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Torino. Una piazza borghese. E le sue paure

La piazza Si Tav del 10 novembre a Torino, a saperla osservare, ci racconta della persistenza del mito del progresso e della velocità. Il motore dello sviluppo, del benessere e del saldo ancoraggio al treno del primo mondo.
La piazza Si Tav, piazza borghese, per bene, torinese, che si alimenta del ricordo di Cavour e del canale di Suez, sogna un Piemonte che non c’è più. E non tornerà.
È una piazza la cui principale novità è il suo stesso esserci, la scelta di scendere in campo e di rendere visibile un aggregato sociale, che usualmente è restio a farlo.
Il paragone con la marcia dei 40.000 colletti bianchi della Fiat al termine dell’ultimo braccio di ferro tra la classe operaia torinese e i padroni della città appare tuttavia del tutto incongruo. In questi ultimi 40 anni tanta acqua è passata sotto i ponti della città dei tre fiumi.
I colletti bianchi difendevano, pagati e spinti dal padrone, una posizione di piccolo privilegio che ritenevano inattaccabile. Pochi anni dopo i fatti dimostrarono quanto grande fosse stato il loro errore. I protagonisti di quella marcia e i loro figli, colletti bianchi per via ereditaria, vennero licenziati, quando il padrone decise che non servivano più.
Ma. L’errore più grande lo commisero gli operai in lotta da trentacinque giorni davanti ai cancelli della Fiat. Credettero al sindacato, che già aveva pronto l’accordo che barattava ventimila licenziati con sessantamila cassaintegrati. La grande epopea dei lavoratori della città-fabbrica non finì per la marcia degli impiegati Fiat, ma per la resa ad un sindacato che stava cambiando pelle, avendo già mutato anima negli anni del compromesso socialdemocratico.
Se in quei giorni fosse partito un appello a tornare in piazza, la marcia dei “40.000” sarebbe scomparsa nel nulla e nessuno la ricorderebbe.
Quella vicenda si incise a sangue nella memoria collettiva, perché spianò la strada alla vendetta padronale, che fu implacabile.
Torino si è trasformata radicalmente. La città della Fiat, pensata e costruita come città fabbrica, ha lasciato il posto alla città immaginata tra il Politecnico, la stessa Fiat, le Banche e il partito Democratico. Città di servizi, turismo e grandi eventi. Gli antichi borghi operai, luogo di crescente marginalità sociale, sono costantemente sospesi tra riqualificazioni escludenti e il parco giochi per carabinieri, militari e poliziotti.
Evocare la marcia dei “40.000” è un abile artificio retorico per proclamare la vittoria prima di aver vinto.
Questa volta però, alla faccia del governo pentastellato della città, che si è affrettato ad aprire un’interlocuzione con i Si Tav, il movimento No Tav non ha esitato e ha lanciato un corteo per l’8 dicembre che, partendo da piazza Statuto, quella della rivolta del 1962 contro la UIL, si concluderà in piazza Castello, nello stesso luogo dei Si Tav.
La partita è quindi ancora apertissima.
Ed è meno banale di quanto sembri, perché ci racconta della città com’è ora, non di quella del tempo andato.
La borghesia scende garbatamente in piazza per rimettere a posto le cose, per fare ordine, per spiegare alla sindaca Appendino chi comanda in città.
La piazza Si Tav del 10 novembre è la piazza dei padroni. Basta dare un’occhiata all’elenco delle associazioni promotrici per rendersene conto. Si va dalle associazioni padronali a quelle del commercio per arrivare alle organizzazioni sindacali degli edili di CGIL, CISL e UIL, che questa volta non hanno problemi a stare nella stessa piazza dei padroni. Non devono più fingere.
«Noi stiamo perdendo le energie migliori della nostra società: le famiglie li hanno educati, le scuole formati e noi diamo ciò che abbiamo creato, i nostri giovani, all’estero. Voglio dedicare questa piazza a Pininfarina e Marchionne che si sono battuti per la Tav». Diceva uno degli speaker dal camion/palco. E giù applausi a Marchionne e, non guasta mai, anche alle forze dell’ordine.
Chi c’era, come il professor Semi, anche solo per dare un’occhiata, ha descritto così piazza Castello del 10 novembre: “Il garbo, la gentilezza, le maniere civili, sono state le parole d’ordine di questa riemersione della borghesia torinese dalla propria proverbiale riservatezza e aristocratico distacco. Oggi in piazza erano visibili diversi gruppi sociali che la compongono e, per contrasto, si vedeva ancora meglio chi non c’era.
Iniziamo dai presenti. Signori e signore perbene, dall’età media attorno ai Cinquanta, ogni tanto con i figli grandi e più spesso con amici e colleghi. Si sono rivisti in massa i Barbour, e le signore avevano dei cappotti da boutique, talvolta arancioni come da richiesta delle organizzatrici della matinée. Si tratta di una stima ‘ad occhio’, ma se erano molti anche gli anziani ben vestiti, mancavano quasi completamente i 20-30enni. Le classi sociali visibili non erano molte, c’era sicuramente diversa borghesia professionale, e un po’ di ceto medio tradizionale, commercianti e artigiani. Ad occhio non erano tantissime le partite IVA ai minimi, non c’erano operai, sicuramente il livello di istruzione medio in piazza era molto elevato e per nulla rappresentativo della città. Si è detto delle fasce mediane assenti e dei giovani in generale, ma quello che saltava all’occhio fin da subito era la totale assenza di popolazione straniera, sia povera che ricca. La folla oggi riunita era molto torinese, anche se i richiami al Piemonte, all’Italia e all’Europa sono stati tanti. Una massa bianca, matura se non anziana, benestante, istruita e gioiosa ha occupato per circa due ore la principale piazza della città.”
La borghesia torinese è scesa in piazza per dare un segnale all’amministrazione locale e al governo giallo verde. Puntano sul PD, ma potrebbero senza troppi problemi appoggiare un governo di centro destra.

