Categoria: repressione/solidarietà

Pistole elettriche: tortura di Stato

Il taser, la pistola elettrica, già in uso alla forze dell’ordine di vari paesi, tra cui gli Stati Uniti e la Svizzera, verrà sperimentata anche in sei città italiane.
Il taser, dal nome della più nota delle ditte produttrici, sarebbe un’arma non letale, usata per immobilizzare con il dolore non per uccidere.
La realtà è molto diversa.
Il quadro che emerge dai paesi dove il taser è in dotazione alle forze dell’ordine da un paio di decenni, è molto diverso.
La pistola elettrica, oltre ad essere un evidente strumento di tortura, in più occasioni ha ucciso.
Secondo Amnesty International i morti, solo negli Stati Uniti, sono tra gli ottocento e i mille in meno di vent’anni.
Nel 2007 l’ONU, che certo non può essere sospettata di inclinazioni sovversive, ha dichiarato che il taser è uno strumento di tortura.

Il principio è lo stesso dell’elettroshock: cambia solo la durata della scarica. Chi viene colpito riceve una scarica ad alta tensione e bassa intensità di corrente, che ne paralizzerà i movimenti facendo contrarre violentemente i muscoli.
È stato inventato alla fine degli anni Sessanta, ma i modelli che permettono l’immobilizzazione totale di una persona sono stati progettati a partire dalla fine degli anni Novanta.
La scarica è calibrata sul peso medio delle persone: da 50 a 90 kili. Spesso persone obese, sono state colpite due volte di seguito, perché la prima scarica non era sufficiente a bloccare. La seconda invece è spesso letale. I malati di cuore sono a rischio se colpiti dal taser.

In Svizzera, dove è in dotazione alle autorità cantonali, viene usato per spaventare e torturare i migranti, che protestano contro i rimpatri coatti. La polizia francese lo ha utilizzato alla frontiera di Ventimiglia.

Come tutte le armi “non letali” ha regole d’uso meno rigide rispetto alle armi da fuoco. La consapevolezza degli effetti terribili di questa pistola elettrica e della facilità con cui può essere usata costituisce una minaccia potente.

Il modello più pericoloso è quello a doppia carica, che consente di sparare due scariche consecutive, senza necessità di ricarica. Inutile dire nel nostro paese è stato adottato proprio quello.

In Italia la sperimentazione è partita il 20 marzo in sei province: Milano, Brindisi, Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia. In una seconda fase si andrà a regime in tutta Italia. La procedura coinvolge poliziotti e carabinieri.

Ascolta la diretta di radio Blackout con Robertino Barbieri, di Psycoatthiva

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Argentina. La riforma delle pensioni passa in Parlamento. In migliaia provano ad assaltare il palazzo

La riforma delle pensioni del governo di Mauricio Macrì è stata approvata nella serata del 18 dicembre. Nello stesso giorno era stato proclamato uno sciopero generale, che aveva portato in piazza dalle 250 alle 300 mila persone.
La notte precedente i tamburi dei cacerolazos avevano echeggiato per tutto il paese. Giovedì 14 dicembre il corteo diretto in parlamento era stato attaccato con violenza dalla polizia.
Quattro giorni dopo una manifestazione enorme ha raggiunto il parlamento nel tardo pomeriggio. L’intera area era stata blindata con protezioni metalliche. All’attacco ai blocchi, subito divelti, la polizia ha risposto con cariche di poliziotti in motocicletta che sparavano proiettili di gomma sulla folla. In piazza anche idranti utilizzati per cercare di fermare la folla che continuava ad avanzare.
In più occasioni i manifestanti hanno obbligato la polizia ad indietreggiare. I più decisi sono arrivati a cento metri dall’ingresso.
La gran parte della gente ha resistito in piazza, nonostante l’impiego massiccio di gas lacrimogeni.
La guerriglia urbana è durata diverse ore. La caccia all’uomo anche: circa 80 persone sono state arrestate. Due di loro sono state ferite e sono ricoverate in ospedale: le condizioni di un uno sono molto gravi. Una donna racconta di essere stata investita da una moto della polizia.
Il governo Macrì è riuscito a far passare il taglio delle pensioni, uno degli obiettivi cardine del proprio programma. É riuscito anche a rivitalizzare un’opposizone sociale ampia e sempre più radicale, che è passata dalla difesa all’attacco.
Sapremo presto se quella di ieri sia stata una fiammata isolata o sia il segnale di un’inversione di tendenza, specie rispetto ai sindacati in buona parte asserviti alle politiche governative.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Ivan, un attivista sindacale milanese da tre mesi in Argentina, che ha partecipato alla manifestazione.
L’intervista è stata realizzata prima che terminasse la votazione in parlamento.

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Argentina. Attacco alle comunità mapuche: un morto, due feriti, diversi desaparecidos

Nel pomeriggio di sabato 25 novembre, in Patagonia, diversi corpi della polizia e della gendarmeria nazionale hanno attaccato la comunità Lafken Winkul Mapu, uccidendo a colpi di arma da fuoco Rafael Nahuel e ferendo altri due mapuche, un uomo e una donna, che si trovano in gravi condizioni all’ospedale Ramon Carrillo.
Siamo nei territori contesi di Villa Mascardi, un parco nazionale a pochi chilometri da Bariloche, nota località turistica della Patagonia argentina.

Ascolta l’intervista dell’info di radio Blackout con Ivan, un compagno della Cub trasporti di Milano che si trova da qualche mese in Argentina, dove ha visitato numerose comunità mapuche in lotta.

La Correpi, organizzazione contro la repressione statale e la violenza istituzionale, sostiene che le responsabilità sono interamente dello Stato e del governo. In Argentina la violenza istituzionale colpisce gli attivisti politici ed i poveri. Non si contano i casi di ragazzi uccisi dalla polizia, perché accusati di furti o semplicemente “sospetti”, la pratica della tortura è “normale” nelle camere di sicurezza della gendarmeria.

