Categoria: politica

Il seme dell’odio

Hannah Arendt, osservatrice al processo ad Eichmann, il “contabile dello sterminio”, che si atteggiava a grigio burocrate, scrisse di “banalità del male”. Probabilmente, al di là delle polemiche che suscitò all’epoca la sua rappresentazione di uno dei responsabili dello sterminio di milioni di persone, Arendt non poteva sospettare la fortuna che avrebbe avuto nei decenni successivi la sua amara constatazione su quanto conformista, insignificante, convenzionale, incolore fosse il male.
Oggi sappiamo che Eichmann era ben più che un mero “contabile”, bravo nel rendere più veloci, semplici, efficaci le modalità con le quali a ritmi da catena di montaggio, si raccoglievano, selezionavano, spogliavano, uccidevano e bruciavano i corpi di milioni di persone eliminate come polli allevati in batteria. Con la stessa, quieta, indifferenza. Resta il fatto che tanti furono gli esecutori materiali dello sterminio, come tanti vi collaborarono mettendo a frutto le proprie competenze tecniche, giuridiche, mediche, amministrative. Chi non collaborò attivamente sapeva ed approvava. La grandissima parte di queste persone non era né sadica né incline alla violenza.
Tanta cinematografia statunitense degli anni successivi ha confezionato un’immagine della dittatura nazista deformata dalle esigenze di propaganda del momento. La Germania Ovest era un’alleata preziosa durante la guerra fredda con l’Unione Sovietica. Il cinema costruì la narrazione, falsa ma potente, di una Germania schiacciata dal tallone dell’elite hitleriana e dalle SS, dove il popolo e l’esercito erano ignari ostaggi di una macchina feroce.
Sappiamo che non è così. Sappiamo che la “soluzione finale” era narrata nei cinegiornali, sappiamo che la deportazione e l’uccisione degli ebrei europei era approvata e plaudita, sappiamo che tutto venne codificato in un solido apparato legislativo.
Sappiamo che il Terzo Reich godeva dell’appoggio di un’ampia maggioranza della popolazione, perché era quel che era. Punto.
Altrimenti non vi sarebbe stata Auschwitz.
I 12 anni di nazismo venivano ridotti ad una parentesi di follia. Irripetibile.
Nel 1963 Arendt, nello specchio di Eichmann vide riflessa la normalità dello sterminio. Una banale procedura. Così banale che potrebbe ripetersi.
Non allo stesso modo, ma con la stessa ineluttabile semplicità. Semplice come la vita di ogni giorno, come la quotidianità che si nutre di ripetizioni, di piccoli rituali, di procedure consolidate.
Capita di chiedersi se non rischiamo di trovarci presto di fronte al bivio nel quale si separano complici e vittime, perché il tempo delle nuance, delle sfumature, delle gradazioni di grigio sta finendo.
Siamo abituati a pensare che il male sia estraneo alla vita quotidiana, estraneo alla normalità. Siamo convinti che il male non sia mai incolore. Persino quando lo è fingiamo che non lo sia, fingiamo che rappresenti l’eccezione, mai la regola.
La guerra, che pure è divenuta una costante di questi nostri anni, con truppe italiane che combattono su tanti fronti, viene raccontata come “male necessario”, o finanche come “male minore”. L’articolarsi della narrazione bellica intorno ad ossimori come la guerra umanitaria o edulcorazioni come l’operazione di polizia internazionale dimostra la volontà di nascondere la verità sui massacri delle truppe italiane.
Tutti sanno che la polizia picchia e tortura in modo ben più sistematico di quanto non rivelino vicende che solo la tenacia dei parenti delle vittime rende noti. Finché può lo Stato e le sue guardie armate negano l’evidenza, negano che Cucchi, Uva, Aldrovandi e tanti altri siano stati massacrati intenzionalmente. Negano perché temono lo sdegno che certi delitti potrebbero suscitare.
Negano e nascondono perché sono convinti di non avere il sostegno di una maggioranza significativa.
Sino ad oggi. Un giorno di questi potrebbe accadere che smettano di coprire con un tappeto il sangue per rivendicare la violenza sistematica di polizia, carabinieri, militari.
L’attuale ministro dell’interno, Matteo Salvini, ha approvato l’operato delle forze dell’ordine nel caso di Stefano Cucchi. Se il ministro di polizia sostiene che le botte a Cucchi sono giustificate, non sono ancora cambiate le leggi, ma potrebbero essersi modificati i rapporti di forza. Salvini ritiene di avere l’appoggio popolare: numerosi indizi inducono a ritenere che le sue convinzioni non siano prive di fondamento.
Questa lunga estate sembra scivolare via senza troppi contraccolpi, ma il sottile senso di inquietudine che attraversa le piazze dove, sin troppo timidamente, qualcuno prova a mettersi di mezzo, allude alla delicatezza del momento. La lunga storia della guerra ai migranti è come una pietra che rimbalzi a lungo quieta lungo un declivio, facendosi quasi frana, senza tuttavia mai correre all’impazzata. Pare che quest’estate di colpo il pendio sia divenuto più scosceso e la corsa stia accelerando. Non è questione di numeri ma di sostanza.
Le statistiche disegnano grafici inequivocabili: dallo scorso anno gli sbarchi sono nettamente diminuiti. Nell’estate del 2017 il governo Gentiloni inaugurò la stagione di lotta alle ONG impegnate in operazioni di serch and rescue nel Mediterraneo e strinse accordi con le milizie di Zawija e Sabratha, affinché bloccassero il traffico di migranti sotto il loro controllo.
Quest’anno il terreno era già stato sgomberato e reso disponibile a nuove operazioni di guerra non dichiarata. Il nuovo ministro ha solo completato l’opera, inserendo un tassello che né il suo predecessore Minniti, né, a suo tempo il suo camerata Maroni avevano osato portare sino in fondo.
Lo scontro esplicito con l’Europa è il perno su cui ha girato l’operato di Salvini e del ministro dei trasporti, il pentastellato Toninelli.
Impedire lo sbarco di centinaia di persone ripescate in mare da un’unità della Marina Militare Italiana va al di là della guerra alle ONG, criminalizzate come complici dei trafficanti. Negli ultimi mesi di governo già Minniti aveva chiuso i porti ad alcune ONG e, quando diede il via libera agli sbarchi, scattarono inchieste, blocchi delle imbarcazioni, accuse gravissime agli equipaggi.
Nel 2011, dopo un lunghissimo braccio di ferro con l’Europa, un altro ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni, si arrese e, in una sola notte, fece trasportare da Lampedusa alla Sicilia e, di lì, nei campi tenda settemila profughi della guerra per la Libia.
L’attuale governo è in sostanziale continuità con quelli precedenti di centro-sinistra e di centro-destra o siamo di fronte ad una frattura, ad una novità radicale, ad un salto di qualità?
Il dilemma, sebbene appaia autentico, nel dibattito politico estivo assume il sapore agre dell’interrogativo retorico. Rappresentare il governo Salvini-Di Maio nel segno della discontinuità radicale sui temi dell’immigrazione è operazione utile sia a destra che a sinistra del quadro istituzionale. Salvini, in continua campagna promozionale, vuole dimostrare di essere riuscito dove tutti gli altri hanno miseramente fallito, la disastrata opposizione Dem spera di rifarsi il trucco con l’antifascismo e l’antirazzismo.
Entrambi hanno ben poca lana da tessere, muovendosi sul terreno della propaganda.
Per i nazionalsocialisti non sarebbe stato facile promuovere lo sterminio degli ebrei se sin dai tempi della Seconda Internazionale i socialdemocratici non avessero soffiato sul fuoco dell’antisemitismo, equiparando l’ebreo al capitalista. Il che non implica negare la frattura ed l’imponente salto di qualità nazista.

La legislazione sull’immigrazione nel nostro paese ha delineato una rottura dell’ordine liberale, configurandosi come “diritto penale del nemico”, secondo la definizione coniata dal giurista tedesco Jacobs nel 1985, e articolandosi in termini che definirei di “diritto amministrativo del nemico”. Il mancato accesso ai diritti di cittadinanza finisce con il declinarsi in negazione dei diritti umani.
I governi di centro-sinistra, pur avendo inaugurato questa stagione nel lontano 1998 con la legge Turco-Napolitano che istituì la detenzione amministrativa nel nostro paese, provano a mantenere intatta la patina umanitaria. Una patina sottile. Tragicamente ridicola, ma simbolicamente importante. Per quanto abnormi siano la detenzione e la deportazione, per quanto sia criminale la blindatura delle frontiere, che uccidono chi prova ad attraversarle, per quanto evidenti siano le responsabilità di tutti i governi, le cerimonie del cordoglio mettono in scena la finzione che le stragi siano “disgrazie”, “incidenti” da imputare al mare o ai trafficanti.
Il nuovo governo ha annunciato un pacchetto sicurezza, che, pur annunciando un prolungamento della detenzione amministrativa non rappresenta una significativa rottura con il recente passato.
La novità è altrove. La sottile patina umanitaria, etichettata come “buonismo” è stata stracciata. La gente in viaggio viene etichettata come criminale, portatrice di malattie, pericolosa. Nemica.
Tutti. Sempre. Uomini, donne, bambini. Quest’estate non abbiamo assistito alla messa in scena del lutto istituzionale. Le barche affondate mentre le ONG assistevano impotenti, l’incriminazione di chi si è ribellato al ritorno in Libia sono state ragione di orgoglio.
Salvini è indagato per sequestro di persona, mancata assistenza perché non si è neppure preoccupato di adeguare le norme alle pratiche da lui imposte. Può così, pur essendo al potere, giocare il ruolo del perseguitato. Un gioco che i suoi alleati a cinque stelle hanno fatto con abilità e profitto per anni. Lungo questo declivio il ruzzolar di pietre può divenire frana. Il governo del cambiamento potrebbe chiedere ed ottenere più potere per assolvere il mandato di proteggere la comunità – gli italiani dimentichi del Po e dei riti celti – dal moloch della finanza, dall’immigrazione che mira a spezzare e cancellare l’identità, dalla libertà che nega il nucleo etico familiare.
Tra il 9 e il 12 dicembre del 2013 a Torino migliaia di persone si riversarono in strada imbracciando tricolori, decise a bloccare tutto perché deluse dal cambiamento che non arrivava, spaventate per il futuro che non c’era più. Bloccarono le strade e abbracciarono i poliziotti. Sui loro volantini si auspicava un governo militare, una dittatura. Finì presto. Tutti, delusi tornarono a casa, i media affondarono nel ridicolo quell’avventura e nessuno ci pensò più.
Oggi quella gente ha trovato la propria rappresentanza, un governo che ha promesso di realizzarne il programma.
Mentre scrivo le agenzie hanno appena battuto la notizia di un profugo sedicenne aggredito e ferito a Raffadali. Chi lo ha colpito gli ha gridato “vattene a casa tua”. È l’ultima di tante vicende tutte uguali.
Provate ad immaginare. Un uomo dal balcone vede una donna rom con una neonata in braccio, entra in casa, prende il fucile a pallini e spara alla bambina.
Un altro tizio vede un lavoratore sull’impalcatura. Prende il fucile e lo ferisce. L’operaio è di origine africana. Il ministro dell’Interno si mostra comprensivo con i fucilieri della ringhiera.
Impossibile? È successo quest’estate nel Belpaese. Ci sono case dove il rancore cova da tanto tempo, distillandosi goccia a goccia, corrodendo ogni senso di legame umano. Il seme dell’odio sta producendo i suoi frutti avvelenati.
Nessuno dica che non sapeva, nessuno dica che non aveva capito.

Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista

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Aquarius. La stretta finale sulle ONG

La nave Aquarius della ONG SOS Mediterranee con a bordo 629 naufraghi provenienti dalla Libia, dopo due giorni di stallo in acque internazionali, trasborderà parte dei migranti su unità militari italiane, per dirigersi verso il porto spagnolo di Valencia.

Sembrava un’operazione come tante altre. L’Aquarius si è mossa in base alle indicazioni ricevute dal coordinamento della guardia costiera di Roma. Dopo aver salvato i passeggeri di due gommoni, uno già affondato, l’altro in grave difficoltà, ha accolto a bordo altre persone ripescate da unità della marina italiana.
In un primo tempo la guardia costiera aveva indicato Messina come approdo sicuro. L’Aquarius era in viaggio verso quel porto, quando è arrivato lo stop del governo.

La chiusura dei porti italiani è stata decisa dal responsabile della guardia costiera, il ministro dei trasporti e infrastrutture, Danilo Toninelli.
La situazione di stallo seguita alla mossa di Toninelli e Salvini si è sbloccata grazie alla decisione presa dal nuovo governo spagnolo, guidato dal socialista Sanchez.

La partita apertasi lo scorso anno con l’attacco del ministro dell’Interno Minniti alle ONG, che ha portato al sequestro di navi e all’incriminazione dei membri dell’equipaggio, da Jugend Rettet a Proactiva Open Arms, è tutt’altro che chiusa. I porti sono interdetti solo alle ONG. La nave della marina militare Diciotti, con a bordo 800 persone, approderà nelle prossime ore a Catania.

Salvini aveva disertato la riunione dei ministri degli Interni dell’Unione Europea, che la scorsa settimana si sono riuniti per discutere la bozza di riforma del regolamento di Dublino voluta soprattutto da Francia, Germania e paesi nordici ma fortemente contrastata dai paesi dell’est del cosiddetto gruppo di Visegrad, capeggiato dall’Ungheria di Orban.
Salvini, che si è detto molto vicino alle posizioni di chiusura totale delle frontiere caldeggiata e praticata dal gruppo di Visegrad, sulla riforma del regolamento di Dublino è su posizioni opposte. In perfetta continuità con il governo Gentiloni, che, con toni diversi, ma uguale sostanza, aveva contestato la bozza di riforma, perché lascia intatto il principio dell’accoglienza nel primo paese di approdo. Solo dopo 8 anni, se ha ottenuto lo status di rifugiat*, chi è arrivato in uno dei paesi della sponda sud dell’Europa, potrebbe spostarsi in uno degli altri paesi europei.

Il governo Conte sa bene che la partita europea ha tempi lunghi e possibilità limitate, preferisce quindi sferrare l’attacco finale alle ONG che operano nel Mediterraneo. Un colpo ad effetto per accontentare il proprio elettorato. Una partita nella quale oggi Salvini sostiene di aver segnato un punto, fingendo di aver obbligato un altro paese europeo ad aprire i propri porti. Un gioco che probabilmente durerà poco.
Innegabile l’abilità con cui il governo ha condotto l’operazione: grande durezza verbale, ma estrema prudenza.
Il richiamo alla solidarietà europea mette a nudo uno dei nodi irrisolti dal 2011. Allora Maroni giocò la carta del ricatto, concentrando migliaia di profughi della guerra per la Libia a Lampedusa in condizioni terribili in un clima di tensione crescente, ma dovette arrendersi di fronte ai secchi dinieghi dell’UE.
In una notte settemila profughi furono imbarcati e trasferiti in campi tende colabrodo, da dove si riversarono verso le frontiere, che, per un po’ furono molto permeabili.
I tentativi di instaurare un principio di solidarietà di fronte all’esodo dalla Siria devastata dalla guerra civile, si infransero contro i muri che sorsero sempre più fitti, in un’Europa dove rispuntarono i confini.
Oggi il debole tentativo di riforma del trattato di Dublino si infrange contro quei muri.

Ora Salvini prova a giocare di anticipo convocando a Roma una conferenza sulla Libia, cui ha invitato la Francia, la Tunisia, Al Sarraj, “presidente libico” con limitato controllo sulla Tripolitania e Haftar, il militare vicino ad Egitto e Russia, padrone della Cirenaica.
Lo scopo dell’incontro, che precederebbe di pochi giorni il vertice europeo su Dublino 3, è chiudere la rotta libica, pagando per il servizio. A fine mese il ministro dell’Interno volerebbe in Libia per distribuire le mazzette necessarie ad oliare chi controlla le rotte dei migranti, scafisti e gestori dei lager.
Salvini ricalca le orme del suo predecessore, che si recò in Libia a pochi giorni dal proprio insediamento, promise navi, addestratori e soldi ad Al Sarraj. In agosto pagò direttamente le milizie che controllano il traffico degli esseri umani.

Secondo indiscrezioni pubblicate da El Pais ma non confermate dalla Commissione, il governo italiano avrebbe intenzione di bloccare il finanziamento di 3 miliardi di euro che l’Unione europea si è impegnata a destinare alla Turchia, con l’accordo con Ankara del 2016, per fermare l’arrivo dei migranti sulle coste europee. Il governo italiano intenderebbe chiedere che la somma venga destinata alla Libia. Una megatangente per i predoni che controllano l’ex colonia italiana.
Una mossa ardita, ma abile, anche se si esaurisse nell’effetto annuncio, perché potrebbe dar fiato alle pulsioni antieuropeiste, che attraversano il DNA di questo governo.

Sullo sfondo, invisibili, restano 629 uomini, donne e bambini della Aquarius diretti a Valencia. E i tanti altri che si giocano la vita sui sentieri montani, nelle gallerie ferroviarie, in mare e nel deserto, tra mercanti d’uomini e scafisti in abito da ministro. Come Salvini e Toninelli, che per propaganda, li usano come pedine di una scacchiera.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Riccardo Gatti dell’ONG Proactiva Open Arms.

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Catalogna. Il pugno di di ferro di Rajoy, la risposta delle piazze

Catalogna. Il pugno di di ferro di Rajoy, la risposta delle piazze

L’arresto di Carles Puigdemont in Germania è l’ultimo atto della guerra tra lo Stato Spagnolo e l’aspirante Stato Catalano. Controllato a distanza tramite un navigatore applicato alla sua auto, l’ex presidente catalano è stato intercettato al confine tra la Finlandia e la Germania, paese che, secondo l’intelligence spagnola poteva essere più sensibile alle richieste di estradizione di Madrid.
Lo strumento giuridico usato è un mandato di cattura europeo. Se qualcuno aveva ancora dei dubbi sul ruolo dell’Europa delle polizie e dei confini a permeabilità variabile, li ha sicuramente persi. Un’ulteriore brutta botta per gli indipendentisti catalani, sempre più frustrati nella loro enfasi europeista.
Le elezioni, convocate dopo lo scioglimento d’autorità del parlamento catalano, hanno nuovamente dato la maggioranza agli indipendentisti, ma, dopo tre mesi non si è ancora costituito un governo regionale.
Jordi Turull di JuntsXCat, ultimo candidato presidente, è stato arrestato qualche giorno prima di Puigdemont. Con lui sono finiti in carcere altri quattro deputati. Marta Rovira di Esquerra Republicana ha preso la via dell’esilio.
Dopo lo scioglimento di autorità del parlamento catalano e la deposizione della Generalitad forse il PPE al governo sperava in un risultato diverso, ma al di là della crescita di Ciudadanos, i vari partiti della costellazione indipendentista restano l’ago della bilancia. La risposta di Madrid al referendum e alla dichiarazione di indipendenza lasciavano pochi dubbi: Madrid non intende mollare e sta intensificando l’azione repressiva.
La partita resta tuttavia apertissima e foriera di conseguenze imprevedibili.
Dopo le grandi manifestazioni seguite all’arresto di Turull e degli altri deputati, all’annuncio dell’arresto in Germania di Puigdemont, le piazze catalane si sono nuovamente riempite.
Decine di migliaia di manifestanti a Barcellona, Girona, Lleida, Tarragona e in altri centri della Catalogna hanno dato vita a manifestazioni spontanee. Ci sono stati numerosi tafferugli con la polizia, compresi i Mossos de Esquadra catalani. Almeno 101 persone hanno riportato ferite non gravi.
La polizia in tenuta antisommossa ha caricato con manganelli gli indipendentisti, che in alcuni casi hanno risposto con lancio di oggetti, innalzando barricate e incendiando cassonetti. Almeno 6 le persone arrestate a Barcellona mentre cercavano di avvicinarsi alla sede della rappresentanza del governo di Madrid. I manifestanti hanno anche bloccato il traffico in quattro autostrade nella regione.

In Spagna, dopo la ley mordaza, sono scattate numerose operazioni repressive, che hanno colpito soprattutto anarchici e libertari, alcuni in carcere ormai da oltre un anno.
Il pugno di ferro di Rajoy sta colpendo con estrema durezza ogni forma di opposizione politica e sociale, arrivando a fermare ed arrestare artisti di strada, le cui esibizioni mettevano alla berlina il potere.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Claudio Venza, docente di storia della Spagna contemporanea all’università di Trieste, profondo conoscitore della Catalogna, dove trascorre parte dell’anno.

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La cacciata delle ONG e l’accordo con gli scafisti

