullare il corteo: PD, Anpi, Arci e Cgil seguono a ruota. Ma. Non tutte le ciambelle riescono con il buco. La determinazione degli antifascisti non istituzionali, la rivolta di tante sezioni Arci e Anpi ribalta la situazione.
Il corteo raccoglie oltre 20.000 persone.
Una risposta forte e chiara alle destre e ai fascisti e al governo.
In contemporanea cortei antifascisti attraversano tante città italiane. Un segnale importante, perché coglie l’urgenza dei tempi.

Tempi terribili. L’anestesia dei sentimenti, la loro declinazione secondo le logiche della paura e del ripiegamento identitario, generano normalissimi mostri.
Traini ha messo in scena una rappresentazione studiata lucidamente a tavolino: prima gli spari, il terrore, poi il tricolore in spalla, il braccio teso, il monumento ai caduti. Il ciarpame nazionalista ed identitario per una guerra che non è la “follia” di uno, ma il fascismo che torna. Ben oltre i gruppi che se ne dicono eredi ed appoggiano chi spara ai migranti. Il fascismo è già qui. Da lunghi anni. Decenni di guerre (post)coloniali, respingimenti in mare, leggi razziste, deportazioni, prigioni per migranti, esternalizzazione della violenza, militari in strada, confini blindati, criminalizzazione della solidarietà hanno lasciato il segno. Troppi guardano e tacciono.
Finite le ideologie, le politiche razziste le fanno i governi di centro destra e quelli di centro sinistra. Tanti, troppi, plaudono. Chi non si accontenta delle stragi per procura, dei morti nel deserto, dei torturati nei lager libici, vuole una più radicale pulizia etnica. Traini non è solo. E lo sa. Di fronte al terrorismo fascista si sono sprecati i distinguo, i “ma” i “però”.
I fascisti forniscono la cornice giusta per incanalare la paura, il desiderio di rivalsa verso immigrati e profughi. Ma il nostro oggi non è quello di un secolo fa.
I confini, le linee di demarcazione tra sommersi e salvati, ricalcano quelli coloniali, le patrie, i confini invalicabili, ma non mettono al sicuro nessuno. Chi ha le carte in regola, il passaporto europeo, la cittadinanza italiana, può andare dove vuole, ma non ha alcun porto sicuro dove approdare.
Per i padroni conta il colore dei soldi, non quello della pelle. I poveri, di qualsiasi colore, sono umanità in eccesso.
Per gli scarti non c’è posto.
Il fascismo storico fu una controrivoluzione preventiva attuata per bloccare le insorgenze sociali che avevano fatto tremare i padroni nel biennio rosso. Il fascismo disciplinò con la violenza operai e contadini del BelPaese. L’impero, ottenuto massacrando i civili con l’iprite e le bombe, creò un’illusione di grandezza per i proletari italiani, spinti verso le colonie.
Oggi la conquista dell’Africa la fanno eserciti di professionisti, seguiti da imprese con manodopera intercambiabile, che quando serve si spostano ovunque trovino condizioni migliori. L’industria è sempre più leggera, mobile, senza legami veri con un territorio. Persino la proprietà degli stabilimenti e delle macchine è diventata un peso: meglio il franchising, gli affitti veloci, niente magazzino. Così quando serve si chiude tutto in un batter d’occhio. Non ci sono più certezze, sia pure minime, per nessuno.
Le piccole patrie, il tricolore, il monumento ai caduti danno un ombrello identitario ad un’umanità spaventata e rancorosa. Ma ovunque piovono pietre.
Serve oggi una rivoluzione preventiva che fermi il fascismo, che inceppi la macchina che trita la vite della gente in viaggio.
Non è facile e neppure probabile, tuttavia è impossibile non avvertirne l’urgenza.

Ascolta la cronaca della manifestazione di Macerata per l’info di Blackout di Francesco e l’analisi di Stefano, dell’osservatorio antifascista friulano.

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Razza bianca e bordelli. La ricetta leghista per tornare al potere

La Lega le ha sparate grosse ed è riuscita a catalizzare l’attenzione dei media main stream. I risultati conseguiti dal governo Gentiloni nella lotta all’immigrazione, sono sotto gli occhi di tutti: secca riduzione degli sbarchi, moltiplicarsi dei rimpatri.
La cacciata di quasi tutte le ONG dal Mediterraneo, gli accordi con Al Sarraj e con i capi delle milizie di Sabratha e Zawija, le leggi che rendono più difficile il riconoscimento dell’asilo politico sono i tasselli di un mosaico la cui trama è ben nota a tutti. Morti, galere per migranti, stupri, ricatti e torture sono il pane quotidiano della gente in viaggio attraverso la Libia. Fatti noti. Come note sono le statistiche che rivelano che sono tantissimi gli italiani che plaudono a massacri e respingimenti. Si moltiplicano i muri, le barriere, le missioni armate.
Difficile battere il PD su questo terreno. Nel suo editoriale sul quotidiano La Stampa di oggi Sorgi tesse gli elogi del governo.
Serviva qualche sparata ad effetto, che catalizzasse le paure che attraversano tanta parte del corpo sociale. Donald Trump fa scuola.
Il neocandidato alla presidenza della Regione Lombardia, Fontana, ha conquistato le prime pagine, parlando di “razza bianca” e di invasione di immigrati, che la cancelleranno.
Il segretario leghista ha ripreso un tema caro ai fascisti di ieri e di oggi: la prostituzione di Stato. Salvini vuole riaprire le case chiuse, dove le prostitute vivono come monache, sotto il controllo della polizia di Stato. Va da se che in questi bordelli legali potrebbero avere accesso solo persone con i documenti in regola.
Berlusconi ha immediatamente stigmatizzato le dichiarazioni dei suoi ingombranti alleati, ma gioca la stessa partita. Qualche giorno fa ha detto, in barba ai dati diffusi dal Viminale, che in Italia c’è un reato al secondo. Non solo. L’ex Cavaliere ha rincarato la dose sostenendo che in Italia si sarebbero 500.000 immigrati pronti e delinquere.
Un’affermazione che fa il paio con quelle del leghista Fontana.
Luigi di Maio, il candidato alla presidenza del consiglio per il M5S, fa invece concorrenza ai fascisti, sostenendo che gli interessi degli italiani devono venir prima di quelli degli immigrati.
La campagna elettorale sta entrando nel vivo. Le questioni sociali restano sullo sfondo, la vera protagonista è la paura.
Lo sa bene Marco Minniti, che ha dichiarato che non si può ignorare la paura diffusa nel corpo sociale, anche quando non ha alcun fondamento reale.
Come dargli torto? La paura uccide. Come in piazza San Carlo: 1.250 feriti ed una morta in un attacco di panico collettivo figlio della paura che nutre da decenni l’immaginario sociale del nostro paese.
Lo sanno bene i migranti respinti alle frontiere, che annegano nel Mediterraneo o restano sepolti dalle neve nelle Alpi. Qualcuno viene folgorato mentre prova a passare in Francia attraverso un tunnel ferroviario. É successo ieri a Ventimiglia.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Alessandro Dal Lago, sociologo, già docente all’università di Genova