Nonostante il Bon Ton e i bei modi esibiti è una piazza a suo modo patetica, perché Cavour e Suez sono roba di due secoli fa e non bastano più a nutrire l’illusione del progresso che consegna doni e sicurezza all’imprenditoria operosa e ai suoi intellettuali, professionisti, professori, giornalisti.
Il treno che buca le Alpi, come a suo tempo lo stesso Tunnel del Frejus, ai cui costruttori è stato dedicato un monumento in piazza Statuto, sventa la paura del piccolo Piemonte schiacciato contro le montagne, isolato dai traffici, emarginato da Milano, la cugina meneghina, che ha retto molto meglio l’impatto della terza e della quarta rivoluzione industriale. É un feticcio, non un treno. Certo ci sono gli affari delle lobby del cemento e del tondino, delle banche, degli edili, ma la sostanza che ha portato in piazza commercianti e imprenditori, assieme alla borghesia delle professioni è la forza simbolica acquisita da quel treno.
Lo scontro sarà quindi senza esclusione di colpi, perché, sottile, ben nascosto, ma evidente appare il motore di quella piazza: la paura. Gli orfani della città Fiat oggi si aggrappano al treno ad alta velocità. Poco importa che non serva a nulla. Però può rendere bene a chi la fa. E tanto basta: di doman non c’è certezza.
La città vetrina ha scongiurato gli orrori della Rust Belt statunitense, riciclando per Olimpiadi e grandi eventi, gli enormi capannoni vuoti dell’era dell’industria trionfante. Centri commerciali e mega padiglioni espositivi con intorno nuovi quartieri ed infrastrutture per raggiungerli sono stati la ricetta del post Fiat. Ma non bastano. Non possono bastare.
Sullo sfondo, ben nota ai borghesi torinesi c’è Flint, la città dove il futuro è già presente. A Flint nacque la General Motors: oggi interi quartieri sono abbandonati. Imponenti macerie industriali ne segnano il panorama, tra povertà, mafie e ghetti urbani. La gente beve acqua avvelenata, le truppe vi svolgono esercitazioni “antiterrorismo”. È il Michigan ma potrebbe essere lo specchio di Torino, delle sue periferie, dove le macerie sono quelle sociali.
Un baratro in cui tanti hanno paura di scivolare. E la paura genera mostri.
Lo sanno bene quelli delle periferie, che hanno abbandonato il PD e hanno votato, anche se a votare non sono più tanti come un tempo, per le Cinque Stelle. Sono quelli dei blocchi dei forconi del 2013. Niente Bon Ton: blocchi, tricolori, appelli ad un governo militare, caciara. Sembrava la gente del dopo stadio, tifosi con le bandiere e le trombette, fuori controllo anche dalla destra che provava a cavalcarli e da post autonomi e anarchici situazionisti, che puntavano al caos sistemico. In comune con i borghesi del 10 novembre l’amore per i poliziotti, applauditi e vezzeggiati da entrambe le piazze.
Tornati nei ranghi dopo tre giornate, perché la rivoluzione la volevano in un giorno e in un giorno è difficile farla, anche se credi di avere il vento in poppa e ti muove la tenera auroralità di chi crede all’iconografia della rivolta. Oggi pare vogliano tornare in piazza “contro l’Europa e non contro il governo”, sperando di spuntarla sulla odiatissima direttiva Bolkenstein e altre tasse. Forse in gilet giallo, alla francese.
Anni luce tra queste due piazze. Senza dubbio. Spinte però entrambe dalla paura del futuro che non c’è più. Paura e rabbia mescolate per le promesse non mantenute per il figlio laureato dell’operaio, che non ha né lavoro né prospettive, ma tanto risentimento.
L’amministrazione Appendino è figlia anche di quella piazza. Ma non solo, perché la vittoria di Appendino, due anni fa, fu possibile solo grazie all’appoggio delle destre subalpine. Parte delle quali sono oggi uno degli assi del governo pentastellato.
Quest’alchimia un po’ bastarda ma non troppo spiega le giravolte della giunta Appendino, che potrebbero portarla ad un’impasse difficile da superare.
D’altra parte, alla fetta di elettorato forcone dei 5 Stelle, fatto di mercandini, partite IVA, giovani precari bianchi e rancorosi, non importa nulla del Tav, ma sono a loro volta soggiogati dalla retorica della difesa dei confini, dell’illusione protezionista, in bilico tra il liberismo estremo dei no tax e la richiesta di tutela statale. Un bel groviglio.