Ricostruiamo i fatti: il giovedì precedente, mentre in Senato si votava la proroga di altri quattro anni della legge 26/160 che sospende gli sgomberi delle comunità indigene, riconoscendo il diritto al territorio ancestrale in attesa che l’Istituto Nazionale delle questioni indigene concluda il rilevamento delle terre spettanti alle diverse comunità, il giudice Villanueva ordina lo sgombero della comunità Lafken Winkul Mapu. L’occupazione risaliva al 14 settembre.
Lo scontro è sui megaimpianti turistici che le multinazionali e le imprese argentine vogliono costruire nel parco turistico nazionale di Villa Mascardi.
Nella stessa zona è prevista l’apertura di una miniera d’oro e di sfruttamento petrolifero. Non solo. La Patagonia possiede una ricchezza sempre più preziosa, l’oro blu, l’acqua.
I mapuche si battono contro l’intento di mettere a profitto le aree protette, rivendicando il recupero delle terre ancestrali per vivere costruendo una diversa relazione con la natura e il territorio. Conflitti simili investono ampie aree dell’immensa Patagonia e non solo, perché lo scontro attorno all’appropriazione del territorio vede migliaia di comunità indigene in tutto il continente difendersi dall’estrattivismo (miniere, centri turistici, coltivazione estensiva, etc) e rappresenta uno snodo cruciale dei conflitti sociali in America Latina.

Lo stesso giovedì, come afferma l’antropologa Diana Lenton, era previsto un tavolo di negoziazione per risolvere il conflitto. «A tradimento e boicottando qualunque possibilità di dialogo, un enorme dispiegamento di forze dell’ordine ha fatto irruzione nella comunità all’alba, sparando con armi da fuoco e arrestando donne e bambini, detenuti in condizioni illegali per diverse ore» continua l’antropologa argentina. Secondo le testimonianza dei mapuche, una dozzina di uomini della comunità sono fuggiti sui monti a causa della caccia all’uomo violenta della polizia federale, della Gendarmeria e delle forze della Prefettura navale, impiegate congiuntamente con elicotteri e forze speciali. Ieri pomeriggio, tre di loro stavano tornando per ricongiungersi con le loro famiglie e sono stati attaccati con armi da fuoco dalla polizia. Così è stato assassinato Rafael, un giovane dei quartieri poveri di Bariloche, in visita ai parenti nella comunità in lotta, saldatore, falegname e lavoratore precario, un “pibe de barrio”, come lo ricordano gli amici.
L’avvocata della comunità mapuche, Natalia Aranya, ha rilasciato dure dichiarazioni al quotidiano Pagina 12, parlando di una caccia all’uomo razzista e sottolineando le responsabilità del governo nell’operazione che ha coinvolto i gruppi speciali della Prefettura. Dopo la notizia della morte, ci sono state manifestazioni sia davanti all’ospedale che alla sede degli uffici dei Parchi Nazionali, proprietari delle terre contese dalla comunità mapuche. Le forze dell’ordine hanno bloccato le vie di accesso principali e i collegamenti, compresa la Ruta 40, tra le città di El Bolsòn e Bariloche. Alcuni giornali mainstream affermano, senza addurre prove, che sia stato uno scontro a fuoco tra mapuche e polizia. Una caccia all’uomo dopo una repressione violenta contro famiglie che dormivano nelle loro case diventa per i media uno scontro “armato” tra mapuche e polizia. Secondo le organizzazioni dei diritti umani sono le medesime modalità narrative adottate durante la dittatura.

La Marcha de Mujeres Originarias, organizzazione di donne indigene, ha lanciato un appello invitando tutti a denunciare le menzogne e a diffondere la verità dei fatti: «non permetteremo alle menzogne di affermarsi, noi non siamo in guerra con lo Stato, ma è lo Stato argentino che sta applicando misure genocide contro le comunità indigene, questo dovrebbero dire i giornali». Chiediamo sostegno e supporto, vogliamo giustizia, affermano le donne indigene , esigiamo che «cessi immediatamente la violenza assassina contro i nostri fratelli e le nostre sorelle».

Manifestazioni si sono svolte a Buenos Aires e in diverse città della Patagonia per denunciare le responsabilità del governo Macri e del ministro Bullrich. Il sindacato dei lavoratori pubblici ATE ha riferito del fermo del responsabile provinciale e della moglie, liberati poche ore dopo, mentre Sonia Ivanoff, avvocata specialista in diritto indigeno, ha segnalato preoccupazione l’arresto di dei due testimoni dell’omicidio del giovane Rafael Nahuel. «Vogliamo la liberazione e la garanzia di protezione per questi due testimoni chiave, Fausto Horacio Jones Huala e Lautaro Alejando Gozalez» ha dichiarato l’avvocata all’agenzia di comunicazione indipendente Anred.
Dopo la rappresaglia c’è stata un’intensa militarizzazione dell’area: da settimane le organizzazioni dei diritti umani e le comunità mapuche denunciano come dopo «la desapariciòn e la morte di Santiago Maldonado la persecuzione contro i mapuche sia aumentata di intensità così come la violenza delle forze di polizia».

L’intensificazione del conflitto è legata all’aumento della violenza repressiva che negli ultimi due anni, con il governo Macri, è stata diretta in gran parte contro i mapuche identificati come “nemico interno”, in linea con le dichiarazioni del Comando Sud delle forze militari degli Stati Uniti che hanno definito il popolo mapuche una “minaccia terroristica”. Un conflitto che vede da una parte uomini, donne e bambini in lotta per la difesa del territorio e della vita, e dall’altra una nuova ed intensa offensiva politica, economica e militare del capitalismo estrattivo, razzista, patriarcale e coloniale.