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Ammazziamoli a casa loro

Il conte Gentiloni ha chiuso l’anno e il mandato con l’invio d’un contingente della Folgore in Africa.
Ai parà in Niger seguiranno specialisti del Genio, addestratori, esperti delle forze speciali.
Sulla carta una missione contro il terrorismo nel cuore del Sahel. Nei fatti porre le basi per la costruzione di campi di prigionia per migranti a sud della Libia.
“Aiutiamoli a casa loro”, lo slogan più gettonato degli ultimi anni è destinato a finire in soffitta. In febbraio il ministro Minniti ha stretto un accordo con al Sarraj, capo del debole governo della Tripolitania, per i respingimenti in mare.
In estate il governo ha obbligato buona parte delle ONG che soccorrevano la gente dei gommoni, ad andarsene dal Mediterraneo, accusandole di collaborare con gli scafisti.
In agosto ha pagato le milizie di Zawiya e Sabratha, che gestiscono il traffico dei migranti, affinché bloccassero le partenze. Tutti sanno che la Libia è un inferno per la gente in viaggio: sequestri, ricatti, torture, strupri per ottenere un riscatto dalla famiglie. Dai campi libici molti non escono vivi.
Gli esecutori di questi crimini sono a Tripoli o a Sabratha, i mandanti siedono nel parlamento italiano.
Quest’anno è previsto un maggiore impegno in Libia e l’inaugurazione di un nuovo fronte in Tunisia, dove passa il gasdotto che porta il gas algerino in Sicilia.
La missione in Niger è l’ultimo tassello di una strategia di spostamento a Sud ed esternalizzazione della repressione dell’immigrazione.
L’ipocrisia del governo maschera gli obiettivi, ma il nuovo target dei militari tricolori è chiaro: “Ammazziamoli a casa loro.”
Forse non tutti sanno che i soldi spesi per far morire la gente in viaggio, sono stati sottratti a pensioni e sanità. Così anche da noi i poveri muoiono prima. Usurati dal lavoro, senza soldi per la sanità privata, senza futuro per figli e nipoti.

Quanto ci costerà la campagna d’Africa dell’esercito italiano sino a settembre?
Libia: 400 soldati e 34.982.433 euro. Niger: 470 parà e 30 milioni di euro. Spazio aereo della NATO: 250 militari e 12 milioni e 586mila euro. Tunisia: 60 persone e quattro milioni e 900mila euro. Repubblica Centrafricana: 324.260 euro. Marocco: due soldati e 302.839 euro. Poi ci sono i costi per gli altri fronti di guerra: Afganistan (101 milioni), Iraq (162 milioni), Libano (102 milioni), Mare sicuro (63 milioni) e Sophia (31 milioni), Lettonia (15 milioni)…

Le guerre dell’Italia per decenni sono state coperte da giustificazioni umanitarie: oggi il mantra è la “lotta al terrorismo”, nel cui nome si giustificano le città distrutte, i corpi dilaniati, i bambini spauriti, i migranti che muoiono in viaggio. Occupazione militare, bombardamenti, torture e repressione non fermano la Jihad ma la alimentano.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia.
Le sostiene la stessa propaganda: le questioni sociali, coniugate in termini di ordine pubblico, sono il perno su cui fa leva la narrazione militarista.
In dicembre si è concluso alla Scuola di Fanteria dell’Esercito un corso per “istruttori controllo dalla folla”, dove ai militari è stato insegnato come fronteggiare e reprimere le insurrezioni popolari. Hanno imparato come gestire le rivolte nei paesi occupati. Siamo sicuri che verranno impiegati anche in Italia nei luoghi del conflitto sociale.
Già oggi gli stessi soldati delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa, sono nel Mediterraneo e sulle frontiere fatte di nulla, che imprigionano e uccidono, uomini, donne e bambini.
Da anni le forze armate fanno propaganda per il reclutamento nelle scuole. Ora, grazie all’accordo con il MIUR, gli studenti potranno fare il loro periodo di alternanza scuola lavoro anche nella caserme, nei musei e nelle basi militari. Un’opportunità di lavoro in un settore che non conosce mai crisi.
E non conosce crisi l’industria bellica, che in Piemonte ha numerose, mortali, eccellenze.
Gli uomini, donne, bambini che premono alle frontiere chiuse dell’Europa nascondono una verità cruda ma banale. Le guerre sono combattute con armi costruite a due passi dalle nostre case.

É il momento di decidere da che parte stare. Un giorno non potremo fingere di non aver visto, di non aver saputo. Chi tace, chi volta lo sguardo è complice. Nessuno lo farà al nostro posto. Tocca a ciascuno di noi.

Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.

Sabato 13 gennaio
ore 10,30 / 14
Punto info antimilitarista al Balon
con vin brulè, cibo e the caldo
benefit assemblea antimilitarista

Assemblea Antimilitarista
antimilitarista.to@gmail.com

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Argentina. Attacco alle comunità mapuche: un morto, due feriti, diversi desaparecidos

Nel pomeriggio di sabato 25 novembre, in Patagonia, diversi corpi della polizia e della gendarmeria nazionale hanno attaccato la comunità Lafken Winkul Mapu, uccidendo a colpi di arma da fuoco Rafael Nahuel e ferendo altri due mapuche, un uomo e una donna, che si trovano in gravi condizioni all’ospedale Ramon Carrillo.
Siamo nei territori contesi di Villa Mascardi, un parco nazionale a pochi chilometri da Bariloche, nota località turistica della Patagonia argentina.

Ascolta l’intervista dell’info di radio Blackout con Ivan, un compagno della Cub trasporti di Milano che si trova da qualche mese in Argentina, dove ha visitato numerose comunità mapuche in lotta.

La Correpi, organizzazione contro la repressione statale e la violenza istituzionale, sostiene che le responsabilità sono interamente dello Stato e del governo. In Argentina la violenza istituzionale colpisce gli attivisti politici ed i poveri. Non si contano i casi di ragazzi uccisi dalla polizia, perché accusati di furti o semplicemente “sospetti”, la pratica della tortura è “normale” nelle camere di sicurezza della gendarmeria.

Ricostruiamo i fatti: il giovedì precedente, mentre in Senato si votava la proroga di altri quattro anni della legge 26/160 che sospende gli sgomberi delle comunità indigene, riconoscendo il diritto al territorio ancestrale in attesa che l’Istituto Nazionale delle questioni indigene concluda il rilevamento delle terre spettanti alle diverse comunità, il giudice Villanueva ordina lo sgombero della comunità Lafken Winkul Mapu. L’occupazione risaliva al 14 settembre.
Lo scontro è sui megaimpianti turistici che le multinazionali e le imprese argentine vogliono costruire nel parco turistico nazionale di Villa Mascardi.
Nella stessa zona è prevista l’apertura di una miniera d’oro e di sfruttamento petrolifero. Non solo. La Patagonia possiede una ricchezza sempre più preziosa, l’oro blu, l’acqua.
I mapuche si battono contro l’intento di mettere a profitto le aree protette, rivendicando il recupero delle terre ancestrali per vivere costruendo una diversa relazione con la natura e il territorio. Conflitti simili investono ampie aree dell’immensa Patagonia e non solo, perché lo scontro attorno all’appropriazione del territorio vede migliaia di comunità indigene in tutto il continente difendersi dall’estrattivismo (miniere, centri turistici, coltivazione estensiva, etc) e rappresenta uno snodo cruciale dei conflitti sociali in America Latina.

Lo stesso giovedì, come afferma l’antropologa Diana Lenton, era previsto un tavolo di negoziazione per risolvere il conflitto. «A tradimento e boicottando qualunque possibilità di dialogo, un enorme dispiegamento di forze dell’ordine ha fatto irruzione nella comunità all’alba, sparando con armi da fuoco e arrestando donne e bambini, detenuti in condizioni illegali per diverse ore» continua l’antropologa argentina. Secondo le testimonianza dei mapuche, una dozzina di uomini della comunità sono fuggiti sui monti a causa della caccia all’uomo violenta della polizia federale, della Gendarmeria e delle forze della Prefettura navale, impiegate congiuntamente con elicotteri e forze speciali. Ieri pomeriggio, tre di loro stavano tornando per ricongiungersi con le loro famiglie e sono stati attaccati con armi da fuoco dalla polizia. Così è stato assassinato Rafael, un giovane dei quartieri poveri di Bariloche, in visita ai parenti nella comunità in lotta, saldatore, falegname e lavoratore precario, un “pibe de barrio”, come lo ricordano gli amici.
L’avvocata della comunità mapuche, Natalia Aranya, ha rilasciato dure dichiarazioni al quotidiano Pagina 12, parlando di una caccia all’uomo razzista e sottolineando le responsabilità del governo nell’operazione che ha coinvolto i gruppi speciali della Prefettura. Dopo la notizia della morte, ci sono state manifestazioni sia davanti all’ospedale che alla sede degli uffici dei Parchi Nazionali, proprietari delle terre contese dalla comunità mapuche. Le forze dell’ordine hanno bloccato le vie di accesso principali e i collegamenti, compresa la Ruta 40, tra le città di El Bolsòn e Bariloche. Alcuni giornali mainstream affermano, senza addurre prove, che sia stato uno scontro a fuoco tra mapuche e polizia. Una caccia all’uomo dopo una repressione violenta contro famiglie che dormivano nelle loro case diventa per i media uno scontro “armato” tra mapuche e polizia. Secondo le organizzazioni dei diritti umani sono le medesime modalità narrative adottate durante la dittatura.

La Marcha de Mujeres Originarias, organizzazione di donne indigene, ha lanciato un appello invitando tutti a denunciare le menzogne e a diffondere la verità dei fatti: «non permetteremo alle menzogne di affermarsi, noi non siamo in guerra con lo Stato, ma è lo Stato argentino che sta applicando misure genocide contro le comunità indigene, questo dovrebbero dire i giornali». Chiediamo sostegno e supporto, vogliamo giustizia, affermano le donne indigene , esigiamo che «cessi immediatamente la violenza assassina contro i nostri fratelli e le nostre sorelle».