Che l’aria stesse cambiando lo si è capito quest’inverno. Il 2 febbraio il nuovo ministro dell’Interno Minniti ha siglato un accordo con il governo Al Sarraj in Libia, benedetto il giorno successivo dal vertice di Malta. Una mossa che assumeva mero sapore propagandistico, per acquistare consensi in vista di elezioni che all’epoca parevano molto vicine. Il governo Al Sarraj non controlla neppure Tripoli, le due o tre “guardie costiere” sono parte del traffico di esseri umani, un affare molto lucroso nella Libia devastata da sei anni di guerra. Il capo della guardia costiera di Zawiya è anche capo di una delle milizie che gestiscono le partenze.
In realtà l’accordo con Al Sarraj porterà soldi, armi e pattugliatori in Libia e sarà il primo tassello del mosaico di Minniti. Il ministro si è fatto le ossa alla scuola di Cossiga e per lunghi anni ha avuto la delega ai servizi segreti, nei tanti governi dove è stato sottosegretario agli Interni.
Il suo capolavoro è la cacciata dal Mediterraneo delle navi delle tante ONG, che negli ultimi anni si sono assunte il compito di ripescare in mare naufraghi e gente abbandonata su barconi alla deriva.
Un lavoro fatto intessendo infiniti fili e facendo leva sulle spinte che arrivavano dai propri stessi avversari politici. In prima fila Salvini e Grillo, che hanno puntato l’indice contro le ONG accusandole di essere complici degli scafisti. Si sono poi uniti al coro alcuni magistrati siciliani come il Procuratore di Catania Zuccaro, che, pur dichiarando di non avere prove, si è detto certo che ci fosse del marcio nell’attività delle navi delle ONG impegnate nel Mediterraneo. Il lavoro di criminalizzazione è durato mesi, per preparare il terreno all’ultima offensiva.
All’inizio dell’estate, in un clima emergenziale suscitato ad arte dai media, è saltato fuori il codice da imporre alle ONG, pena la chiusura dei porti. Un cappio al collo, che rende nei fatti quasi inutile muoversi nel Mediterraneo. Poliziotti a bordo, strumenti che segnalano la propria posizione, divieto di mettersi lungo le rotte della gente in viaggio. La maggior parte delle Ong non ha sottoscritto il codice. Le minacce della guardia costiera libica di impiegare le armi ha portato al ritiro dal Mediterraneo di gran parte delle imbarcazioni delle Ong ribelli. In questo momento nel canale di Sicilia sono rimaste solo due navi impegnate in operazioni di ricerca e soccorso.
In agosto gli sbarchi sono stati meno di un settimo di quelli dello stesso periodo dell’anno precedente
Il 25 agosto su Middle East Eye compare un articolo di Francesca Mannocchi che ha raccolto numerose testimonianze sugli accordi tra uomini dei servizi segreti italiani e le milizie che controllano la costa libica tra Zawiya e Sabratha, i porti da cui partono la maggior parte delle imbarcazioni dirette in Italia.
Tra Tripoli e Zawiya ci sono meno di 50 chilometri e otto posti di blocco. L’unico modo per raggiungerla è via mare.
“Poche settimane dopo l’emanazione del Codice per le ONG, la costa di Zawiya è avvolta nel silenzio.” (…) Un testimone riferisce “del complesso e delicato equilibrio di potere tra le diverse milizie che gestiscono i vari traffici di esseri umani, petrolio e altro”. “Altre fonti riferiscono che la quiete dei porti tra Zawiya e Sabratha ha un prezzo. Non si spiegherebbe altrimenti come un’area che per anni è stata il crocevia del traffico di esseri umani sia diventata all’improvviso calma.” (…) Il costo negoziato per ottenere il blocco delle partenze per almeno un mese sarebbe di cinque milioni di dollari.
Il governo italiano smentisce qualsiasi accordo con gli scafisti, ma già a fine agosto nuove prove emergono da un articolo dell’Associated Press. La milizia “Martire Abu Anas al Dabbashi” di Sabratha collabora da anni con il governo italiano, perché si occupa della sicurezza dell’impianto ENI di Mellita.
Assieme alla “Brigata 48” gestiscono tutti i traffici in quel tratto di costa. Entrambe le formazioni armate sono controllate da membri del clan Dabbashi, ossia i “re del traffico di migranti”. Il capo della prima conferma l’intesa con gli italiani.

In questi stessi giorni Minniti ha dichiarato alla stampa di essere “preoccupato per le condizioni dei migranti nelle prigioni libiche”.
Negli stessi giorni è stato stipulato un accordo per la realizzazione di campi di concentramento per immigrati in Ciad, in Mali e in Niger. La ciliegina sulla torta del ministro dell’Interno.
La linea di confine si sposta a sud, oltre il deserto dove i “diritti umani”, nozione sulla quale spesso in Italia si misura l’altrui civiltà, hanno una diversa declinazione.

L’info di Blackout ne ha parlato con Alessandro Dal Lago.

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Diritto penale. Aumentano le pene si riducono le garanzie

La riforma del codice penale, del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario è stata approvata in maniera definitiva il 23 giugno. Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 4 luglio, diventerà effettiva dopo trenta giorni, tranne le parti soggette a legge delega al governo.

Il provvedimento introduce importanti modifiche dell’ordinamento penale, sia sul piano del diritto sostanziale sia su quello del diritto processuale.

La riforma inasprisce le pene per furto, rapina, scippo e cambio elettorale politico-mafioso.
É significativo che vengano sanzionati ancora più duramente i reati contro la proprietà privata commessi dai poveri, che nel nostro paese già prevedevano pene molto pesanti.
Chiara la volontà di accontentare le pulsioni giustizialiste che attraversano parte del corpo sociale.

Vengono significativamente aumentati i termini di prescrizione, aumentando i casi di sospensiva già previsti dalla legge. Tra il processo di primo grado e quello di secondo grado è prevista una interruzione di un anno e mezzo. Sempre di un anno e mezzo è l’arresto del calcolo della prescrizione tra il processo d’appello e quello in Cassazione. Nei fatti la prescrizione è stata aumentata di tre anni. Alla faccia della asserita volontà di adeguamento alle richieste dell’Unione Europea, che sollecitava una maggiore celerità nell’azione penale, vengono nei fatti allungati i tempi a disposizione dell’apparato giudiziario per portare a termine i processi.
Un vero paradosso, che si nutre di pregiudizi radicati diffusi ad arte dai media, che amplificano alcuni casi di reati gravi estinti dalla prescrizione, nascondendo le obiettive responsabilità, anche politiche, della magistratura.
Il caso più recente ed eclatante è quello della Procura di Torino, che ha accelerato al massimo i procedimenti a carico del movimento No Tav, anche quelli più banali. Condanne e sanzioni pecuniarie sono state la leva potente usata contro un movimento vivo e pericoloso per l’ordine costituito, ben al di là della consistenza penale dei tanti procedimenti attuati contro gli attivisti.

La possibilità di difesa sono drasticamente ridotte dall’introduzione del dibattimento a distanza, tramite videoconferenza. Sinora era un provvedimento eccezionale, ora diviene la norma per chi è accusato di alcuni reati come mafia, associazione sovversiva, attentato con finalità di terrorismo.

I penalisti si sono opposti alla riforma sino all’ultimo, facendo numerosissimi “scioperi”, l’ultimo nella settimana precedente all’approvazione definitiva della nuova legge.

Una legge che conferma sia la natura di classe dell’ordinamento giudiziario, sia il suo utilizzo contro i movimenti di opposizione sociale.
Persino norme apparentemente più “liberali” come quella che introduce l’estinzione di alcuni reati per i quali è prevista la querela di parte e un massimo di pena di 4 anni, se le vittime vengono risarcite, hanno una chiara impronta di classe. Chi non ha soldi per i risarcimenti andrà in carcere.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Eugenio Losco, avvocato milanese, in prima fila nella difesa degli attivisti dei movimenti di opposizione sociale e dei migranti.

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Vaccini, complotti, salute, soldi

La decisione del governo di imporre la vaccinazione ai bambini con un decreto legge diventato operativo in questi giorni ha il sapore di un intervento a gamba tesa, che ben lungi dallo sconfiggere una delle tante versioni della teoria del complotto, contribuisce paradossalmente a rinforzarla.
Molti, anche tra coloro che non hanno una posizione antivax, hanno puntato il dito sulla ministra Lorenzin, considerata alleata delle Big Pharma nel business dei vaccini.
Come vedremo il core business di Big Pharma sono le malattie e non la prevenzione. Il vaccino contro l’epatite rende tre dollari, i medicinali per curare la malattia tra i 30 e i 40 dollari.
Resta il fatto che la formulazione del decreto è estremamente violenta. Se ogni imposizione di Stato è in se intollerabile, il ricatto sulla scuola e la minaccia di togliere i figli ai genitori inadempienti lo è più del consueto.

In questa vicenda si intrecciano più piani di riflessione, che abbiamo tentato di separare sul piano analitico, pur rendendoci conto che l’intrico è difficile da dipanare.

Chi sostiene che in ballo ci sia la libertà di cura non considera che i vaccini vengono fatti a bambini molto piccoli che non possono valutare rischi e vantaggi individuali e collettivi della pratica vaccinale.
Affidare ai genitori o allo Stato la decisione appare la classica scelta tra la padella e la brace.
Non solo. La pratica vaccinale inerisce una nozione i cui confini sono spesso difficili da individuare: la “salute pubblica”.
La libertà di non vaccinare i propri figli non solo li espone al rischio di contrarre gravi malattie ma espone tutti quelli che non possono essere vaccinati allo stesso rischio. Bambini affetti da gravi patologie non possono essere vaccinati, nei due terzi più poveri del pianeta ci sono milioni di bambini e adulti non vaccinati che potrebbero contrarre la malattia.
Risolvere la questione a colpi di decreti e imposizioni non è certo un buon modo per favorire il diffondersi di un’attitudine critica verso le mille teorie del complotto che spiegano tutto, senza farci capire nulla.
Lorenzin è la ministra del fertility day: il suo decreto rischia di avere il solo significativo effetto di far crescere il consenso al partito dei complotti, il M5S. Chi la può ritenere credibile quando impone la vaccinazione obbligatoria? Va da se che nessuno le proporrebbe di fare una seria campagna informativa sui vaccini. Chi ha visto gli spot del fertility day si potrebbe piegare dalle risate.

Resta il fatto che l’informazione è il nodo da sciogliere. Possiamo, grazie ad una rete di medici, ricercatori e studiosi che non si piegano né ai dicktat del governo, né alle pressioni di Big Pharma, né alle fantasie complottiste, costruire dal basso uno sguardo critico sulla nostra salute, sulla necessità di spezzare il legame tra business e benessere, lottare per l’eliminazione della proprietà intellettuale, batterci per un’educazione sanitaria diffusa.

La crescente sfiducia nelle istituzioni sanitarie, scosse da continue inchieste su ruberie, furti, malasanità, contribuisce ad accrescere la diffidenza verso la ricerca scientifica tout court. Questa sfiducia spesso investe anche chi lavora nella ricerca, spesso senza sovvenzioni né pubbliche né private.
La nostra salute, la salute di chi non ha soldi o ne troppo pochi per garantirsela, non interessa ai governi che si sono secceduti in questi anni. I continui tagli che hanno messo in ginocchio il circuito sanitario statale ne sono la prova. La scelta di aumentare la spesa di guerra è invece il segno che le risorse ci sono ma i vari esecutivi hanno preferito impiegarle per le imprese di morte, piuttosto che per la vita di noi tutti.

Il diffondersi della pratica vaccinale ha portato alla scomparsa di una malattia grave e mortale come il vaiolo. Lo stesso risultato è a portata di mano per difterite e poliomelite. Peccato che i movimenti no vax stiano mettendo a rischio questo obiettivo.
Paradossalmente il senso di sicurezza dovuto al successo della vaccinazione di massa, apre le porte al diffondersi di teorie che la suppongono inutile e dannosa.

Il vaccino tutela chi lo fa, perché impedisce l’insorgere della malattia, tutela anche i bambini immunodepressi e quelli che rischiano di sviluppare reazioni autoimmuni, che non possono essere vaccinati. Se i bambini sani sono vaccinati, quelli immunodepressi non rischiano di infettarsi.

Questa verità banale è oggi messa in discussione da un numero crescente di genitori che negli ultimi anni hanno deciso di non vaccinare i propri figli, perché spaventati dalla marea di informazioni diffuse in salsa simil scientifica in rete.
Chi naviga in internet e sceglie di fare un viaggio nel pianeta dei vaccini, scopre che più del 70% dei siti, pagine facebook, blog sono no vax, solo il 30% è favorevole.
É quindi ovvio che proprio chi vuole informarsi il più possibile nell’interesse dei propri figli, incappando in questa vera onda anomala antivax, finisca con il nutrire dubbi sull’opportunità di vaccinare i propri bambini.

Un buon metodo per orientarsi è prestare attenzione al fatto che in genere i no vax trovano spazio nelle pagine gestite dai numerosi complottisti che popolano il web.

Altro buon metodo è parlare con gli studiosi, i ricercatori, che fanno il loro lavoro avendo ben chiaro il ruolo delle Big Pharma, dello Stato e dei complottisti.