Nelle stesse ore in cui avveniva l’attacco alla comunità nei territori contesi di Villa Mascardi, in provincia di Buenos Aires si stava svolgendo il funerale di Santiago Maldonado, desaparecido durante una rappresaglia della gendarmeria nella comunità mapuche Pu Lof Cushamen il 1 agosto scorso. Il suo cadavere venne ritrovato 78 giorni dopo nel fiume Chabut, 300 metri a monte dal punto in cui i mapuche sotto attacco attraversarono il corso d’acqua.
Durante l’attacco alla comunità i suoi compagni videro che Santiago Maldonado veniva preso e fatto salire a forza su un furgone bianco dalla polizia.
La scomparsa di Maldonado aveva suscitato ampie proteste in tutta l’Argentina: decine di migliaia di persone avevano manifestato il primo settembre e il primo ottobre a Buenos Aires.
Il ragazzo è stato seppellito dopo un mese di attesa dei risultati dell’autopsia, che ha stabilito che Santiago è morto per asfissia da annegamento, ma non le modalità della desapariciòn.
Dall’inchiesta del giornalista Ricardo Ragendorfer pubblicata su Tiempo Argentino e altri quotidiani, emerge che l’autopsia ha stabilito che il corpo di Santiago non era restato più di 5 o 6 giorni in acqua al momento del ritrovamento. Ne consegue che è stato “illegalmente” trattenuto da qualche parte per diversi giorni.
Alla luce di questi fatti potrebbero emergere responsabilità più dirette di Benetton, la multinazionale italiana proprietaria di oltre 900.000 ettari in territorio mapuche.
Secondo Ragendorfer, l’unica cella frigorifera della zona capace di conservare un cadavere per diversi giorni si troverebbe proprio all’interno di una delle tenute di Benetton, denominata “Cabania Leleque”. Inoltre, rivela sempre Ragendorfer, la Gendarmeria possiede una base logistica informale dentro la stessa tenuta di Benetton da almeno 20 anni, grazie a un accordo firmato durante il governo di Carlos Menem tra Carlo Benetton, la Secretaria de Seguridad de la Nacion e la provincia di Chubut.
Ragendorfer ha anche rivelato che parte delle prime indagini “ufficiali” hanno avuto l’epicentro logistico proprio a Leleque. Da lì partirono buona parte dei gendarmi che tra il 10 e il 12 gennaio scorso sgomberarono in modo violento la comunità Mapuche di “Lof en Resistencia” di Cushamen. Ragendorfer inserisce un tassello chiave per dimostrare le eventuali la complicità dirette di Benetton nella desaparición forzada di Santiago: il 17 ottobre scorso, il giudice avrebbe ordinato, insieme al rastrellamento della zona in cui comparve il corpo, una perquisizione legale de la “Cabania Leleque” dei Benetton e di alcune delle zone adiacenti. Difficile pensare che sia stato per mera coincidenza che il corpo di Santiago sia ricomparso proprio quel giorno. Dopo il ritrovamento, naturalmente, la perquisizione venne cancellata.

Un presidio di solidarietà con la lotta delle comunità mapuche resistenti e di denuncia delle responsabilità dello Stato argentino e di Benetton nella violenta repressione in atto si svolgerà a Torino il 22 dicembre di fronte al negozio Benetton di via Roma 121 – vicino a piazza San Carlo.

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Milano e Torino. Dov’è Santiago Maldonado? Le maglie di Benetton sono sporche di sangue

Milano e Torino. Dov’è Santiago Maldonado? Le maglie di Benetton sono sporche di sangue
A due mesi dalla sparizione forzata di Santiago Maldonado nella Patagonia argentina, per mano della gendarmeria che perquisiva la comunità mapuche Lof de Resistencia a Cushamen, sabato 30 si è tenuta a Milano, di fronte al negozio della Benetton, nel frequentatissimo corso Buenos Aires, una manifestazione/presidio – organizzata dalla Rete, antiautoritaria e autonoma, solidale col popolo mapuche – per denunciare la responsabilità della multinazionale a guida italiana in questo misfatto, sostenere la lotta dei familiari di Santiago ed esigere dal governo argentino una risposta immediata. Insieme ad altre realtà del movimento libertario, hanno partecipato compagne e compagni della federazione anarchica milanese portando la loro solidarietà.

Santiago Maldonado, un giovane libertario di 28 anni, è stato visto per l’ultima volta lo scorso primo d’agosto, mentre solidarizzava con la protesta della Resistenza Ancestrale Mapuche. I mapuche, con i quali manifestava Santiago Maldonado, chiedevano la liberazione di Facundo Jones Huala, attivissimo esponente del movimento di riappropriazione delle terre espropriate ai mapuche, ora appartenenti alla famiglia Benetton, individuata come mandante della repressione governativa sia in Cile che in Argentina contro questo popolo, storico e originario abitante delle terre patagoniche. Nel corso del violento attacco della gendarmeria alla comunità mapuche e ai solidali, Santiago è scomparso.

Le operazioni di polizia erano coordinate da Pablo Noceti, capo-Gabinetto della ministra degli Interni Patricia Bullrich e uomo che ha simpatizzato con il passato regime militare.

Le possibilità di trovare Santiago in vita sono ormai molto poche; sulla presidenza di Mauricio Macri pende l’accusa di un vero e proprio omicidio politico, come ai tempi del regime militare di Videla-Massera-Agosti, responsabile della sparizione e della morte di trentamila persone.

Intanto in Argentina si susseguono le manifestazioni – ultima quella di domenica primo ottobre a Buenos Aires – e in tutto il mondo si registrano proteste e prese di posizione al grido di “Donde està Santiago Maldonado?”

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Massimo, un compagno di Milano.