In questo groviglio parte del movimento No Tav si è infilata mani e piedi, schierandosi in modo esplicito con i 5 Stelle, nonostante oggi in tanti comincino ad accorgersi che l’opposizione al Tav è più una palla al piede che un obiettivo per i 5 Stelle. In questi anni la lotta No Tav si è saldata in modo tanto forte con la critica delle relazioni politiche e sociali dominanti, da renderla incompatibile con il capitalismo e le sue regole feroci.
I No Tav sono corpi estranei allo scontro di potere in atto, gli unici, con numeri e consenso ampi, che pur nella diversità di approcci e prospettive, non sono mossi dalla paura ma dalla consapevolezza che il futuro dipende da ciascuno di noi. L’idea stessa di sviluppo si sgretola sotto le picconate di una critica che sarebbe sbagliato credere pauperista o ingenua, perché si nutre della comprensione dell’urgenza di tante piccole opere utili alla vita e alla salute di tutti, dell’urgenza di rallentare la curva del riscaldamento globale, dell’importanza di scommettere sulla capacità di autogoverno reale dei territori. E sulla consapevolezza che ribellarsi e vincere è possibile.

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Carmagnola: il Comune vieta “Bella Ciao”, il Coro Moro va via

Carmagnola: il Comune vieta “Bella Ciao”, il Coro Moro va via

Il Coro Moro nasce nelle Valli di Lanzo dall’incontro tra attivisti antirazzisti e No Tav e un gruppo di giovani rifugiati ed immigrati africani.