Manifestazioni si sono svolte a Buenos Aires e in diverse città della Patagonia per denunciare le responsabilità del governo Macri e del ministro Bullrich. Il sindacato dei lavoratori pubblici ATE ha riferito del fermo del responsabile provinciale e della moglie, liberati poche ore dopo, mentre Sonia Ivanoff, avvocata specialista in diritto indigeno, ha segnalato preoccupazione l’arresto di dei due testimoni dell’omicidio del giovane Rafael Nahuel. «Vogliamo la liberazione e la garanzia di protezione per questi due testimoni chiave, Fausto Horacio Jones Huala e Lautaro Alejando Gozalez» ha dichiarato l’avvocata all’agenzia di comunicazione indipendente Anred.
Dopo la rappresaglia c’è stata un’intensa militarizzazione dell’area: da settimane le organizzazioni dei diritti umani e le comunità mapuche denunciano come dopo «la desapariciòn e la morte di Santiago Maldonado la persecuzione contro i mapuche sia aumentata di intensità così come la violenza delle forze di polizia».

L’intensificazione del conflitto è legata all’aumento della violenza repressiva che negli ultimi due anni, con il governo Macri, è stata diretta in gran parte contro i mapuche identificati come “nemico interno”, in linea con le dichiarazioni del Comando Sud delle forze militari degli Stati Uniti che hanno definito il popolo mapuche una “minaccia terroristica”. Un conflitto che vede da una parte uomini, donne e bambini in lotta per la difesa del territorio e della vita, e dall’altra una nuova ed intensa offensiva politica, economica e militare del capitalismo estrattivo, razzista, patriarcale e coloniale.

Nelle stesse ore in cui avveniva l’attacco alla comunità nei territori contesi di Villa Mascardi, in provincia di Buenos Aires si stava svolgendo il funerale di Santiago Maldonado, desaparecido durante una rappresaglia della gendarmeria nella comunità mapuche Pu Lof Cushamen il 1 agosto scorso. Il suo cadavere venne ritrovato 78 giorni dopo nel fiume Chabut, 300 metri a monte dal punto in cui i mapuche sotto attacco attraversarono il corso d’acqua.
Durante l’attacco alla comunità i suoi compagni videro che Santiago Maldonado veniva preso e fatto salire a forza su un furgone bianco dalla polizia.
La scomparsa di Maldonado aveva suscitato ampie proteste in tutta l’Argentina: decine di migliaia di persone avevano manifestato il primo settembre e il primo ottobre a Buenos Aires.
Il ragazzo è stato seppellito dopo un mese di attesa dei risultati dell’autopsia, che ha stabilito che Santiago è morto per asfissia da annegamento, ma non le modalità della desapariciòn.
Dall’inchiesta del giornalista Ricardo Ragendorfer pubblicata su Tiempo Argentino e altri quotidiani, emerge che l’autopsia ha stabilito che il corpo di Santiago non era restato più di 5 o 6 giorni in acqua al momento del ritrovamento. Ne consegue che è stato “illegalmente” trattenuto da qualche parte per diversi giorni.
Alla luce di questi fatti potrebbero emergere responsabilità più dirette di Benetton, la multinazionale italiana proprietaria di oltre 900.000 ettari in territorio mapuche.
Secondo Ragendorfer, l’unica cella frigorifera della zona capace di conservare un cadavere per diversi giorni si troverebbe proprio all’interno di una delle tenute di Benetton, denominata “Cabania Leleque”. Inoltre, rivela sempre Ragendorfer, la Gendarmeria possiede una base logistica informale dentro la stessa tenuta di Benetton da almeno 20 anni, grazie a un accordo firmato durante il governo di Carlos Menem tra Carlo Benetton, la Secretaria de Seguridad de la Nacion e la provincia di Chubut.
Ragendorfer ha anche rivelato che parte delle prime indagini “ufficiali” hanno avuto l’epicentro logistico proprio a Leleque. Da lì partirono buona parte dei gendarmi che tra il 10 e il 12 gennaio scorso sgomberarono in modo violento la comunità Mapuche di “Lof en Resistencia” di Cushamen. Ragendorfer inserisce un tassello chiave per dimostrare le eventuali la complicità dirette di Benetton nella desaparición forzada di Santiago: il 17 ottobre scorso, il giudice avrebbe ordinato, insieme al rastrellamento della zona in cui comparve il corpo, una perquisizione legale de la “Cabania Leleque” dei Benetton e di alcune delle zone adiacenti. Difficile pensare che sia stato per mera coincidenza che il corpo di Santiago sia ricomparso proprio quel giorno. Dopo il ritrovamento, naturalmente, la perquisizione venne cancellata.

Un presidio di solidarietà con la lotta delle comunità mapuche resistenti e di denuncia delle responsabilità dello Stato argentino e di Benetton nella violenta repressione in atto si svolgerà a Torino il 22 dicembre di fronte al negozio Benetton di via Roma 121 – vicino a piazza San Carlo.

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Il confine oltre il deserto. Vuoti a perdere