Anche a Torino, il 14 settembre un nutrito gruppo di compagn* si è dato appuntamento di fronte al negozio Benetton di via Roma.
Di seguito il volantino distribuito per l’occasione dalla Federazione Anarchica di Torino.

Le maglie Benetton sono sporche di sangue

Dov’è Santiago Maldonado?

Desaparecido. Scomparso. Questa parola viene usata solo in spagnolo, perché solo in questa lingua assume il significato che hanno saputo imprimerle i regimi autoritari che negli anni Settanta hanno insanguinato l’America Latina.
In Argentina durante la dittatura di Videla sparirono circa 30.000 persone. Sequestrate, torturate per settimane, mesi, infine gettate in mare ancora vive da aerei militari.
I figli delle prigioniere incinta nacquero in galere segrete come l’ESMA, vennero presi dagli aguzzini dei loro genitori che li spacciarono per propri.

Pochi sanno che nei decenni trascorsi dalla fine della dittatura ci sono stati 310 desaparecidos. Desaparecidos della democrazia. Di loro non si sa più nulla.
Il primo agosto la stessa sorte è capitata a Santiago Maldonado, che lottava a fianco dei Mapuche della Patagonia argentina e cilena contro la multinazionale italiana Benetton.
Le terre mapuche, sfruttate in passato da compagnie inglesi, dal 1990 sono di proprietà di Benetton, che le ha trasformate in enormi pascoli per pecore da lana.
Uno dei tanti casi di land grabbing, furto legale di enormi porzioni di territorio, sottratte alle popolazioni che ci vivevano. La forma “moderna” del colonialismo.
Dal primo agosto Santiago è scomparso, “desaparecido”, inghiottito da un potere che non guarda in faccia nessuno, pur di continuare a fare affari.
Quel giorno si trovava a Pu lof en resistencia a Cushamen, quando un centinaio di poliziotti in assetto antisommossa hanno fatto irruzione, sparando proiettili di gomma e di piombo.
La gente è fuggita attraversando il fiume per ripararsi dalle pallottole. Santiago non è riuscito a guadagnare l’altra sponda e si è nascosto dietro ad un albero. Qui i suoi compagni hanno sentito i poliziotti gridare che ne avevano preso uno. Caricato su un mezzo della polizia non è più stato visto. La polizia nega di averlo arrestato.

Soraya Maicoño quel giorno si trovava per strada ed è stata fermata e trattenuta per sei ore sulla ruta 40, mentre la Gendarmeria reprimeva la comunità Pu Lof. Ha visto Pablo Noceti, capo di Gabinetto del Ministero di Sicurezza della Nazione, passare più volte di lì.
Ha anche notato che tra i pick-up che si dirigevano a Pu Lof c’erano anche quelli della tenuta Leleque di Benetton. Entravano nel commissariato, tornavano a Leleque, andavano a Pu Lof. Anche loro davano ordini, indicazioni. Erano al corrente di quello che succedeva. Era già successo il 10 gennaio, quando Ronald McDonald, amministratore generale delle tenute di Benetton, prestò il camion del ranch per trasportare i cavalli che avevano sequestrato ai mapuche.
Prima di entrare nel governo di Mauricio Macrì, Pablo Noceti era stato l’avvocato dei militari accusati di aver partecipato alle torture e alle sparizioni degli oppositori politici e sociali argentini durante la dittatura. Noceti aveva messo in dubbio le prove giudiziarie definendole “una vendetta politica” e mettendo in discussione l’impossibilità della prescrizione per tali crimini.
L’uomo giusto al posto giusto, pronto ad accusare di terrorismo le organizzazioni mapuche, mentre Santiago Maldonado era vittima del terrorismo di Stato. In vesti democratiche.
Il giorno prima del sequestro di Santiago, il 31 luglio, membri delle comunità mapuche protestavano davanti al tribunale federale di Bariloche per l’arresto arbitrario di Facundo Jones Huala: sono stati colpiti dalla Gendarmeria Nazionale e dal reparto di Assalto Tattico della polizia aeroportuale di sicurezza, con proiettili di gomma sparati ad altezza d’uomo. Nove persone sono state arrestate e molte altre sono state ferite.
Il primo settembre centocinquantamila persone hanno attraversato il centro di Buenos Aires, mostrando cartelli e gridando a gran voce “Donde esta Santiago Maldonado?”, “Dov’è Santiago Maldonado?” “Lo abbiamo salutato vivo, vogliamo rivederlo vivo.”

In questi giorni fonti anonime della polizia federale hanno fatto filtrare la notizia non confermata che Santiago sarebbe morto per le torture subite durante la detenzione.
Nella lunga storia della lotta Mapuche per la propria terra, chiare sono le responsabilità dei governi che si sono succeduti.
Altrettanto chiare le responsabilità del gruppo Benetton. Dietro alla facciata antirazzista, ci sono i feroci colonialisti del nuovo millennio.
Le maglie colorate di Benetton si sono macchiate del sangue di tanta gente che lottava. Come Santiago Maldonado.

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Non Una di Meno. Perquisizione per la solidarietà a Laura

Ieri mattina tre esponenti della digos si sono presentati a casa di Francesca, un’attivista di Non Una di Meno di Torino, per una perquisizione domiciliare. Cercavano abiti e cellulare. Il provvedimento è stato firmato dal PM Antonio Rinaudo in seguito alla denuncia per diffamazione presentata da Massimo Raccuia.