L’info di Blackout ne ha parlato con Ennio Carbone, un compagno che in passato è stato sentito più volte sul ruolo delle Big Pharma, il diffondersi delle epidemie, i poveri che muoiono di malattie curabili, la ricerca scientifica nel nostro paese.

Qui altri approfondimenti:

“Big Pharma. Affari o salute?”

“Ebola e Big Pharma”

“Il prezzo della vita. Come si vive e come si muore di sanità”

“Business e salute. Il giallo dei vaccini”

Ennio è Professore Ordinario di Patologia Generale all’Università della Magna Grecia

Adjunct Senior Lecturer presso il Dipartimento di Microbiologia, e Biologia Cellulare e dei Tumori (MTC) Karolinska Institutet, Stoccolma , Svezia.

Fa parte del Consiglio Direttivo Nazionale della Società Italiana di Immunologia, Immunologia Clinica ed Allergologia.

A lui abbiamo rivolto alcune semplici domande.

Come funziona il sistema immunitario?

Quali e quante sono le reazioni avverse ai vaccini?

A chi non devono essere fatti i vaccini? Anche agli immunodepressi o a quelli che sviluppano reazioni atopiche verrà imposta la vaccinazione?

Cos’è l’immunità di comunità?

Perché è calato il grado di vaccinazione in Europa?

Big Pharma e il business dei vaccini. Quali interessi sono in ballo?

Ascolta la diretta con Ennio:

http://radioblackout.org/2017/06/vaccini-complotti-salute-soldi/

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Torino. Primo Maggio al manganello

Piove a dirotto. La piazza del Primo Maggio si stringe sotto ai portici, si affolla al bar. I compagni lavorano alacremente per allestire il camion per lo spezzone anarchico. Un uomo ci dice. “Piove, ma sono qui lo stesso. Che ci facevo a casa? Ho 54 anni e ho perso il lavoro. Un altro posto non lo trovo più. Per me è finita.” La piccola storia di uno è lo specchio del nostro vivere sempre più gramo. Due giorni dopo sui quotidiani i dati Istat sulla disoccupazione segnalano una lieve riduzione della disoccupazione giovanile nella fascia tra i 18 e 24 anni, mentre si allarga la schiera dei disoccupati ultracinquantenni. È la fine di una parabola iniziata decenni fa. Quando la precarietà diventa l’orizzonte normale, i dinosauri della stagione delle tutele e dei diritti vengono spremuti e gettati via, i giovani educati sin dalla scuola alla flessibilità, campano di “lavoretti” ed escono dalle statistiche. In ogni caso oltre il 34 % dei giovani che lo cercano, non trovano un lavoro. Chi lo trova sente ogni giorno il sapore amaro della servitù salariata, grazie ad un ordine sociale dove le nostre vite non valgono nulla.
Sempre più uomini e donne sono diventati vuoti a perdere e lo resteranno. Non servono, sono eccedenze inutili. Scarti.

La piazza non si riempie, quelli del PD temono contestazioni e non si fanno nemmeno vedere, si piazzano avanti.
Nei fatti la frattura simbolica e reale è netta. Sindacati di Stato, il PD e poco altro in testa, dietro lo spezzone di post-autonomi e post-disobba, poi quello anarchico e gli striscioni della diaspora rifondata.

Il corteo avanza veloce. Tanta pioggia, poca gente. Quando la parte finale del corteo raggiunge via Roma la Questura schiera l’antisommossa. In piazza San Carlo i comizi sono appena cominciati, i settori più radicali del corteo non devono entrare in piazza.
La polizia carica quattro volte. Teste e braccia rotte, lividi e contusioni. Tre manifestanti sono fermati e condotti in Questura, da dove saranno rilasciati in serata.
Dopo le cariche il corteo si ricompatta e raggiunge la piazza deserta e spazzata dalla pioggia. Le immagini delle cariche attraversano il web. Nel pomeriggio un paio di consiglieri pentastellati parlano di cariche ingiustificate. La sindaca Appendino il tre maggio “condanna le violenze”, con un discorso triste e legalitario che non accontenta nessuno. Appendino è stata eletta drenando molti voti a destra e a sinistra. Deve pagare dazio a tutto il proprio elettorato senza perdere troppi consensi. Vorrebbe essere la sindaca di tutti, dalla polizia agli antagonisti.
In quest’occasione, dopo le dichiarazioni della consigliera a 5Stelle Daniela Albano che chiedeva che fosse vietata ai sindacati la manifestazione dell’anno prossimo, Appendino ha concesso ben poco, stigmatizzando le “violenze di pochi” che avrebbero impedito alla maggioranza pacifica di manifestare il proprio dissenso.
Un’operazione di fine equilibrismo politico che finora le è riuscita abbastanza bene, anche se è lecito supporre che qualche malumore serpeggi nel sottobosco che circonda la politica di palazzo.
Una desolante pantomima di fronte alla violenza che il ministero dell’Interno e i suoi bracci armati scatenano ogni anno a Torino, per pacificare la piazza, per far sì che la storia cominciata ad Haymarket nel 1886 venga sepolta e dimenticata. Il segretario della CISL-FIM Chiarle vorrebbe trasformare il primo maggio in una festa di paese, con salsicce alla brace, stand e musica.
Non ci preoccupa. Se i sindacati di Stato e i partiti istituzionali abbandoneranno la piazza, sapremo riempirla con un altro Primo Maggio di lotta e sciopero generale.
Lo spezzone anarchico quest’anno è sceso in piazza “per un mondo senza servi né padroni per un Primo Maggio di lotta nel Luna Park a 5 Stelle”.
Sul furgone erano appesi due striscioni “Stop deportazioni” e “Cgil, Cisl, Uil nemici dei lavoratori”. In apertura lo striscione “Contro Stato e padroni azione diretta”
Segnali forti e chiari per sindacati di Stato, governo del paese e della città.

Nessuno stupore che la polizia abbia fermato e poi caricato il corteo, nessuno stupore che sindacati di Stato, PD e amministrazione comunale volessero impedirci di attraversare con le nostre voci e i nostri corpi la piazza del Primo Maggio.
Abbiamo resistito, ci siamo ricompattati dopo le cariche, abbiamo finito il corteo.
Ma la nostra giornata non è finita lì.
Abbiamo raggiunto Milano, piazzale Loreto, dove abbiamo partecipato alla manifestazione organizzata da sindacati di base, anarchici, centri sociali, che ha attraversato la periferia. Alcune migliaia di lavoratori hanno risposto all’appello per un corteo anticapitalista, internazionalista.
Anche a Milano piove a dirotto. Il corteo che attraversa la zona tra via Padova e viale Monza è vivace e combattivo.
C’erano i lavoratori della logistica, dei servizi, della sanità, dei trasporti che hanno scelto la strada dell’autorganizzazione e della lotta.
Una piazza ben diversa da quella del mattino a Milano, dove sindacati di stato e partiti governativi, sono stati lo specchio di un ceto burocratico, che, ormai inutile persino a sopire le lotte, è divenuto totalmente dipendente dai finanziamenti statali.
Nelle strade dell’immigrazione milanese si sono udite le voci di chi fa picchetti e rischia, di chi non piega la testa, di chi ha scelto la lotta quotidiana.

Noi sfiliamo con lo striscione “Daspo urbano, fogli di via, il fascismo ha il volto della democrazia” all’interno dello spezzone della Federazione Anarchica Milanese, che per prima ha lanciato l’appello per il corteo.

In serata i fattorini di Deliveroo di Torino, in turno e fuori turno, si collegano alla centrale e, uno dopo l’altro, rifiutano le corse. Intorno alle 20,30 sul sito di Deliveroo appare l’annuncio della sospensione del servizio. Tutto bloccato, nessuna consegna. Da tempo in lotta per ottenere tutti un minimo di ore lavorate e per decidere i propri turni, i rider sono riusciti ad inceppare la macchina, a scioperare.
Un buon sapore di Primo Maggio anche a Torino.
Nonostante la cura al manganello la mattina siamo arrivati nella piazza del Primo Maggio, nel segno della lotta per un mondo senza Stati, padroni, eserciti, frontiere.
E continueremo a farlo.

i compagni e le compagne della federazione anarchica torinese

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Turchia: Erdogan eletto dittatore. Con brogli

Erdogan ha vinto il referendum costituzionale del 16 aprile. Il si ha prevalso sul no di stretta misura, il 51,3 contro il 48,7. Secondo la Rete dei giornalisti indipendenti, la BIA-NET, al voto si sono recati circa l’84% degli aventi diritto. Sin dalle prime ore l’opposizione ha denunciato brogli e irregolarità: video che mostrano schede timbrate a pacchi, seggi chiusi per gli osservatori indipendenti, polizia nei pressi dei seggi nonostante la legge lo vieti.
La decisione più clamorosa è stata presa proprio dall’Ente Superiore per le Elezioni (YSK). Durante la giornata elettorale si sono moltiplicate le segnalazioni di schede prive di timbro ufficiale dell’Ente. Con ogni probabilità un lavoro di copisteria improvvisato all’ultimo momento. Dopo le denunce lo YSK ha deciso di contare comunque anche le schede non ufficiali.

Per la prima volta l’OSCE ha denunciato brogli e sollevato dubbi sulla regolarità del voto. Secondo l’OSCE ci sarebbero almeno due milioni e mezzo di schede dubbie. Se si calcola che lo scarto ufficiale tra il si e il no è di un milione e 300mila voti, ne consegue che il risultato potrebbe essere capovolto.
Inutile dire che difficilmente l’uomo forte della Turchia, da domenica 16 aprile, uomo solo al comando, lo permetterà.
Secondo gli osservatori dell’OSCE il voto per il referendum turco non è stato all’altezza degli standard internazionali e la campagna elettorale non si è svolta in un clima di equità.
Sono migliaia gli oppositori politici in carcere, che stanno attuando un durissimo sciopero della fame. Decine di giornali, tv, radio e siti di opposizione sono stati chiusi. Nelle zone curdofone molti abitanti, che avevano abbandonato città e quartieri distrutti dalla guerra civile, non sono stati iscritti al registro dei votanti e non hanno potuto partecipare al voto.
Gli anarchici del DAF hanno invece fatto campagna astensionista, denunciando un gioco che, anche quando è regolare, è fatto con carte truccate.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Murat Cinar, giornalista torinese di origine turca, che, oltre ad una disamina dei numerosi indizi che consentono di parlare apertamente di brogli, ci ha illustrato la riforma e ha fatto una prima analisi del voto, che appare meno scontato di quanto ci si aspettasse.

Più del 50% del paese è contro questa costituzione, un numero di cittadini che non è composto solo dall’elettorato del Chp e dell’Hdp. I no sono composti anche dagli elettori di Erdogan che lo voterebbero anche domani, ma che non vogliono che abbia tanto potere. E poi ci sono la maggior parte degli elettori dei nazionalisti del Mhp.

Questo è il profilo dell’elettore no: repubblicani, sinistra e un 15-20% dell’elettorato di Erdogan. Ovvero le coste dell’Egeo (roccaforte Chp), una parte del sud-est che è fortezza dell’Hdp con alcune perdite (Maras, Urfa, Antep, Adiyaman, Mus, Kars che teoricamente dovrebbero seguire la linea Hdp ma hanno votato sì), la costa mediterranea che, se ha delle municipalità in mano all’Akp, ha votato per lo più no.
Inoltre nel Kurdistan turco è molto forte un partito tradizionalista, islamista curdo, che ha votato massicciamente per la riforma. Sono gli stessi che durante le proteste durante l’assedio dell’Isis a Kobane, attaccarono le manifestazioni di protesta, lasciando sul terreno quasi 60 morti.