Quand’ero giovane si pagava un sovrapprezzo sul latte nelle bottiglie di vetro: se si restituiva il recipiente vuoto si veniva rimborsati. Le bottiglie senza riscatto erano vuoti a perdere. Finivano nel bidone della spazzatura.
Oggi in molti luoghi il vetro usato viene raccolto e riciclato.
Una fortuna che non tocca a tanti esseri umani, condannati sin dalla nascita ad essere dei vuoti a perdere. Da eliminare in fretta e senza costi eccessivi.
Il vuoto a perdere sa di avere il destino segnato e proprio per questo difficilmente si rassegna o adotta tattiche prudenti. Il vuoto a perdere non può permettersi il lusso della disperazione.
Chi vorrebbe fermare le grandi migrazioni non comprende che la violenza crescente degli Stati ricchi riempie i cimiteri ma non ferma chi decide di mettersi in viaggio.
Sull’autostrada che da Ventimiglia porta in Francia un avviso luminoso avverte che ci sono pedoni. Ormai è un cartello fisso. Ogni giorno qualcuno prova a passare le frontiere con la Francia, la Svizzera, l’Austria: prendendo i sentieri sui monti, imboccando pericolosissime gallerie ferroviarie, nascondendosi sull’auto di chi non accetta che vi siano frontiere. In agosto sui sentieri che portano al colle della Scala, nei pressi di Bardonecchia, due ragazzi, inseguiti dai carabinieri, sono precipitati: uno di loro è gravemente ferito. A Bardonecchia ci sono posti di blocco e militari, ma c’è sempre chi tenta la sorte.
Ogni giorno, da qualche parte, qualcuno muore. Muoiono anche i progetti di vita della sua famiglia, di chi ha giocato tutto sul viaggio del figlio più forte, sano, intraprendente. Migrare costa, costa tantissimo: chi parte deve avere i soldi per pagare i trafficanti, per soddisfare i tanti passeur necessari ad andare avanti, per chetare la violenza dei carcerieri libici.
Tante storie tutte uguali, ma ognuno ha la sua, fatta di luoghi, affetti, speranze, desideri, rabbia, paura e tanto altro. A chi importa dei vuoti a perdere? A chi interessa la gran folla dell’umanità in eccesso?
In fondo se sono poveri, se i loro paesi sono alla fine delle liste di chi fa le classifiche, qualche colpa dovranno pur averla.
La povertà diventa come il marchio di Caino, un delitto da espiare.
 
A casa loro
La retorica dell’aiutiamoli a casa loro è un motivo trasversale tra destra e sinistra. In tanta parte dell’Africa la gente avrebbe volentieri fatto a meno della mano tesa dell’Europa, della Cina, degli Stati Uniti, della Russia…
Mani tese per poter prendere il meglio, asservendo e impoverendo le popolazioni investite dall’occupazione militare del continente.
La razzia è continuata dopo la fine dell’era coloniale. Tutto è cambiato ma la devastazione ed il saccheggio sono rimasti quelli di prima. L’Italia ha continuato a mettere le mani nel grande forziere del corno d’Africa.
Qualche volta, quando la punta dell’iceberg emerge a due passi da casa nostra, capita che si accenda un riflettore sulla violenza colonialista dei giorni nostri. Ma dura poco, pochissimo.
La furia della polizia in piazza Indipendenza a Roma si è abbattuta su profughi accampati in strada, dopo lo sgombero della palazzina dove vivevano. Video e foto hanno mostrato uno scampolo della quotidianità dolente della gente in viaggio, che non arriva mai a destinazione, nemmeno quando è qui da anni. Restano sempre stranieri, estranei, vuoti a perdere. Sono tantissimi gli immigrati che provengono da Somalia, Etiopia, Eritrea, tre gioielli dell’impero di Vittorio Emanuele III.
Le mani di un poliziotto che stringono il volto piangente di Judith sono l’immagine più forte e brutale di quella giornata d’agosto. Quel uomo dell’antisommossa è lo specchio del colonizzatore, dell’italiano che si trova di fronte alla sua faccetta nera. Una delle tante. Ai bei tempi, quando c’era l’impero, bastavano pochi soldi per comprare una bambina e farne la propria moglie momentanea. Usa e getta. Come oggi quelli del califfato, che suscitano tanta indignazione tra gli italiani brava gente, dimentichi se non ignari del proprio retaggio coloniale.
Sui sussidiari delle nostre scuole non c’è traccia dei gas usati contro la popolazione civile, delle bombe sui villaggi, della ferocia dei ragazzi con il tricolore. Una storia che non è certo finita con la caduta della dittatura fascista.
Il poliziotto compassionevole di piazza Indipendenza la notte del 21 luglio del 2001 faceva parte della squadra che trasformò la scuola Diaz di Genova in una macelleria. Lo ha rivelato il suo ex comandante Canterini, a caccia di legittimazioni per quella notte di sangue e torture. Alla fine tutto torna. Con buona pace di chi crede che la violenza poliziesca sia straordinaria rottura dell’ordine democratico e non banale quotidianità.

Le imprese italiane in Africa fanno buoni affari. La diga più alta del continente si trova in Etiopia ed è stata costruita dalla Salini-Impregilo, che da quelle parti si aggiudica tutti gli appalti.
É la diga Gibe III, la terza di una serie di cinque in costruzione sul fiume Omo. È la più grande centrale idroelettrica dell’Africa con una potenza in uscita di 1870MW.
L’allora premier Matteo Renzi l’ha inaugurata nel 2015 con solenni parole di elogio per le imprese italiane. Una bella favola. Una favola nera.
La bassa valle dell’Omo non è certo disabitata: ci vivono 200.000 persone, che pratica(va)no la caccia, la pesca e l’agricoltura di sussistenza. La diga ha messo fine alle esondazioni stagionali del fiume. Il gigantesco invaso rischia di causare il degrado e l’abbassamento del livello del lago Turkana in Kenya – il più grande lago in luogo desertico del mondo – dalle cui acque e riserve ittiche dipendono altri 300.000 indigeni.
Ma. La diga permette l’irrigazione di vaste piantagioni commerciali che si stanno realizzando nelle terre delle tribù. Le autorità locali stanno sfrattando questi popoli dalle loro terre, per trasferirli in villaggi di reinsediamento, dove non riescono a sopravvivere.
Gibe III è uno dei tanti esempi di intervento italiano in Africa. Quando mezzo milione di persone diventano vuoti a perdere. Di anno in anno si allunga la schiera dei profughi climatici, della gente in fuga dalla guerra per il coltan, il petrolio, le terre fertili.
Chi si sta spartendo l’Africa oggi non ha neppure il fastidio di mantenere un’amministrazione coloniale ed un esercito sul posto.
Una invisibile linea di confine separa i sommersi dai salvati. Su questa linea negli ultimi sei mesi la guerra si è fatta più aspra, senza esclusione di colpi, senza pietà.