Chi è Massimo Raccuia? I muri di Torino e i cartelli portati in piazza dalle femministe parlano chiaro. “Massimo Raccuia” è uno stupratore.
Facciamo un passo indietro. Torniamo al 15 febbraio di quest’anno.
Quel giorno al Tribunale di Torino, un collegio di tre giudici donne, presieduto da Diamante Minucci ha assolto con formula piena Massimo Raccuia, ex commissario della CRI, accusato di violenze e stupro. Nelle motivazioni della sentenza si evince che Laura, la donna che ha accusato il suo collega e superiore alla Croce Rossa, non avrebbe avuto una reazione adeguata alle circostanze. Laura si sarebbe limitata a dire “Basta!” “Basta!”. Non aveva urlato, non si era fatta pestare a sangue. Per il collegio giudicante se non urli, se non c’è il sangue, se ti limiti a dire no, a dire “basta” non c’è violenza, non c’è sopraffazione, non c’è umiliazione.
Non solo.
Le giudici hanno trasmesso gli atti alla Procura per avviare un procedimento per calunnia contro Laura. Quella sentenza è l’ennesima che trasforma la donna stuprata in imputata; ancora una volta i riflettori vengono puntati su chi subisce violenza, mettendone in dubbio la credibilità e scandagliandone la vita privata in ogni particolare..

Per Diamante Minucci e le altre due giudici del collegio, dire “Basta” non è sufficiente. Bisogna gridare, correre a farsi fare un test di gravidanza, farsi lacerare la carne e suon di botte.
Per Minucci e le altre due giudici del collegio il discrimine è il martirio. Se lo stupratore non lascia il segno, se la donna non grida aiuto, allora è chiaro che ci stava.
Raccuia è un dirigente, Laura una precaria, già vittima delle violenze durante l”infanzia. Una storia che somiglia a tante altre: in Italia una donna su tre ha subito molestie o stupri. I violenti giocano sulla paura, sul ricatto del lavoro, dei figli, sulla giusta reticenza delle donne a rivolgersi ai tribunali, dove le loro vite sono frugate ed indagate, dove la loro libertà è sempre sul banco degli accusati.
Stupratori e giudici ci vorrebbero spaventate e piegate, ma la nostra forza è nella solidarietà, nel mutuo appoggio.
Raccontare per le strade la storia di Laura serve a far si che la paura cambi di campo.
Il 1 aprile un corteo ha attraversato il centro cittadino per raccontare la storia di Laura e per esprimere la solidarietà e l’indignazione delle donne della rete “Non Una di Meno” di Torino.

Il 12 aprile alle 12 davanti ai palazzi di giustizia di decine di città ci sono stati presidi contro la violenza dei tribunali in sostegno a Laura.
Molto numeroso e rumoroso quello svoltosi a Torino, dove la Questura aveva provato a bloccare l’iniziativa, minacciando divieti e sanzioni.
In tante ci siamo ritrovate davanti al tribunale con cartelli, striscioni e slogan. Poi il presidio si è trasformato in un breve corteo che si è guadagnato il mercato, dove tanti si sono fermati ad ascoltare i brevi comizi.

Francesca è stata perquisita per la partecipazione a quel presidio.
Non Una di Meno di Torino ha emesso un immediato comunicato di solidarietà, che potete leggere qui

Ascolta la diretta con Francesca dell’info di Radio Blackout

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Dov’è Santiago Maldonado? Presidio da Benetton per il desaparecido della democrazia

Desaparecido. Scomparso. Questa parola viene usata solo in spagnolo, perché solo in questa lingua assume il significato che hanno saputo imprimerle i regimi autoritari che negli anni Settanta hanno insanguinato l’America Latina.

Durante la dittatura di Videla sparirono circa 30.000 persone. Sequestrate, torturate per settimane, mesi, infine gettate in mare ancora vive da aerei militari.

I figli delle prigioniere incinta nacquero in galere segrete come l’ESMA, vennero presi dagli aguzzini dei loro genitori che li spacciarono per propri.

Pochi sanno che nei decenni trascorsi dalla fine della dittatura ci sono stati 310 desaparecidos. Di loro non si sa più nulla.

Il primo agosto la stessa sorte è capitata a Santiago Maldonado, che lottava a fianco dei Mapuche della Patagonia argentina e cilena contro la multinazionale italiana Benetton.

Le terre mapuche, sfruttate in passato da compagnie inglesi, dal 1990 sono di proprietà di Benetton, che le ha trasformate in enormi pascoli per pecore da lana.

Uno dei tanti casi di land grabbing, furto legale di enormi porzioni di territorio, sottratte alle popolazioni che ci vivevano. La forma “moderna” del colonialismo.

Dal primo agosto Santiago è scomparso, “desaparecido”, inghiottito da un potere che non guarda in faccia nessuno, pur di continuare a fare affari.
Quel giorno si trovava a Pu lof en resistencia a Cushamen, quando un centinaio di poliziotti in assetto antisommossa ha fatto irruzione, sparando proiettili di gomma e di piombo.

La gente è fuggita attraversando il fiume per ripararsi dalle pallottole. Santiago non è riuscito a guadagnare l’altra sponda e si è nascosto dietro ad un albero. Qui i suoi compagni hanno sentito i poliziotti gridare che ne avevano preso uno. Caricato su un mezzo della polizia non è più stato visto. La polizia nega di averlo arrestato.

Soraya Maicoño quel giorno si trovava per strada ed è stata fermata e trattenuta per sei ore sulla ruta 40, mentre la Gendarmeria reprimeva la comunità Pu Lof en Resistencia di Cushamen. Ha visto Pablo Noceti, capo di Gabinetto del Ministero di Sicurezza della Nazione, passare più volte di lì.
Ha anche notato che tra i pick-up che si dirigevano a Pu Lof c’erano anche quelli della tenuta Leleque di Benetton. Entravano nel commissariato, tornavano a Leleque, andavano a Pu Lof. Anche loro davano ordini, indicazioni. Erano al corrente di quello che succedeva. Era già successo il 10 gennaio, quando Ronald McDonald, amministratore generale delle tenute di Benetton, prestò il camion del ranch per trasportare i cavalli che avevano sequestrato ai mapuche.