Per il sì hanno votato conservatori, nazionalisti radicali, zone rurali, ma anche una parte dei kurdi: le città più politicizzate a sud est hanno votato no, ma quelle più conservatrici vivono una frattura. Forse hanno voluto mandare un messaggio a Erdogan: ti sosteniamo se molli l’alleanza con i nazionalisti.

Tredici su 58 paesi all’estero hanno detto sì. Significa che in 45 ha prevalso il no: in Cina, Russia, Usa, Australia, penisola araba e nella maggior parte dei paesi europei.

In Germania, Austria, Belgio, Olanda, Belgio, dove ha prevalso il sì, operano associazioni conservatrici e fondamentaliste. Da anni lavorano per conto di Erdogan e dell’Akp all’estero. Stiamo parlando di sistemi di fraternità, comunità religiose, reti di imprenditori che hanno la sua stessa ideologia, la stessa cosa che in Turchia fanno da più di 30 anni le comunità religiose. Non accade a Smirne e Istanbul, ma nelle zone rurali è così: una tradizione feudale e conservatrice che si è trasferita all’estero.
Anche i comizi vietati hanno favorito il si, rinforzando il messaggio “tutti ci vogliono male, siamo in pieno sviluppo e provano a fermarci”. Un sapiente cocktail tra i richiami all’impero Ottomano e ai suoi nemici di un tempo con la spinta modernista e cementificatrice che è la cifra dell’era Erdogan.

Secondo un sondaggio effettuato prima del referendum, moltissimi cittadini non conoscevano il pacchetto di riforme, su cui era stata indetta la consultazione referendaria.
Si tratta di 18 punti, la maggior parte dei quali concerneva l’aumento del potere del Presidente della Repubblica dal punto di vista legislativo, giuridico ed amministrativo.

La riforma è stata proposta dal partito al governo, l’AKP, Partito dello Sviluppo e della Giustizia) ma fortemente appoggiata dal secondo partito all’opposizione, il MHP (Partito del Movimento Nazionalista).
Nelle elezioni del 2015 Erdogan puntava alla maggioranza assoluta per attuare la sua riforma senza intralci. Erdogan, pur vincendo le elezioni, non aveva i parlamentari necessari ad avere mano libera. Ha quindi stretto alleanza con il MHP.

L’11 ottobre del 2016 il Presidente Generale del MHP, Devlet Bahceli, durante l’intervento nel suo gruppo parlamentare, ha dichiarato che avrebbe appoggiato il partito di governo per una ridefinizione in senso presidenzialista della Repubblica turca. Questa scelta ha finito con lo spaccare in due il partito nazionalista.
L’alleanza tra AKP e MHP, nonostante molte tensioni interne ai due schieramenti e numerosi franchi tiratori, ha raggiunto il quorum necessario all’approvazione delle nuove norme.
Quindici giorni dopo la votazione parlamentare del 10 febbraio, il presidente della Repubblica, Erdogan, ha fissato il referendum che si sarebbe svolto il 16 aprile.

I cambiamenti più rilevanti riguardano la trasformazione della Turchia in una Repubblica presidenziale, con un forte accentramento di poteri non bilanciati né dal parlamento, né dagli organi giudiziari.
Vediamoli nel dettaglio:

– É stata abbassata da 25 a 18 anni l’età necessaria per essere eletti in parlamento. Ne consegue, che in un paese dove non è prevista l’obiezione di coscienza, i parlamentari diventeranno esenti dall’obbligo di fare il militare.

– Il Presidente della Repubblica da solo potrà nominare e revocare i Ministri oppure sopprimere un Ministero. Non ci sarà più bisogno del voto di fiducia per dare legittimità al governo, che sarà espressione diretta del presidente. Anche l’indizione di elezioni anticipate diventerà molto difficile.

– Il Presidente della Repubblica ha il diritto di non riconoscere il Parlamento eletto e di far ripetere le elezioni.

– Il Presidente della Repubblica può presentare ed emanare i decreti di legge senza chiedere il parere del Parlamento.

– Il Presidente della Repubblica ha il comando supremo delle forze militari del Paese.

– Il Presidente della Repubblica può dichiarare lo stato d’emergenza senza chiedere il parere del governo o del parlamento e senza limiti per la proroga dello stato di emergenza.

– Il Presidente della Repubblica potrà nominare e licenziare gli amministratori e i dirigenti di diversi enti pubblici, quindi avrà un potere decisionale nell’istruzione, arte, economia, media, sicurezza nazionale, previdenza sociale.
– Il Consiglio Superiore dei Giudici e dei Pubblici Ministeri (HSYK-HSK) sarà presieduto dal Ministro della Giustizia ed un suo membro apparterrà allo stesso Ministero, tre altri membri saranno nominati dal Presidente della Repubblica e gli altri membri dalla maggioranza del Parlamento.

– Il bilancio sarà preparato e presentato al Parlamento dal Presidente della Repubblica che potrà porre il veto sulla sua approvazione.

– Se il Presidente della Repubblica fosse sotto indagine, l’unico luogo in cui dovrà presentarsi, dopo una lunga e difficile fase di votazione parlamentare, sarebbe la Corte Costituzionale, ossia l’organismo i cui membri sono per la maggior parte nominati dallo stesso Presidente della Repubblica.

La Turchia da domenica è una dittatura elettiva. Come la Germania ai tempi di Adolf Hitler.

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Il pacchetto di Minniti su immigrazione e “sicurezza urbana”

Non ci sono ancora i testi dei due nuovi decreti legge su immigrazione e sicurezza urbana approvati dal Consiglio dei ministri. Potremo valutarne a pieno la portata solo quando potremo conoscerne gli ambiti di applicazione. Un fatto tuttavia è certo. Sul fronte della guerra ai poveri il governo si è dotato di nuove armi.

I CIE cambiano nome e diventano CPR, centri per il rimpatrio, ma la sostanza non cambia. Ce ne sarà uno per ogni regione. L’unica novità è che dovrebbero essere più piccoli e sorgere lontani dai centri urbani, “vicini agli hub di comunicazione”. Oggi quelli rimasti aperti dopo le rivolte sono solo quattro.
Minniti ha annunciato che i fondi per i rimpatri assistiti saranno raddoppiati.
Stretta anche per i profughi, cui viene negato il diritto al ricorso in caso di respingimento della domanda di asilo. In compenso i richiedenti asilo potranno riempire il tempo, in attesa della sentenza sul loro futuro, lavorando gratis, “in favore delle collettività locali”. Ogni comune, in accordo con la Prefettura locale, potrà richiederne l’impiego per attività di “pubblica utilità”. Le cooperative che gestiscono i profughi non garantiscono i loro diritti? Non gli insegnano la lingua, non offrono assistenza legale? Non importa! Grazie al nuovo governo i profughi saranno “messi al lavoro” volontariamente. Quanti si negheranno, nell’illusione che qualche mese di lavoro al verde pubblico o per le strade possa “fare curriculum” per le commissioni territoriali?

Appena respinta la domanda di asilo si perde ogni diritto all’accoglienza: così le strutture hanno più spazi per i nuovi arrivati. Minniti spinge nella clandestinità e getta in strada migliaia di persone e chiama tutto questo “sicurezza”.

Il daspo dei sindaci, il provvedimento adottato dal ministero dell’Interno, per garantire “il decoro urbano” ha caratteri più fumosi.

“Di fronte a reiterati elementi di violazioni di alcune regole in un determinato territorio – ha spiegato Minniti – le autorità possono proporre che chi li ha commessi non possa più frequentare quel determinato territorio”.

Secondo i giornali potrebbe scattare il daspo sull’intera città o per specifici luoghi o quartieri, “di fronte a reiterati elementi di violazioni di alcune regole in un determinato territorio”.

Quali regole? Certo non quelle del codice penale che hanno un proprio ambito di applicazione. Secondo la stampa nel mirino ci sarebbero accattoni, writer, prostitute, gente che bivacca. Poveri ed irregolari. Forse anche chi, nelle città, lotta con i poveri e gli irregolari che cercano di aprirsi spazi di vita. Questi decreti si basano, come diversi altri dispositivi già adottati, alla logica del diritto penale del nemico.

Il ministro vuole attuare le stesse politiche auspicate dalle destre xenofobe senza usare il loro linguaggio.

E dice: “non abbiamo bisogno di sindaci sceriffi o di un ministro dell’Interno sceriffo, abbiamo bisogno di cooperazione tra territorio e Stato”
Nella conferenza stampa di presentazione dei due decreti, ha esordito dichiarando che “la sicurezza urbana va intesa come un grande bene pubblico”.
La neolingua del ministro dell’Interno ha il sapore acre della burocrazia che trita le vite delle persone per il bene di tutti.

Ascolta la diretta dell’informazione di radio Blackout con Eugenio Losco, avvocato milanese, che cura la difesa di migranti e compagni.

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Referendum, complotti e altre narrazioni

“Triste il tempo che ha bisogno di eroi”. Lo diceva il Galileo immaginato da Brecht, un uomo che avrebbe voluto vivere un’epoca in cui non dovesse scegliere tra la vita e l’abiura della propria dignità umana. Sappiamo che Galileo scelse di vivere e non possiamo permetterci di biasimarlo.
I nostri tempi sono tanto lontani da quelli dell’astronomo che vide come giravano il sole ed i pianeti, ma negò quel che sapeva, da costringerci a formulare un differente lessico per raffigurarli.
Sono tuttavia tempi tristi.
L’epopea eroica dei nostri giorni è racchiusa in narrazioni su cui è una bestemmia chiedere l’onere della prova .