La cacciata delle ONG e l’accordo con gli scafisti
Che l’aria stesse cambiando ancora una volta in peggio lo si è capito quest’inverno. Il 2 febbraio il nuovo ministro dell’Interno Minniti ha siglato un accordo con il governo Al Sarraj in Libia, benedetto il giorno successivo dal vertice di Malta. Una mossa che assumeva mero sapore propagandistico, per acquistare consensi in vista di elezioni che all’epoca parevano molto vicine. Il governo Al Sarraj non controlla neppure Tripoli, le due o tre “guardie costiere” sono parte del traffico di esseri umani, un affare molto lucroso nella Libia devastata da sei anni di guerra. Il capo della guardia costiera di Zawiya è anche capo di una delle milizie che gestiscono le partenze.
In realtà l’accordo con Al Sarraj porterà soldi, armi e pattugliatori in Libia e sarà il primo tassello del mosaico di Minniti. Il ministro si è fatto le ossa alla scuola di Cossiga e per lunghi anni ha avuto la delega ai servizi segreti, nei tanti governi dove è stato sottosegretario agli Interni.
Il suo capolavoro è la cacciata dal Mediterraneo delle navi delle tante ONG, che negli ultimi anni si sono assunte il compito di ripescare in mare naufraghi e gente abbandonata su barconi alla deriva.
Un lavoro fatto intessendo infiniti fili e facendo leva sulle spinte che arrivavano dai propri stessi avversari politici. In prima fila Salvini e Grillo, che hanno puntato l’indice contro le ONG accusandole di essere complici degli scafisti. Si sono poi uniti al coro alcuni magistrati siciliani come il Procuratore di Catania Zuccaro, che, pur dichiarando di non avere prove, si è detto certo che ci fosse del marcio nell’attività delle navi delle ONG impegnate nel Mediterraneo. Il lavoro di criminalizzazione è durato mesi, per preparare il terreno all’ultima offensiva.
All’inizio dell’estate, in un clima emergenziale suscitato ad arte dai media, è saltato fuori il codice da imporre alle ONG, pena la chiusura dei porti. Un cappio al collo, che rende nei fatti quasi inutile muoversi nel Mediterraneo. Poliziotti a bordo, strumenti che segnalano la propria posizione, divieto di mettersi lungo le rotte della gente in viaggio. La maggior parte delle Ong non ha sottoscritto il codice. Le minacce della guardia costiera libica di impiegare le armi ha portato al ritiro dal Mediterraneo di gran parte delle imbarcazioni delle Ong ribelli. Mentre scrivo nel canale di Sicilia sono rimaste solo due navi impegnate in operazioni di ricerca e soccorso.
In agosto gli sbarchi sono stati meno di un settimo di quelli dello stesso periodo dell’anno precedente
Il 25 agosto su Middle East Eye compare un articolo di Francesca Mannocchi che ha raccolto numerose testimonianze sugli accordi tra uomini dei servizi segreti italiani e le milizie che controllano la costa libica tra Zawiya e Sabratha, i porti da cui partono la maggior parte delle imbarcazioni dirette in Italia.
Tra Tripoli e Zawiya ci sono meno di 50 chilometri e otto posti di blocco. L’unico modo per raggiungerla è via mare.
“Poche settimane dopo l’emanazione del Codice per le ONG, la costa di Zawiya è avvolta nel silenzio.” (…) Un testimone riferisce “del complesso e delicato equilibrio di potere tra le diverse milizie che gestiscono i vari traffici di esseri umani, petrolio e altro”. “Altre fonti riferiscono che la quiete dei porti tra Zawiya e Sabratha ha un prezzo. Non si spiegherebbe altrimenti come un’area che per anni è stata il crocevia del traffico di esseri umani sia diventata all’improvviso calma.” (…) Il costo negoziato per ottenere il blocco delle partenze per almeno un mese sarebbe di cinque milioni di dollari.
Il governo italiano smentisce qualsiasi accordo con gli scafisti, ma già a fine agosto nuove prove emergono da un articolo  dell’Associated Press. La milizia “Martire Abu Anas al Dabbashi” di Sabratha collabora da anni con il governo italiano, perché si occupa della sicurezza dell’impianto ENI di Mellita.
Assieme alla “Brigata 48” gestiscono tutti i traffici in quel tratto di costa. Entrambe le formazioni armate sono controllate da membri del clan Dabbashi, ossia i “re del traffico di migranti”. Il capo della prima conferma l’intesa con gli italiani.

In questi stessi giorni Minniti ha dichiarato alla stampa di essere “preoccupato per le condizioni dei migranti nelle prigioni libiche”. Alla fiera dell’ipocrisia Minniti avrebbe buone chance di conquistare il primo posto.
Negli stessi giorni è stato stipulato un accordo per la realizzazione di campi di concentramento per immigrati in Ciad, in Mali e in Niger. La ciliegina sulla torta del ministro dell’Interno.
La linea di confine si sposta a sud, oltre il deserto dove i “diritti umani”, nozione sulla quale spesso in Italia si misura l’altrui civiltà, hanno una diversa declinazione.