Prima di entrare nel governo di Mauricio Macrì, Pablo Noceti era stato l’avvocato dei militari accusati di aver partecipato alle torture e alle sparizioni degli oppositori politici e sociali argentini durante la dittatura. Noceti aveva messo in dubbio le prove giudiziarie definendole “una vendetta politica” e mettendo in discussione l’impossibilità della prescrizione per tali crimini.

L’uomo giusto al posto giusto, pronto ad accusare di terrorismo le organizzazioni mapuche, mentre Santiago Maldonado era vittima del terrorismo di Stato. In vesti democratiche.

Il giorno prima del sequestro di Santiago, il 31 luglio, membri delle comunità mapuche protestavano davanti al tribunale federale di Bariloche per l’arresto arbitrario di Facundo Jones Huala: sono stati colpiti dalla Gendarmeria Nazionale e dal reparto di Assalto Tattico della polizia aeroportuale di sicurezza, con proiettili di gomma sparati ad altezza d’uomo. Nove persone sono state arrestate e molte altre sono state ferite.

Il primo settembre centocinquantamila persone hanno attraversato il centro di Buenos Aires, mostrando cartelli e gridando a gran voce “Donde esta Santiago Maldonado?”, “Dov’è Santiago Maldonado?” “Lo abbiamo salutato vivo, vogliamo rivederlo vivo.”

In questi giorni fondi anonime della polizia federale hanno fatto filtrare la notizia non confermata che Santiago sarebbe morto per le torture subite durante la detenzione.

Nella lunga storia della lotta Mapuche per la propria terra, chiare sono le responsabilità dei governi che si sono succeduti.

Altrettanto chiare le responsabilità del gruppo Benetton. Dietro alla facciata antirazzista, ci sono i feroci colonialisti del nuovo millennio.

Le maglie colorate di Benetton si sono macchiate del sangue di tanta gente che lottava. Tra loro c’è anche Santiago Maldonado.

In varie città italiane sono state promosse iniziative di fronte ai negozi Benetton.

A Torino
Giovedì 14 settembre
Dov’è Santiago Maldonado?
Presidio al negozio Benetton di via Roma 121 – vicino a piazza San Carlo. Ore 17,30

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Diritto penale. Aumentano le pene si riducono le garanzie

La riforma del codice penale, del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario è stata approvata in maniera definitiva il 23 giugno. Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 4 luglio, diventerà effettiva dopo trenta giorni, tranne le parti soggette a legge delega al governo.

Il provvedimento introduce importanti modifiche dell’ordinamento penale, sia sul piano del diritto sostanziale sia su quello del diritto processuale.

La riforma inasprisce le pene per furto, rapina, scippo e cambio elettorale politico-mafioso.
É significativo che vengano sanzionati ancora più duramente i reati contro la proprietà privata commessi dai poveri, che nel nostro paese già prevedevano pene molto pesanti.
Chiara la volontà di accontentare le pulsioni giustizialiste che attraversano parte del corpo sociale.

Vengono significativamente aumentati i termini di prescrizione, aumentando i casi di sospensiva già previsti dalla legge. Tra il processo di primo grado e quello di secondo grado è prevista una interruzione di un anno e mezzo. Sempre di un anno e mezzo è l’arresto del calcolo della prescrizione tra il processo d’appello e quello in Cassazione. Nei fatti la prescrizione è stata aumentata di tre anni. Alla faccia della asserita volontà di adeguamento alle richieste dell’Unione Europea, che sollecitava una maggiore celerità nell’azione penale, vengono nei fatti allungati i tempi a disposizione dell’apparato giudiziario per portare a termine i processi.
Un vero paradosso, che si nutre di pregiudizi radicati diffusi ad arte dai media, che amplificano alcuni casi di reati gravi estinti dalla prescrizione, nascondendo le obiettive responsabilità, anche politiche, della magistratura.
Il caso più recente ed eclatante è quello della Procura di Torino, che ha accelerato al massimo i procedimenti a carico del movimento No Tav, anche quelli più banali. Condanne e sanzioni pecuniarie sono state la leva potente usata contro un movimento vivo e pericoloso per l’ordine costituito, ben al di là della consistenza penale dei tanti procedimenti attuati contro gli attivisti.

La possibilità di difesa sono drasticamente ridotte dall’introduzione del dibattimento a distanza, tramite videoconferenza. Sinora era un provvedimento eccezionale, ora diviene la norma per chi è accusato di alcuni reati come mafia, associazione sovversiva, attentato con finalità di terrorismo.

I penalisti si sono opposti alla riforma sino all’ultimo, facendo numerosissimi “scioperi”, l’ultimo nella settimana precedente all’approvazione definitiva della nuova legge.

Una legge che conferma sia la natura di classe dell’ordinamento giudiziario, sia il suo utilizzo contro i movimenti di opposizione sociale.
Persino norme apparentemente più “liberali” come quella che introduce l’estinzione di alcuni reati per i quali è prevista la querela di parte e un massimo di pena di 4 anni, se le vittime vengono risarcite, hanno una chiara impronta di classe. Chi non ha soldi per i risarcimenti andrà in carcere.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Eugenio Losco, avvocato milanese, in prima fila nella difesa degli attivisti dei movimenti di opposizione sociale e dei migranti.

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Turchia. Dal Pride alla marcia per la giustizia

Il Pride in Turchia si fa da 15 anni. Quest’anno, per la seconda volta consecutiva, il governo ha vietato il corteo.
Anche quest’anno il movimento glbti ha sfidato Erdogan scendendo in piazza in barba ai divieti. D’altra parte il primo Pride fu una sommossa, da cui tanti percorsi di libertà presero avvio.

I manifestanti hanno provato ad entrare a Taksim, ma la piazza era chiusa dall’antisommossa, che appena la folla è cresciuta sono entrati in azione.