La Costituzione nata dalla Resistenza è uno di questi. I sostenitori del rigetto della riforma costituzionale bocciata dal referendum confermativo del 4 dicembre, hanno sostenuto che la lotta partigiana, la Resistenza al nazifascismo, hanno costituito il cemento della carta costituzionale. Cambiarla avrebbe significato tradire la Resistenza.
Così il no al Referendum è diventato per certa sinistra una crociata antifascista.
Questo racconto trae il proprio alimento da un sentire diffuso, difficile da interrogare con le mere armi della critica, nei fatti impermeabile perché si nutre di una Resistenza ormai mitica e, quindi, storicamente inattingibile.
Tuttavia l’epopea partigiana è ed è stata nocciolo sentimentale di tante esperienze diverse, da consentire, anche sul piano inclinato della retorica, di cogliere linee di cesura, capaci di incrinare il Mito, facendo riemergere se non la storia, una memoria non condivisa e pacificata. Quella della lotta antifascista dagli anni Venti alla seconda metà degli anni Quaranta, quella di chi, riconoscendosi nella componente rivoluzionaria dell’epopea partigiana, ha intrecciato i fili delle lotte di ieri con quelle di oggi.
Una parte importante di quelli che hanno combattuto il fascismo e la dittatura erano internazionalisti che lottavano perché la resistenza al fascismo si trasformasse in rivoluzione.
Nessuno di loro si sarebbe identificato tra i padri e le madri della Repubblica nata dalla Resistenza, perché nessuno di loro voleva una società di classe, perché molti rigettavano il patriottismo, lo stato e la sua pretesa di avocare a se il monopolio della violenza.
Come è finita è noto. La Resistenza venne disarmata e poi imbalsamata nella guerra di liberazione nazionale. I partigiani che continuarono la lotta dopo il 25 aprile, quelli che l’avevano iniziata ben prima dell’8 settembre 1943, finirono in carcere, mentre Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista e ministro della giustizia, firmava l’amnistia per i fascisti. Tutto cambiò, ma molto di quello che contava rimase come prima.
La lunga teoria di stragi di Stato che ha segnato il percorso della Repubblica nata dalla Resistenza, ne è il segno, perché la stessa funzione pacificatrice della socialdemocrazia in salsa PCI, stentò ad imporsi in un paese, dove forte era la tensione a volere di più che la fine della guerra e del fascismo, in un paese dove i fascisti, sconfitti, ma saldamente ai loro posti nei gangli della macchina statale, continuarono ad operare.
Un riferimento ideale alla Resistenza che non ne ha saputo/voluto cogliere le fratture si è trasformata in mero espediente retorico utile all’ammucchiata referendaria, del tutto vano in una prospettiva di radicale trasformazione sociale.
Tanto vano da non cogliere che la crociata per la Costituzione era in ritardo di qualche anno e che i centralisti di ieri si trasformavano oggi nei fautori della devolution, imposta a suo tempo dalla Lega per mantenere l’alleanza con il carrozzone berlusconiano. Incredibile poi il silenzio sull’introduzione nel dettato costituzionale del pareggio in bilancio, che pure mise sotto scacco la pretesa di usare i soldi che lo Stato ricava dalla tassazione per i fini mutualistici cui allude la stessa Costituzione: salute, istruzione, mobilità pubblica.
Nei fatti la distanza tra la costituzione formale e quella reale è sempre stata grande. L’Italia è in guerra da trentacinque anni, senza che queste guerre siano mai state proclamate. Di fronte alla durezza di questo fatto, che importanza poteva avere lo snellimento della procedura per dichiarare guerra? Si trattava di un semplice adeguamento della Costituzione formale a quella reale.
Le leggi, quelle generali che definiscono l’ordinamento dello Stato, come quelle ordinarie, sono spesso niente più che la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società. Non solo. La codifica in legge delle istanze dei movimenti popolari imbriglia le tensioni che si sono espresse con forza dirompente, rinchiudendole in una gabbia normativa.
Il job act renziano è il momentaneo punto di approdo di tre decenni di smantellamento di un sistema di tutele e garanzie, che fu il precipitato normativo di lotte le cui ambizioni erano ben più ampie. L’esaurirsi della spinta propulsiva di quelle lotte ha aperto la strada alla reazione.
Più in generale la Costituzione della Repubblica Italiana difende la proprietà privata, affida allo Stato il monopolio legittimo della violenza, garantito da polizia e forze armate, prevede tribunali, carceri, guerre, confini.

La parabola discendente dei No Tav
A Torino il Procuratore Capo Spataro, successo a Caselli nel perseguire i resistenti della Libera Repubblica della Maddalena, si era schierato apertamente per il no alla riforma costituzionale. Anche l’Anpi che, tranne in poche sezioni, ha condannato i No Tav, ha fatto la stessa scelta.
Le linee di cesura erano chiare nel 1945, lo sono ancora oggi per chi le vuole vedere.
Alla Maddalena di Chiomonte nella primavera del 2011 visse una Libera Repubblica, il cui richiamo ideale alle repubbliche partigiane era forte. E forte era la consapevolezza che la sottrazione di una porzione di territorio al controllo dello Stato e alle brame dei padroni amici del governo era un gesto sovversivo, radicale. Chi sedeva sulle poltrone di palazzo Chigi non poteva permetterlo: in gioco c’era ben più che un lucroso affare di treni. La libera Repubblica di Chiomonte era un avamposto resistente di pochi chilometri in mezzo ai monti, ma alludeva sul piano simbolico e reale, alla possibilità che si potesse fare a meno dello Stato, del capitalismo, della polizia, dell’esercito.
Il primo gesto della polizia dopo lo sgombero e l’occupazione fu issare alta sul piazzale del museo archeologico, vuotato e trasformato in bivacco per le truppe di occupazione, una bandiera tricolore, simbolo della Repubblica nata dalla Resistenza.
A cinque anni da quella primavera di lotta, un movimento in chiara difficoltà, si è rifugiato nella battaglia referendaria, accanto al capo della Procura di Torino. E a tanti altri, persino peggiori.
Mala tempora currunt.
Triste è il tempo che ha bisogno di miti vacui, rappresentazione di scenari costruiti a tavolino per tentare di coprire un enorme vuoto. Quello delle lotte, di prospettive di cambiamento che ri-consegnino a ciascuno la facoltà reale di decidere.
Oggi il movimento No Tav si presenta alle sfide del prossimo anno indebolito da scelte che lo hanno logorato, ma rispondono alla decisione di un ceto politico minoritario di giocare un ruolo, facendo leva sulla possibile affermazione elettorale del Movimento Cinque Stelle.
Complotti e illusioni
Se il richiamo al mito resistenziale è stato il cemento sentimentale, la caduta del governo, che ha profanato la sacralità della Resistenza, era l’obiettivo concreto, sul quale coagulare un fronte ampio.
Renzi, tradito dalla propria arroganza, ha gettato sul piatto la poltrona di primo ministro, lanciandosi nella bocca del leone.
La minoranza del PD è riuscita nell’intento di indebolirlo, senza tuttavia riuscire a dare la spallata. Il governo Gentiloni, pur con qualche spostamento di poltrone, garantisce la continuità con le politiche governative.
Nei fatti la partita istituzionale si giocherà intorno alla legge elettorale, che ognuno vorrebbe formulata secondo i sondaggi e le possibili alleanze del momento.
Le destre, messe nell’angolo dalla perdurante anomalia grillina, che in parte ne ha mutuato i programmi e gli obiettivi, speravano in un rilancio, forti del vento che spira dall’Europa, che tuttavia potrebbe continuare a gonfiare le vele dei pentastellati.
La formazione di Grillo, nonostante inchieste, avvisi di garanzia e giravolte politiche forsennate, si mantiene forte nei sondaggi, grazie al rafforzarsi della teoria del complotto contro i Cinque Stelle. La giunta Raggi imbarca una carrettata di attrezzi delle vecchie amministrazioni di centro destra? Cambia assessori con la stessa velocità con cui si cambiano le salviette a tavola? Non riesce a far uscire un bilancio che stia in piedi? Tutta colpa del grande complotto. Lo ha detto chiaro la parlamentare grillina Paola Taverna, che, incurante del ridicolo, ha parlato di “complotto per far vincere i Cinque Stelle a Roma”, nella speranza che, fallendo a Roma, non riescano ad approdare a Palazzo Chigi.
Le amministrazioni pentastellate non mantengono gli impegni presi in campagna elettorale? Tutta colpa di chi c’era prima. O, e questo è l’argomento più curioso, tutta colpa delle leggi che pongono limiti, freni, vincoli. Tutta colpa dei media, che puntano i riflettori sulle amministrazioni pentastellate, tutta colpa dei poteri forti, che complottano per impedire la rivoluzione grillina.
Il grande complotto contro i cinque stelle non è solo la boutade di Paola Taverna, ma la grande muraglia che protegge i pentastellati, che impedisce di misurare la distanza crescente tra il dire e il fare.
Il complottismo è il rifugio degli sciocchi. Quando dilaga, quando diviene sentire comune, trasformandosi in paranoia, in ossessione persecutoria, in assillo costante, diventa pericoloso. La paura è l’arma dell’estrema destra, che si nutre di complotti. Quello delle banche, della trilaterale, dei Rothschild e dei Soros.
Nelle settimane che precedevano il referendum del 4 dicembre il web è stato invaso di notizie di brogli, di schede già votate, di congiura del silenzio e omertà per favorire Renzi.

Nel frattempo Grillo ha ripreso le redini, ha allentato la morsa giustizialista sui suoi, introducendo una sorta di garantismo, moderato dal leader maximo e dalla Casaleggio Associati. L’ultima giravolta è quella europea: il repentino passaggio dagli antiuropeisti, xenofobi, nazionalisti di Farage ai Democratici Liberali vicini a Monti e Prodi. Triplo salto mortale con atterraggio a sorpresa.
I liberal-democratici dell’Alde, dopo aver flirtato con Grillo, lo hanno lasciato a terra. Il comico, incurante del ridicolo, ha inveito contro il grande complotto.

Altro ingrediente fisso nel minestrone pentastellato sono i flussi migratori. Grillo non manca mai di condire i suoi discorsi con feroci dichiarazioni contro l’immigrazione clandestina.
La comunicazione è il suo mestiere e sa farlo bene. Solletica le destre equiparando i senza carte con i terroristi, ben sapendo che anche a sinistra questo è un nervo scoperto. Coccola anche la sinistra, schierandosi contro i CIE. Coltiva, barcamenandosi tra destra e sinistra, la paura.
La grande paura, quando si insinua nel profondo della società, è all’origine di un desiderio di ordine, pulizia, protezione, che le destre xenofobe incarnano alla perfezione in tutta Europa. In Italia, nonostante il successo della Lega in versione Salvini, l’esperienza di governo ha logorato le formazioni di destra e quelle di sinistra, suscitando un desiderio di verginità. I parlamentari pasticcioni delle Cinque Stelle piacciono perché somigliano a chi li vota, piacciono perché pasticcioni, post ideologici, capaci di mescolare difesa dell’ambiente con muri e filo spinato. Seducono gli orfani. Quelli di destra e quelli di sinistra. Sono quelli che vanno oltre gli schieramenti, senza il pesante odore di zolfo che accompagna i rosso bruni.
Nel dissolversi dell’illusione partecipativa pentastellata, ormai ridotta a mera ratifica on line da parte di una compagine accuratamente selezionata dal diarca ereditario Casaleggio, scompare ogni residuo di democrazia informatica sopravvissuto alle vittorie elettorali.
La spinta verso una democrazia radicale, che pure era nel DNA del movimento, è stata annullata senza tuttavia far indietreggiare la compagine grillina, che oggi aspira al governo del paese. E trova insospettabili alleati.
I post-autonomi hanno deciso di candidarsi a punto di riferimento di una galassia extraistituzionale, che possa godere di qualche patronage da parte di un governo pentastellato.
Gli antagonisti volevano far cadere Renzi per spingere Grillo.
Il rischio, forse consapevole, del caos sistemico, li attrae, come qualche anno fa i forconi tricolori per le strade di Torino. Camminare sul filo è eccitante ma rischioso.
Imitare Togliatti e il vecchio PCI è la tentazione ricorrente degli antagonisti del terzo millennio, accecati dalla follia del ritorno di un passato che (fortunatamente) non ritorna. Giocano la loro partita tra penetrazione nelle cooperative, festival come quello dell’Unità, flirt istituzionali e movimenti sociali.
Su quest’insieme eterogeneo di pratiche imprimono il marchio del realismo contro l’utopia vana, “ideologica”, di chi non ha accettato il gioco e ha scelto il rifiuto. Il rifiuto di cacciare Renzi per far governare Di Maio.
Il gioco non è riuscito. Il “no sociale” non ha trovato piazze da riempire o lotte da cavalcare.