Una tela sottile
Sapremo presto se il blocco delle partenze, le prigioni nell’Africa subsahariana, lo spostamento su altre rotte dei migranti basterà a frenare l’ascesa di Lega Nord e Movimento Cinque Stelle, che su questi temi stanno giocando tanta parte della loro campagna elettorale. Non che abbia molta importanza chi il prossimo anno siederà sulle poltrone di Gentiloni e Minniti.
La ritirata delle ONG è stata rapida ed indolore per il governo. Non avrebbe potuto essere altrimenti, perché sono sin troppo forti i loro legami istituzionali, la loro dipendenza da finanziamenti pubblici.
Quello che colpisce come un pugno nello stomaco è il silenzio complice dei più, mentre si moltiplicano gli episodi gravi di razzismo e xenofobia. Si allarga il fronte della guerra ai poveri e tra poveri nelle nostre periferie, dove le destre soffiano sul fuoco, dove la precarietà rende difficile immaginare un futuro, dove l’orizzonte appare sempre più chiuso.
Chi sfrutta le nostre vite ci vuole tutti a capo chino, flessibili, disponibili, arrendevoli. Non sempre tutto fila liscio: qua e là il filo che intreccia le vite di indigeni e migranti emerge nelle lotte comuni per la casa, la salute, i trasporti. 
É una tela ancora sottile quella che mescola i fili e le storie, ma poco alla volta potrebbe diventare la trama di un’alleanza di oppressi e sfruttati che si nutre della consapevolezza che la guerra alla gente in viaggio è un episodio della guerra contro chi lotta contro quest’ordine feroce e intollerabile. È una possibilità lieve, un sottile accenno di brezza, che ancora non segna la rottura dei tempi che viviamo.
Chi invece si illude di poter emergere perché il confine si è spostato, perché nuove prigioni rinchiudono i migranti, non sa una verità semplice semplice. Per i governanti e per i padroni siamo tutti pedine sulla scacchiera.
Vuoti a perdere.

(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista) 

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Carmagnola: il Comune vieta “Bella Ciao”, il Coro Moro va via

Carmagnola: il Comune vieta “Bella Ciao”, il Coro Moro va via

Il Coro Moro nasce nelle Valli di Lanzo dall’incontro tra attivisti antirazzisti e No Tav e un gruppo di giovani rifugiati ed immigrati africani.

Oggi è una realtà conosciuta in tutto il Piemonte, per il suo repertorio di canzoni popolari piemontesi e di lotta.

La scorsa domenica avrebbero dovuto esibirsi alla Fiera del Peperone di Carmagnola con il loro consueto repertorio. Tra le tante c’è sempre “Bella ciao”.
Il Comune di Carmagnola, non nuovo a queste uscite, chiede ai ragazzi del Coro di cancellare dalla scaletta la canzone simbolo della resistenza al fascismo. L’assemblea del Coro rifiuta e preferisce ritirarsi. Il vicesindaco Inglese si offre di pagare comunque il cachet pattuito di 600 euro purché la notizia non trapeli.
Il Coro Moro rifiuta. In breve la censura di Bella Ciao cantata da un Coro, nato dall’incontro tra attivisti e giovani in fuga da guerra e persecuzioni, buca i media, diventando un boomerang per l’amministrazione di centro destra della città dei Peperoni.

“#CoroMoro canta #bellaciaononsitocca, se no: Ciao!”, è il messaggio lanciato dal gruppo su Facebook.

L’info di Blackout ne ha parlato con Luca Baraldo del Coro Moro.

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La cacciata delle ONG e l’accordo con gli scafisti

Che l’aria stesse cambiando lo si è capito quest’inverno. Il 2 febbraio il nuovo ministro dell’Interno Minniti ha siglato un accordo con il governo Al Sarraj in Libia, benedetto il giorno successivo dal vertice di Malta. Una mossa che assumeva mero sapore propagandistico, per acquistare consensi in vista di elezioni che all’epoca parevano molto vicine. Il governo Al Sarraj non controlla neppure Tripoli, le due o tre “guardie costiere” sono parte del traffico di esseri umani, un affare molto lucroso nella Libia devastata da sei anni di guerra. Il capo della guardia costiera di Zawiya è anche capo di una delle milizie che gestiscono le partenze.
In realtà l’accordo con Al Sarraj porterà soldi, armi e pattugliatori in Libia e sarà il primo tassello del mosaico di Minniti. Il ministro si è fatto le ossa alla scuola di Cossiga e per lunghi anni ha avuto la delega ai servizi segreti, nei tanti governi dove è stato sottosegretario agli Interni.
Il suo capolavoro è la cacciata dal Mediterraneo delle navi delle tante ONG, che negli ultimi anni si sono assunte il compito di ripescare in mare naufraghi e gente abbandonata su barconi alla deriva.
Un lavoro fatto intessendo infiniti fili e facendo leva sulle spinte che arrivavano dai propri stessi avversari politici. In prima fila Salvini e Grillo, che hanno puntato l’indice contro le ONG accusandole di essere complici degli scafisti. Si sono poi uniti al coro alcuni magistrati siciliani come il Procuratore di Catania Zuccaro, che, pur dichiarando di non avere prove, si è detto certo che ci fosse del marcio nell’attività delle navi delle ONG impegnate nel Mediterraneo. Il lavoro di criminalizzazione è durato mesi, per preparare il terreno all’ultima offensiva.
All’inizio dell’estate, in un clima emergenziale suscitato ad arte dai media, è saltato fuori il codice da imporre alle ONG, pena la chiusura dei porti. Un cappio al collo, che rende nei fatti quasi inutile muoversi nel Mediterraneo. Poliziotti a bordo, strumenti che segnalano la propria posizione, divieto di mettersi lungo le rotte della gente in viaggio. La maggior parte delle Ong non ha sottoscritto il codice. Le minacce della guardia costiera libica di impiegare le armi ha portato al ritiro dal Mediterraneo di gran parte delle imbarcazioni delle Ong ribelli. In questo momento nel canale di Sicilia sono rimaste solo due navi impegnate in operazioni di ricerca e soccorso.
In agosto gli sbarchi sono stati meno di un settimo di quelli dello stesso periodo dell’anno precedente
Il 25 agosto su Middle East Eye compare un articolo di Francesca Mannocchi che ha raccolto numerose testimonianze sugli accordi tra uomini dei servizi segreti italiani e le milizie che controllano la costa libica tra Zawiya e Sabratha, i porti da cui partono la maggior parte delle imbarcazioni dirette in Italia.
Tra Tripoli e Zawiya ci sono meno di 50 chilometri e otto posti di blocco. L’unico modo per raggiungerla è via mare.
“Poche settimane dopo l’emanazione del Codice per le ONG, la costa di Zawiya è avvolta nel silenzio.” (…) Un testimone riferisce “del complesso e delicato equilibrio di potere tra le diverse milizie che gestiscono i vari traffici di esseri umani, petrolio e altro”. “Altre fonti riferiscono che la quiete dei porti tra Zawiya e Sabratha ha un prezzo. Non si spiegherebbe altrimenti come un’area che per anni è stata il crocevia del traffico di esseri umani sia diventata all’improvviso calma.” (…) Il costo negoziato per ottenere il blocco delle partenze per almeno un mese sarebbe di cinque milioni di dollari.
Il governo italiano smentisce qualsiasi accordo con gli scafisti, ma già a fine agosto nuove prove emergono da un articolo dell’Associated Press. La milizia “Martire Abu Anas al Dabbashi” di Sabratha collabora da anni con il governo italiano, perché si occupa della sicurezza dell’impianto ENI di Mellita.
Assieme alla “Brigata 48” gestiscono tutti i traffici in quel tratto di costa. Entrambe le formazioni armate sono controllate da membri del clan Dabbashi, ossia i “re del traffico di migranti”. Il capo della prima conferma l’intesa con gli italiani.