Oggi è una realtà conosciuta in tutto il Piemonte, per il suo repertorio di canzoni popolari piemontesi e di lotta.

La scorsa domenica avrebbero dovuto esibirsi alla Fiera del Peperone di Carmagnola con il loro consueto repertorio. Tra le tante c’è sempre “Bella ciao”.
Il Comune di Carmagnola, non nuovo a queste uscite, chiede ai ragazzi del Coro di cancellare dalla scaletta la canzone simbolo della resistenza al fascismo. L’assemblea del Coro rifiuta e preferisce ritirarsi. Il vicesindaco Inglese si offre di pagare comunque il cachet pattuito di 600 euro purché la notizia non trapeli.
Il Coro Moro rifiuta. In breve la censura di Bella Ciao cantata da un Coro, nato dall’incontro tra attivisti e giovani in fuga da guerra e persecuzioni, buca i media, diventando un boomerang per l’amministrazione di centro destra della città dei Peperoni.

“#CoroMoro canta #bellaciaononsitocca, se no: Ciao!”, è il messaggio lanciato dal gruppo su Facebook.

L’info di Blackout ne ha parlato con Luca Baraldo del Coro Moro.

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I No Tav in marcia per la libertà di movimento

Nell’estate più bollente degli ultimi anni il movimento No Tav si è rimesso in marcia. L’8 luglio è stata una una giornata di lotta contro i blocchi e i divieti tra Chiomonte e Giaglione.
Ormai da mesi, oltre alle zone rosse stabili e straordinarie intorno all’area di cantiere, la polizia in occasione di marce notturne ha chiuso tutti gli ingressi di Giaglione, disponendosi sin sulla statale del Moncenisio, una zona lontana chilometri dalla Clarea.
Un’ulteriore passo verso la totale militarizzazione dell’area.
Questa volta, prudentemente, la polizia non si è fatta vedere nella prima parte della marcia, quando il corteo partito da Venaus si è guadagnato il bivio dei Passeggeri, la statale 25 e la provinciale per Giaglione.
Se avessero bloccato il corteo avrebbero rischiato che per ore restasse chiusa la strada che porta al valico del Moncenisio nelle prime ore di un fine settimana estivo. Una possibilità che andrebbe esplorata e messa nella cassetta degli attrezzi del movimento che si batte contro la Torino Lyon, troppo spesso irretito dalla retorica della lotta al cantiere, dal fascino delle marce notturne, dalla mimesi dell’epopea degli anni passati.

Oggi servono altre strade. La pratica del blocco, se agita da molti insieme, può essere un modo per mettere in difficoltà l’avversario.
Uno dei tanti. Perchè l’ingranaggio del cantiere e dell’occupazione militare è ben oliato e occorre gettare tanta sabbia per incepparlo.
La polizia ha atteso i manifestanti lungo la strada delle Gorge che da Giaglione conduce alla Clarea occupata militarmente.
Poco dopo la cappelletta hanno montato uno sbarramento di acciaio, molto più solido del consueto: nonostante i numerosi tentativi di buttarlo giù ha resistito agli assalti dei manifestanti che hanno continuato a lungo battiture e slogan.
Un altro gruppo, passando per i sentieri alti e guadando il torrente, ha raggiunto l’area dove sorge la tettoia No Tav di fronte al cantiere.
Un cantiere che in questo periodo è quasi fermo: il tunnel geognostico è stato completato qualche mese fa, parte dei lavoratori sono stati licenziati, in barba alle promesse di Telt che sperava di fidelizzarli con la chimera del lavoro. Inutile lo sciopero di protesta di questi ultimi giorni.
Non si allenta invece la pressione disciplinare sull’area, dove truppe di montagna, polizia, carabinieri e guardia di finanza si danno il cambio per mantenere la sorveglianza al fortino di Clarea.
In questi stessi giorni sono arrivate le comunicazioni di esproprio di un migliaio di case tra Susa, Bussoleno, Venaus.
Era importante dare un primo segnale.
Riprenderci le strade con una manifestazione diurna, aperta, partecipata da tutti era l’obiettivo della giornata di lotta dell’8 luglio.
Ma non solo.
Da troppo tempo si sta allargando la distanza tra la minoranza che agisce e i più che plaudono, limitandosi alle grandi marce popolari, quando il movimento si raccoglie per dimostrare che l’opposizione all’opera è forte e radicata, nonostante la repressione, i giochi della politica, il tempo che passa, la tentazione della rassegnazione.