Resta, amaro, il sapore di un tempo che si nutre di narrazioni tristi.

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Minniti. Il figlioccio di Cossiga

Chi è il nuovo ministro dell’Interno? L’uomo che vuole riaprire i CIE, altri 16 oltre i 4 ancora funzionanti a singhiozzo? Uno dei suoi primi atti è stato un tour nel Mediterraneo per trattare con i vari governi il blocco delle partenze e il rimpatrio rapido dei migranti indesiderati.
Antonio Mazzeo sul suo blog ne traccia un lucido profilo.

Ve proponiamo di seguito alcuni stralci:
“(…) La promozione di Domenico “Marco” Minniti da sottosegretario con delega ai servivi segreti a ministro dell’Interno rappresenta una novità più che inquietante alla luce dei nuovi programmi di contrasto delle migrazioni “irregolari” o di gestione dell’ordine pubblico e repressione del dissenso. Non è certo un caso, poi, che il cambio al Viminale avvenga alla vigilia dei due appuntamenti internazionali che hanno convinto a rinviare sine die la fine della legislatura: la celebrazione del 60° anniversario della firma del Trattato istitutivo della Cee (il 25 marzo a Roma), ma soprattutto il vertice dei Capi di Stato del G7 a Taormina il 26 e 27 maggio. Marco Minniti, di comprovata fede Nato, vicino all’establishment ultraconservatore degli Stati Uniti d’America e alle centrali d’intelligence più o meno occulte del nostro Paese appare infatti come il politico più “adeguato” per consolidare il giro di vite sicuritario sul fronte interno e strappare a leghisti e centrodestra il monopolio della narrazione sul “pericolo” immigrato. Curriculum vitae e trame tessute in questi anni ci spiegano come e perché.
Originario di Reggio Calabria, una laurea in filosofia e una lunga militanza nel Pci prima, nel Pds e nei Ds dopo, nel 1998 Minniti viene chiamato a ricoprire l’incarico di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (premier l’amico Massimo D’Alema), anche allora con delega ai servizi per le informazioni e la sicurezza; l’anno seguente, con le operazioni di guerra Nato in Serbia e Kosovo, Minniti assume il coordinamento del Comitato interministeriale per la ricostruzione dei Balcani. Nel 2001 viene eletto per la prima volta alla Camera dei deputati e con la costituzione del governo Amato, è nominato sottosegretario alla Difesa per la cooperazione militare con Ue, Nato e Stati Uniti e la promozione dell’industria bellica (ministro Sergio Mattarella).Con il ritorno di Silvio Berlusconi alla guida di Palazzo Chigi, Minniti assume il ruolo di capogruppo Ds in Commissione Difesa e componente della delegazione italiana all’Assemblea dei parlamentari presso il comando generale della Nato. A Bruxelles il politico calabrese fa da relatore del gruppo di lavoro sull’Europa sud-orientale e la partnership Ue-Nato, perorando l’ingresso nell’Alleanza di Albania, Croazia e Macedonia. Nel novembre 2005 è Minniti a presiedere ilconvegno nazionale Ds su “difesa e industria bellica in Italia”, relatori, tra gli altri, ministri, capi delle forze armate e manager delle holding belliche. “Chiedo un maggiore impegno a sostegno del complesso militare-industriale, per ottenere finanziamenti aggiuntivi per nuovi sistemi d’arma e rafforzare la difesa europea con la costituzione di battaglioni da combattimento che si coordino con la Forza di pronto intervento Nato”, fu l’accorato appello di Minniti ai compagni di partito.
Con Romano Prodi alla guida del governo (2006), Minniti torna a fare il viceministro dell’Interno dedicandosi in particolare alle prime “emergenze” sbarchi di migranti in sud Italia. L’anno dopo, l’(ex) fido dalemiano offre il proprio appoggio nelle primarie per la scelta del segretario del neonato Pd a Walter Veltroni e ottiene l’incarico di segretario regionale in Calabria. Rieletto alla Camera nel 2013, Minniti è nominato sottosegretario della Presidenza del Consiglio da Enrico Letta, con delega ai servizi segreti, incarico confermatogli dal successore Renzi. La guerra a tutto campo contro il “terrorismo islamico” diviene un pallino fisso del capo politico dell’intelligence. Il 1° settembre 2016 a Palazzo Chigi s’insedia un’inedita creatura di Minniti: la “commissione di studio sul fenomeno dell’estremismo jihadista”. Coordinatore il prof. Lorenzo Vidino, docente alla George Washington University (accademia privata che ha forgiato alcuni potenti funzionari del dipartimento di Stato Usa e della CIA), in commissione siedono docenti di atenei italiani, la ricercatrice dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv Benedetta Berti e alcuni noti editorialisti come il direttore diLimes Lucio Caracciolo, Carlo Bonini di Repubblica e Marta Serafini del Corriere della Sera. Nei giorni scorsi Minniti e Gentiloni hanno presentato una prima elaborazione del pool di esperti. “I percorsi di radicalizzazione si sviluppano soprattutto in alcuni luoghi: nelle carceri da un lato e nella rete web dall’altro”, ha spiegato Gentiloni. “Insieme alla vigilanza massima e alla prevenzione per il rischio che la minaccia si riproponga, il governo è impegnato su politiche migratorie che devono coniugare l’attitudine umanitaria con politiche di rigore ed efficacia nei rimpatri”. Meno diplomatico il neoministro Minniti che ha preferito ai rimpatri la declinazione “espulsione”, preoccupato per il “pericolo crescente” della connectionmigranti irregolari – terrorismo. Con l’obiettivo di accelerare le espulsioni e rafforzare il controllo militare alla frontiera meridionale, Marco Minniti ha pianificato un tour mediterraneo per incontrare capi di Stato e ministri. I primi di gennaio si è recato a Tunisi e Tripoli per discutere di cooperazione bilaterale contro l’immigrazione clandestina e la “minaccia terroristica”. La missione in Libia, in particolare, segna “l’inizio di una nuova fase di cooperazione tra i due Paesi”, dicono dal Viminale: Minniti e al Sarraj hanno concordato l’impegno ad affrontare insieme ogni forma di contrabbando e protezione delle frontiere, in particolare al confine meridionale, quello con Ciad e Sudan. Sempre a gennaio Minniti si recherà a Malta e in Egitto. Il governo chiede ai paesi nordafricani e ai partner sub-sahariani (Niger, Ciad, Somalia, Nigeria, Mali, Senegal) d’implementare i programmi elaborati in ambito Ue per impedire – manu militari – che i migranti provenienti dalle zone più interne del continente raggiungano le coste del Mediterraneo, creando altresì in loco grandi centri-hub di “assistenza e rimpatrio” di chi fugge da guerre e carestie. Alle onerose missioni navali per intercettare i barconi di migranti, il Viminale preferirebbe invece puntare sull’uso di sofisticati apparati d’intelligence, come ad esempio i satelliti militari Cosmo Skymed e i droni, sia quelli spia che armati, “strumenti fondamentali in ogni contesto asimmetrico”.
Per coloro che riusciranno a portare a termine dolorose odissee nel deserto e pericolose traversate in mare, onde “prevenire e reprimere” ogni possibile collegamento tra il fenomeno dell’immigrazione clandestina e il terrorismo, Marco Minniti prevede un ulteriore giro di vite in termini di indagini, identificazioni e prelievo forzato di impronte digitali, possibilmente anche le schedature informatiche biometriche e del dna. “Dobbiamo ricondurre a unità il duplice problema della minaccia terroristica interna fatta di foreign fighters e potenziali lupi solitari e, dall’altra parte, del contrasto all’Isis attraverso un’efficace gestione dei flussi migratori che ne arricchiscono le finanze”, scrivono i più stretti collaboratori del ministro. Una prima bozza di piano anti-migranti 2017 è stata presentata a fine anno da Minniti e dal capo della Polizia Franco Gabrielli. Annunciando una “stagione di tolleranza zero”, si punta a raddoppiare in pochi mesi il numero delle espulsioni grazie al coinvolgimento delle forze dell’ordine e degli enti locali. In tutto il territorio nazionale saranno istituiti nuovi centri di identificazione ed espulsione “da 80-100 posti al massimo”, confinanti con porti e aeroporti. “In questi nuovi Cie saranno trattenuti solo gli immigrati irregolari che presentino un profilo di pericolosità sociale, come spacciatori o ladri”, annuncia il Viminale. Rimpatri volontari o assistiti e “lavori socialmente utili” per i sempre meno numerosi migranti “regolari” o quelli legittimati a richiedere l’asilo.
L’ennesima controffensiva in nome della sicurezza nazionale e della lotta al terrorismo trova un suo retroterra ideologico nelle elaborazioni della poco nota ma influente Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis), centro studi sui temi d’intelligence costituito a Roma nel novembre 2009 da Marco Minniti e dal Presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga. (…).

Qui potete ascoltare un’intervista a Mazzeo della redazione info di Blackout

Di seguito vi proponiamo una scheda sull’ICSA curata sempre da Mazzeo.

Eterogeneo per ideologie e orientamenti politici anche se in buona parte i cuori battono per l’ordine sociale e la conservazione, il consiglio scientifico della Fondazione ICSA testimonia la portata e la forza della rete di relazioni istituzionali, nazionali e internazionali, realizzata nel tempo da Marco Minniti. Si tratta di una lunga lista di Capi di Stato Maggiore delle forze armate e dell’Arma dei carabinieri; comandanti dei reparti speciali della Nato e dei servizi segreti; segretari e consiglieri militari di presidenti del consiglio e ministri; diplomatici, magistrati, responsabili della security di importanti holding economiche; giornalisti, professori universitari e finanche consulenti e analisti della CIA e dei dipartimenti statunitensi per la lotta al terrorismo.
Coordinatore del Consiglio scientifico della Fondazione ICSA il sociologo Italo Saverio Trento.
Membri
Amm. Gianfranco Battelli, dal 1979 al 1983 a capo del cosiddetto “ufficio I” incaricato della valutazione, produzione e aggiornamento di tutti i documenti d’intelligence della Marina Militare; successivamente capo di Gabinetto del ministero della Difesa e dal 1996 al 2001 direttore del Sismi (i vecchi servizi segreti militari) e infine consigliere della Corte dei Conti.
Amm. Sergio Biraghi, Capo di Stato Maggiore della Marina Militare dal 2004 al 2006 e poi consigliere militare del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Gen. Carlo Cabigiosu, già vicecomandante del Corpo d’Armata di reazione Rapida della Nato in Germania, poi Capo di Stato maggiore del Comando Regionale delle Forze Terrestri Alleate del Sud Europa (il primo generale italiano ad assumere tale carica, da sempre ricoperta da militari Usa), comandante della Forza Nato in Kosovo (2000-01), rappresentante dell’Italia al Senior Official Group (SOG) della Nato per la revisione della struttura di Comando dell’Alleanza e infine consigliere militare della Missione italiana in Iraq (2003-04).
Gen. Vincenzo Camporini, dal 2008 al 2011 Capo di Stato maggiore della difesa e poi consulente dell’allora ministro degli esteri Franco Frattini; oggi è vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali e membro della Fondazione Italia-Usa.

Giovanni De Carli ed Edoardo Esposito, generali della Guardia di Finanza.