In questi stessi giorni Minniti ha dichiarato alla stampa di essere “preoccupato per le condizioni dei migranti nelle prigioni libiche”.
Negli stessi giorni è stato stipulato un accordo per la realizzazione di campi di concentramento per immigrati in Ciad, in Mali e in Niger. La ciliegina sulla torta del ministro dell’Interno.
La linea di confine si sposta a sud, oltre il deserto dove i “diritti umani”, nozione sulla quale spesso in Italia si misura l’altrui civiltà, hanno una diversa declinazione.

L’info di Blackout ne ha parlato con Alessandro Dal Lago.

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Ong in catene: più morti in mare

Il 4 luglio i principali quotidiani hanno aperto con il “fallimento” del vertice di Parigi tra Italia, Francia e Germania sull’immigrazione.
Macron ha negato l’accesso ai porti della Republique alle navi che raccolgono i migranti in difficoltà nel Mediterraneo. Il governo spagnolo lo ha seguito a ruota.
Un esito diverso era decisamente improbabile. Da due anni la Francia ha blindato la frontiera di Ventimiglia, la Svizzera il valico di Chiasso. A poche ore dal summit di Parigi è l’Austria ha deciso di inviare 750 militari al Brennero per bloccare l’accesso nel paese di migranti provenienti dall’Italia.

Nel primo semestre di quest’anno, complice una primavera estiva e un primo scorcio d’estate bollente, gli sbarchi sono aumentati rispetto allo stesso periodo del 2016. Pochi osservatori rilevano che il passaggio per il canale di Sicilia è l’unico aperto, dopo la chiusura della rotta balcanica e della via d’acqua dal Marocco alla Spagna.
Poche migliaia di profughi in più sono bastati a giustificare l’ennesimo squillo di trombe sull’eterna emergenza sbarchi. Le politiche emergenziali servono solo a mantenere un clima di allarme, utile a giustificare respingimenti, rimpatri di massa, eliminazione delle garanzie, esternalizzazione della repressione a chi tortura, stupra, incarcera, ricatta, uccide i migranti.

A farne le spese sarà la gente in viaggio. Gentiloni al vertice ha ottenuto la promessa dell’aumento delle quote di immigrati redistribuiti in Francia e Germania. Ma il bottino più grosso, che il presidente del consiglio italiano conta di portare a casa dopo il vertice di Tallinn in Estonia, è l’approvazione di un protocollo destinato a mettere sotto controllo le ONG, che operano nel Mediterraneo e di fatto costituiscono l’unica ancora di salvezza per il popolo dei gommoni.

In un incontro con il ministro degli esteri francese Collomb, tedesco De Maiziere e il commissario europeo Avramopoulos Minniti ha esposto il suo piano.
Il governo italiano intende interdire i porti del Bel Paese alle imbarcazioni che non accetteranno le condizioni fissate dal titolare degli Interni.
Le Ong potranno operare solo se accetteranno a bordo militari della guardia costiera, se terranno sempre acceso il trasponder, se non supereranno il limite delle acque territoriali libiche, se non segnaleranno la loro presenza ai migranti in difficoltà.

Inutile dire che Gentiloni e Minniti si sono ben guardati dal mettere in discussione i trattati di Dublino, che stabiliscono che i profughi e i richiedenti asilo sono tenuti a fare domanda nel paese dove approdano, anche la loro destinazione è un’altra.

In un’intervista uscita martedì 4 luglio sul quotidiano La Stampa Loris De Filippi, presidente della sezione italiana dell’ONG Medici senza Frontiere, che opera nel Mediterraneo con alcune imbarcazioni, ha detto chiaro che il protocollo non fermerà le migrazioni ma aumenterà il numero dei morti in mare. In questi anni il Mediterraneo è divenuto sudario per oltre 30.000 persone. I morti si aggiungeranno ai morti, nel silenzio e nell’indifferenza dei più.

La stretta sulle navi delle Ong che operano nel Mediterraneo è già partita. Ieri mattina una nave di Medici senza Frontiere, la Vos Prudence, è rimasta bloccata al porto di Palermo per questioni burocratiche. Poco prima che la nave salpasse, gli uomini della Capitaneria di Porto sono saliti a bordo per alcuni controlli rilevando che i documenti del direttore di macchina, che doveva sostituire un collega sbarcato a terra per motivi familiari, non erano in regola.

L’attacco e la criminalizzazione delle ONG, partito da Grillo, proseguito dal Procuratore capo di Catania Zuccaro, continuato su molti media, sta per produrre i propri frutti avvelenati e mortali.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Antonio Mazzeo.

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