La polizia ha usato proiettili di gomma e idranti per disperdere il corteo arcobaleno. Diverse decine di attivisti sono stati feriti. 35 le persone, tra cui un giornalista dell’Associated Press, sono state arrestate. Probabilmente potrebbero essere rilasciate nelle prossime ore.

In questi stessi giorni ha preso avvio una marcia per la giustizia e la libertà, diretta a piedi da Ankara a Istanbul.
La marcia è stata promossa dal CHP, il partito socialdemocratico, per protestare per l’arresto di Enis Berberoglu, deputato del partito, arrestato nei giorni scorsi.
Berberoglu è stato rinchiuso in carcere dopo una condanna in primo grado a 25 anni per “rivelazione di segreto di stato”. La sua colpa è aver collaborato all’inchiesta del quotidiano Cumhuriyet che pubblicò un reportage sui tir dei servizi segreti turchi, che, nel 2014, trasportavano armi dirette agli insorti dell’ISIS in Siria.
Con lui salgono a 12 i deputati imprigionati in Turchia nell’ultimo anno. Gli altri 11 fanno parte del Partito Democratico dei Popoli, la formazione che in Turchia ha promosso, dall’interno delle istituzioni, il Confederalismo Democratico, ottenendo sia l’ingresso al Parlamento, sia un buon successo nelle regioni curdofone.
La repressione violentissima scatenata negli ultimi due anni nel sud est del paese, ha portato alla destituzione e all’arresto di numerosi sindaci e cosindaci.

La marcia per la giustizia si sta allargando di tappa in tappa: cresce giorno dopo giorno e raccoglie adesioni ben oltre il bacino di consenso dei socialdemocratici turchi.
Ormai sono migliaia le persone in marcia che hanno affrontato anche il freddo e la neve, attraversando le montagne e poi proseguendo lungo l’autostrada.
Ora è diventata una spina nel fianco di Erdogan, che ha più volte minacciato i partecipanti di passare la parola alla polizia.

Ascolta la diretta di Blackout con Murat Cinar, videomaker, giornalista di origine turca, che vive da molti anni a Torino.

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I berberi del Rif come i Cabili?

Sono passati 16 anni dalla rivolta che scosse la Cabilia, la regione algerina abitata da popolazioni di lingua e cultura berbera.

La rivolta scattata nel Rif marocchino da maggio, che qualcuno ha paragonato a quella del 2011 in Tunisia, pare invece l’eco di quella algerina di inizio secolo.

Il Rif è la regione più povera e ribelle del regno del Marocco. All’inizio del secolo scorso Abd-el-Krim al Chattaabi, guidò una rivolta berbera, che tenne in scacco per anni le due Francia e Spagna.

Regione montuosa del nord del paese, è una delle parti più povere del regno di Mohammed VI, dove la rivolta cova sotto le ceneri.

La scintilla della rivolta è stata la morte di un venditore abusivo di pesce, stritolato intenzionalmente nel camion dell’immondizia nel quale era stato gettata la merce che gli era stata sequestrata. L’uomo aveva sfidato le autorità a macinarlo con il pesce ed è stato accontentato.
Le immagini di questa morte crudele e ingiusta hanno innescato una rivolta che dura.

I rivoltosi non hanno un progetto politico e sociale di vasto respiro. Le lotte si dipanano intorno ad alcuni obiettivi precisi: lavoro, centri culturali, scuole, fine della corruzione e della disoccupazione.
Obiettivi che rendono simile questa rivolta del Rif alla lotta dei berberi della Cabilia che, abbandonate aspirazioni stataliste, diedero vita a percorsi di autonomia e federalismo.

L’info di radio Blackout ne ha parlato con Karim Metref, un torinese di origine cabila.

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Riforma del processo penale. Avvocati in sciopero

Nuovo sciopero degli avvocati penalisti, dal 10 al 14 aprile, contro il progetto di riforma del processo penale e contro la decisione di porre la fiducia anche alla camera.
Oggi a Bologna è prevista una manifestazione che percorrerà il centro cittadino. A Milano i penalisti in toga manifesteranno sulla scalinata del Palagiustizia del capoluogo meneghino.

Nel pacchetto preparato dal titolare del dicastero della Giustizia Orlando c’è un insieme composito di norme, che riducono il diritto alla difesa di chi finisce alla sbarra.
L’estensione della prescrizione per i reati minori da sette anni e mezzo a dieci anni ha il chiaro sapore della risposta alle pulsioni giustizialiste che attraversano alcuni settori sociali, che fanno le fortune elettorali di pentastellati, leghisti e fascisti. Dopo i decreti legge sulla sicurezza urbana e l’immigrazione il governo gioca una nuova carta in vista delle prossime elezioni.
Il test delle amministrative avrà un certo peso per la durata del governo Gentiloni.

Al prolungamento di tre anni della prescrizione si aggiungono gli inasprimenti delle pene per i reati dei poveri, come furti e rapine, la riduzione dei margini per presentare appello alle sentenze, l’estensione a numerose tipologie di reato del processo in video conferenza, la cui attuazione passa dalla discrezionalità del giudice all’applicazione automatica.

I penalisti in sciopero denunciano la distorsione autoritaria del processo, in cui vengono meno importanti forme di tutela delle persone sottoposte a giudizio nei tribunali.
Per chi è alla sbarra è importante la presenza dell’avvocato, ma anche la possibilità di avere un ruolo attivo, di difendersi personalmente, di presentarsi al processo e fare dichiarazioni spontanee.
Il pretesto del “risparmio” sulle spese di traduzione dal carcere al tribunale è una foglia di fico, perché i processi in videoconferenza necessitano che nelle carceri vengano installate costosi apparecchiature.

L’info di Blackout ne ha parlato con Eugenio Losco, avvocato in sciopero.