Gen. Giampaolo Ganzer, già comandante dei reparti dei Carabinieri impegnati contro la colonna veneto-friulana delle Brigate Rosse e delle teste di cuoio che liberarono il generale Usa James Lee Dozier sequestrato dalle Br a Verona nel 1981. Nel 2002 è stato nominato comandante del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) dell’Arma dei Carabinieri, incarico ricoperto sino al luglio 2012 nonostante la condanna in primo grado a 14 anni per “associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati”, commessi nel corso di alcune operazioni antidroga dei ROS. Dopo la riduzione della condanna in secondo grado a 4 anni e 11 mesi di reclusione, lo scorso anno è scatta la prescrizione per i reati dopo la revisione della Cassazione.

Gen. Fabio Mini, esperto di geostrategia, ex comandante della missione Nato in Kosovo dal 2002 al 2003, autore di articoli per Limes, l’Espresso, la Repubblica e Il Fatto Quotidiano.

Gen. Mario Nunzella, già Capo di Stato maggiore dell’Arma dei Carabinieri, ex consigliere per la sicurezza del Presidente del Consiglio Massimo D’Alema, poi responsabile del coordinamento delle forze di polizia presso il Ministero dell’Interno. Nel giugno 2000 è stato nominato comandante del ROS dei Carabinieri.

Gen. Stefano Panato, ex sottocapo di Stato maggiore dell’Aeronautica (si è interessato ai programmi di sviluppo dei cacciabombardieri Tornado, Amx ed Eurofighter 2000), poi presidente del Centro Alti Studi per la Difesa (CASD), l’organismo di più alto livello nel campo della formazione e degli studi di sicurezza e vicedirettore del Sismi e dell’AISE (l’agenzia che sovrintende alla gestione dei servizi segreti). Dal 1999 al 2002 è stato consigliere militare presso la Rappresentanza d’Italia al Consiglio Atlantico a Bruxelles; oggi ricopre il ruolo coordinatore del Centro Studi Militari Aeronautici (Cesma) “Giulio Dohuet” di Roma.

Gen. Luciano Piacentini, già comandante del battaglione d’assalto “Col Moschin” e successivamente capo di Stato Maggiore della brigata paracadutisti “Folgore” e consigliere per la sicurezza in diverse aree del continente asiatico.

Gen. Sergio Siracusa, prima addetto militare presso l’ambasciata d’Italia a Washington, poi sottocapo di Stato maggiore presso il Comando Forze terrestri alleate del Sud Europa di Verona, direttore del Sismi dal 1994 al 1996, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri dal 1997 al 2002 e infine Consigliere di Stato.

Giancarlo Capaldo, procuratore aggiunto presso il Tribunale di Roma ed ex collaboratore dei ministri della prima Repubblica Sebastiano Vassalli e Virginio Rognoni.

Stefano Dambruoso, ex magistrato a Milano dove ha condotto inchieste sulle cellule anarco-insurrezionaliste e sul terrorismo jidahista in Italia, dal 2008 Capo dell’Ufficio coordinamento attività internazionali del ministero della Giustizia, poi membro del Consiglio direttivo dell’Agenzia per la sicurezza nucleare e dal febbraio 2013 deputato alla Camera, eletto in Lombardia con Scelta Civica e transitato nel gruppo scissionista Civici e Innovatori. Membro anch’egli della Fondazione Italia-USA, nel gennaio 2016, unitamente al parlamentare Pd Andrea Manciulli (presidente della delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare della NATO) ha presentato la proposta di legge “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista”.

Nicola Di Giannantonio, prefetto fuori ruolo presso la Presidenza del Consiglio nel 2000 e successivamente direttore della Sovrintendenza Centrale dei Servizi di Sicurezza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Domenico Vulpiani, prefetto e direttore dell’Ufficio centrale ispettivo del Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, dal 1978 al 1988 responsabile dei servizi di protezione dei Presidenti della Repubblica Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro, di alcuni presidenti del Consiglio e ministri dell’Interno. Dal 1990 al 1996 presso la Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione ha ricoperto diversi incarichi in materia di antiterrorismo; dal 1996 al 2001 è stato a capo della DIGOS di Roma, dal 2001 al 2009 direttore del Servizio Polizia Postale, ufficio specializzato nel contrasto ai crimini postali ed informatici e del Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche del Paese.

Giovanni Castellaneta, già ambasciatore d’Italia negli Usa dal 2005 al 2009 (anni in cui vengono sottoscritti accordi strategici con Washington in campo militare e industriale, come ad esempio la coproduzione dei cacciabombardieri F-35, l’installazione del terminale MUOS a Niscemi e dei droni d’intelligence a Sigonella); successivamente presidente del consiglio di amministrazione di SACE (il gruppo assicurativo-finanziario a favore delle imprese italiane che operano all’estero, interamente controllato dalla Cassa depositi e Prestiti) e membro del Cda di Finmeccanica (l’holding a capo del complesso militare-industriale italiano). È stato inoltre consigliere diplomatico del Presidente del Consiglio Berlusconi e suo rappresentante personale per i Vertici del G8 del 2001 e del 2005.

Guido Lenzi, ambasciatore, già rappresentante permanente presso l’OSCE a Vienna, direttore dell’Istituto Europeo di Studi di Sicurezza a Parigi e consigliere diplomatico presso il ministero degli affari esteri e della difesa.

Andrea Monorchio, originario di Reggio Calabria, ex ragioniere generale dello Stato, docente di materie economiche presso l’Università di Siena e la Luiss di Roma, per alcuni anni presidente del Cda di Infrastrutture S.p.A. (società voluta dal ministero del Tesoro per finanziare le grandi opere pubbliche) e dei collegi sindacali di Eni, Fintecna e Telespazio (gruppo Finmeccanica). Nell’ottobre 2011 è stato nominato vicepresidente della Banca popolare di Vicenza.

Paolo Savona, già direttore generale e poi amministratore delegato della Banca Nazionale del Lavoro (1989-1990), presidente del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (dal 1990 al 1999 e dal 2010 al 2014), dei Cda di holding e società come Impregilo, Gemina, Aeroporti di Roma, Consorzio Venezia Nuova, Banca di Roma, membro dei Cda di RCS, TIM Italia, Capitalia. Savona è stato pure presidente della Commissione d’indagine sul nucleare in Italia e membro delle Commissioni Ortona e Jucci per la riforma dei servizi di sicurezza.

Asher Daniel Colombo e Marzio Barbagli, docenti di sociologia dell’Università di Bologna, consulenti di fiducia del ministero dell’Interno e autori di diverse pubblicazioni sulle migrazioni internazionali e le “relazioni” immigrati-sicurezza-criminalità in Italia.

Salvatore Tucci, docente di Calcolatori elettronici presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università “Tor Vergata” di Roma, dal 1999 al 2008 responsabile del sistema informativo della Presidenza del consiglio dei ministri.

I giornalisti Andrea Nativi direttore della Rivista Italiana Difesa e Carlo Panella ex dirigente di Lotta Continua, collaboratore de Il Foglio e responsabile delle tribune politiche Mediaset, nominato da Marco Minniti quale membro della Commissione di studio sulla Jihad in Italia.

I direttori della security e protezione aziendale, Raffaele Di Lella di ENAC (l’Ente nazionale per l’aviazione civile) e Franco Fiumara delle Ferrovie dello Stato (quest’ultimo ha pure diretto le compagnie della Guardia di finanza di Mondragone e Gela e il Nucleo centrale Polizia tributaria di Roma – Sezione Stupefacenti; nel dicembre 2014 è stato eletto presidente di Colpofer, l’Associazione internazionale dei Capi delle strutture di sicurezza aziendale ferroviaria di 24 paesi e della Polizia dei trasporti).

Luisa Franchina, ingegnere elettronico ed esperta di strategie di sicurezza delle reti e dell’informazione, dal 2011 al 2013 direttrice generale del Nucleo operativo per gli attentati NBCR (nucleari, biologici, chimici e radiologici) presso la Presidenza del Consiglio e successivamente delegata italiana per la Protezione civile presso il comando Nato di Bruxelles.

Gli ispettori generali della Police nationale francese, Hélène Martini (già consigliere tecnico per la sicurezza interna del Presidente della Repubblica) ed Emile Pérez, direttore del Service de Coopération Technique Internationale de Police e presidente di Francopol.

Frances Fragos Townsend, ex consigliere per la sicurezza nazionale e le politiche di lotta al terrorismo del presidente Usa George W. Bush, nonché inviata speciale per le ispezioni alla prigione-lager “Abu Ghraib” in Iraq, nota al mondo per i crimini commessi dai militari statunitensi a danno dei reclusi. Tra il 2006 e il 2007, l’allora vice-ministro all’interno Marco Minniti e il prefetto Carlo De Stefano (al tempo direttore centrale della Polizia di prevenzione e coordinatore del Comitato di analisi strategica antiterrorismo) ebbero modo d’incontrare più volte a Roma e Washington la consigliere Townsend per uno “scambio di informazioni Italia-Usa sulla “minaccia terroristica”.

Kurt Volker, ex ambasciatore Usa alla Nato (su nomina del presidente George W. Bush) ed ex analista internazionale della CIA, managing director del Centro per le Relazioni Transatlantiche alla Johns Hopkins University. Già consulente del senatore ultraconservatore John MacCain e vicedirettore dell’allora Segretario generale della NATO George Robertson (1998-2001), Volker ha ricoperto l’incarico di consulente del Dipartimento di Stato in preparazione dei summit Nato di Praga (2002) e Istanbul (2004).

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Nell’Italia dei voucher

I dati forniti dall’INPS sono secchi ed impietosi. Calano le assunzioni a tempo indeterminato, c’è stata un impennata nell’utilizzo dei vaucher.

Molti ancora non sanno di che si tratti, anche se il meccanismo è da decenni lo stesso: una maniera legale per avere al proprio servizio lavoratori formalmente autonomi in realtà dipendenti precari e senza alcun diritto.
Un collaboratore esterno non necessario licenziarlo: basta comunicare che le sue prestazioni non erano più richieste. Prima dei vaucher c’erano i co.co.co e i co.co.pro. Il “pro” sta per progetto. Se il progetto è finto, ed era sempre finto, il lavoratore poteva impugnare il contratto precario e chiedere l’assunzione. Una vera rogna per i poveri datori di lavoro, impegnati a mantenere intatti i propri profitti in tempi di crisi.
I voucher introdotti con il job act sono la risposta alla angosce degli imprenditori. Formalmente, va da se, sono tutt’altro. Sarebbero un modo per evitare il lavoro in nero, “normale”, quando si assume un lavoratore per una collaborazione breve e occasionale. Il voucher prevede che una parte dei soldi finisca all’INPS. Inutile dire che chi fa un lavoretto continua a farlo in nero: tutti preferiscono incassare tutto e subito, senza gettare nulla nel calderone dell’INPS.

I voucher vengono utilizzati in maniera crescente per pagare i precari, travestiti da lavoratori autonomi.

Lo stesso ministro del lavoro, di fronte ai dati diffusi dall’INPS, ha dichiarato che il “job act è una buona legge”, ma può essere corretta se la pratica evidenzia che qualcosa non funziona.

Chi credesse che Poletti abbia un sussulto di interesse per la condizione precaria si ricreda subito. Presto la Consulta si pronuncerà sull’ammissibilità del referendum sul job act: se dovesse passare potrebbe convenire al governo Gentiloni fare qualche ritocchino alla legge piuttosto che affrontare il verdetto delle urne.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Stefano Capello.

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