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Polizia etnica in Francia. La rivolta dei giovani cinesi

Negli ultimi 10 giorni la polizia francese ha sparato e ucciso due volte. Entrambe le vittime erano immigrati.
Domenica 26 marzo la polizia ha fatto irruzione nell’abitazione di un uomo di 56 anni di origine cinese, per verificare una denuncia per schiamazzi. Liu Shaoyao stava pulendo il pesce con le forbici, i poliziotti sostengono di essere stati aggrediti, la figlia nega e testimonia che l’uomo è stato colpito a sangue freddo.
Qualche giorno dopo i gendarmi sorprendono in una cascina del marsigliese un detenuto evaso dal carcere durante un permesso. L’uomo è disarmato ma viene crivellato di colpi e ucciso. L’eco della vicenda si spegne presto, perché i due gendarmi vengono arrestati. Un fatto decisamente inusuale in Francia. L’uomo ucciso faceva parte della locale comunità rom. È possibile che l’arresto sia stato deciso per sopire le proteste dei rom, che in passato per episodi analoghi erano sfociate in aperta rivolta.

La domenica successiva in place de La Republique a Parigi era stato da tempo fissato un appuntamento nell’anniversario della Nuit Debout. La piazza si è rapidamente riempita di cinesi con ampio palco e potente amplificazione. Sui cartelli e negli interventi vengono ripetuti due slogan. “Verità giustizia dignità”, “Per la pace e la giustizia, contro la violenza”
Gli inviti alla calma dei maggiorenti della comunità cinese cadono nel vuoto. Dopo pochi minuti i giovani cinesi, come tanti loro coetanei, hanno più volte ingaggiato scontri con la polizia, che ha risposto facendo un massiccio uso di gas lacrimogeni.
Sin qui la cronaca.

Questi episodi riflettono la crescente insofferenza nei confronti della violenza della polizia, che sempre più agisce da polizia etnica. Nel contempo la licenza di uccidere ottenuta dopo le proteste dello scorso autunno rinvigorisce il radicato e più che giustificato senso di impunità di cui godono le forze dell’ordine francesi.

Intanto la campagna per le presidenziali francesi è sempre più incandescente, mentre sui luoghi di lavoro si moltiplicano le lotte.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Gianni Carrozza di radio Frequence Plurielle di Parigi.

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Gli immigrati sono il bancomat della Libia

Gli accordi sull’immigrazione sottoscritti dal governo italiano e da quello libico il 2 febbraio, fatti propri dall’Unione Europea il giorno successivo, mirano a riprodurre la situazione del 2008 e del 2009, quando un patto simile venne sottoscritto dal governo Berlusconi e dal governo Gheddafi.
Quell’accordo costò all’Italia una condanna della Corte Europea per i diritti umani, che riempì le pagine dei quotidiani per un giorno. Il costo, in vite umane, è difficile farlo, perché il Mediterraneo e il deserto ingoiano le loro vittime nel silenzio e nella lontananza. Nelle prigioni libiche torture, stupri, compravendita di prigionieri è la norma.
Per anni la rotta libica si interruppe. La gente in viaggio fu obbligata a scegliere altre strade, non meno pericolose, come quella attraverso l’Egitto e la penisola del Sinai.

L’accordo siglato a Roma dal governo Gentiloni e da quello Al Sarraj difficilmente otterrà i risultati sperati da Roma. La Libia, dopo la guerra e la caduta del regime di Gheddafi, è un paese diviso in tre, dove il potere del governo al Sarraj, quello riconosciuto dalla comunità internazionale, non controlla a pieno nemmeno la capitale. A est è il regno del generale Haftar, sostenuto da Egitto e Francia, al centro governa Ghwill. Nessuno dei due ha accettato l’accordo di Roma.

In compenso per i migranti in viaggio la vita è ancora un terno al lotto. Uccisioni, torture, stupri e ricatti verso uomini, donne e bambini sono “normali”.

L’accordo italo-libico prevede la consegna alla guardia costiera libica di 12 pattugliatori, già in loro possesso, oggi in riparazione in Tunisia e in Italia. Peccato che la guardia costiera libica sia parte attiva nel business dell’immigrazione. Un business che rappresenta una delle più importanti fonti di reddito per un paese piegato da sei anni di guerra, le cui classi medie si sono impoverite.

Gli immigrati sono il bancomat della Libia. Ciascuno di loro ha in tasca almeno duemila euro, raccolti dalle famiglie nei paesi d’origine: un bel bottino per i trafficanti. Nelle infernali galere libiche sono i guardiani, uomini delle milizie che controllano il paese, sequestrano i telefonini e chiamano le famiglie, chiedendo un riscatto per i loro cari. Le torture servono a strappare più soldi.

L’informazione di radio Blackout ne ha parlato con Francesca Mannocchi, reporter free lance, che è stata più volte in Libia da dove ha fatto reportage per varie testate e TV italiane, ma non solo.

È lei che, entrando in Sirte dopo la liberazione dall’ISIS, scoprì la terribile verità sulle “donne dell’Isis” rinchiuse in prigione a Sirte. Quando il suo gruppo di giornalisti e reporter è entrato nella prigione di Sirte ha scoperto che le donne che vi erano rinchiuse erano le schiave dei miliziani, immigrate violentate, vendute, picchiate dai loro padroni. Queste donne, spesso ragazze giovanissime, raccontano storie terribili.
Oggi sono rinchiuse in prigione: per i “liberatori” di Sirte restano immigrate clandestine.

Francesca racconta la storia di un ragazzo africano malato di tubercolosi. Ha 24 anni ed è rinchiuso in una gabbia: nessuno gli da le medicine che gli servirebbero per curarsi, nessun volo lo prenderebbe mai a bordo per riportarlo nel suo paese, con il quale non ci sono collegamenti diretti. Di fronte alla gabbia che lo rinchiude c’è l’ospedale costruito dagli italiani. Lui morirà nella gabbia.

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