La manifestazione dell’8 luglio ha alluso ad una possibilità che diventa necessità ineludibile di fronte alle sfide che ci attendono.
È tempo che la lotta, l’azione diretta siano nuovamente patrimonio di tutti.

Oggi ancora nei paesi vicini al cantiere, domani per bloccare e rendere ingovernabile l’intera valle.

Noi eravamo presenti con uno spezzone rosso e nero, aperto dallo striscione “azione diretta autogestione” e da quello “il futuro non si delega”.

Abbiamo distribuito “Un cielo senza stelle”, un nostro documento sul movimento e le prospettive della lotta, in vista dell’apertura dei nuovi cantieri, che segneranno l’avvio definitivo dei lavori per la realizzazione della linea ad alta velocità tra Torino e Lyon.

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Diritto penale. Aumentano le pene si riducono le garanzie

La riforma del codice penale, del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario è stata approvata in maniera definitiva il 23 giugno. Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 4 luglio, diventerà effettiva dopo trenta giorni, tranne le parti soggette a legge delega al governo.

Il provvedimento introduce importanti modifiche dell’ordinamento penale, sia sul piano del diritto sostanziale sia su quello del diritto processuale.

La riforma inasprisce le pene per furto, rapina, scippo e cambio elettorale politico-mafioso.
É significativo che vengano sanzionati ancora più duramente i reati contro la proprietà privata commessi dai poveri, che nel nostro paese già prevedevano pene molto pesanti.
Chiara la volontà di accontentare le pulsioni giustizialiste che attraversano parte del corpo sociale.

Vengono significativamente aumentati i termini di prescrizione, aumentando i casi di sospensiva già previsti dalla legge. Tra il processo di primo grado e quello di secondo grado è prevista una interruzione di un anno e mezzo. Sempre di un anno e mezzo è l’arresto del calcolo della prescrizione tra il processo d’appello e quello in Cassazione. Nei fatti la prescrizione è stata aumentata di tre anni. Alla faccia della asserita volontà di adeguamento alle richieste dell’Unione Europea, che sollecitava una maggiore celerità nell’azione penale, vengono nei fatti allungati i tempi a disposizione dell’apparato giudiziario per portare a termine i processi.
Un vero paradosso, che si nutre di pregiudizi radicati diffusi ad arte dai media, che amplificano alcuni casi di reati gravi estinti dalla prescrizione, nascondendo le obiettive responsabilità, anche politiche, della magistratura.
Il caso più recente ed eclatante è quello della Procura di Torino, che ha accelerato al massimo i procedimenti a carico del movimento No Tav, anche quelli più banali. Condanne e sanzioni pecuniarie sono state la leva potente usata contro un movimento vivo e pericoloso per l’ordine costituito, ben al di là della consistenza penale dei tanti procedimenti attuati contro gli attivisti.

La possibilità di difesa sono drasticamente ridotte dall’introduzione del dibattimento a distanza, tramite videoconferenza. Sinora era un provvedimento eccezionale, ora diviene la norma per chi è accusato di alcuni reati come mafia, associazione sovversiva, attentato con finalità di terrorismo.

I penalisti si sono opposti alla riforma sino all’ultimo, facendo numerosissimi “scioperi”, l’ultimo nella settimana precedente all’approvazione definitiva della nuova legge.

Una legge che conferma sia la natura di classe dell’ordinamento giudiziario, sia il suo utilizzo contro i movimenti di opposizione sociale.
Persino norme apparentemente più “liberali” come quella che introduce l’estinzione di alcuni reati per i quali è prevista la querela di parte e un massimo di pena di 4 anni, se le vittime vengono risarcite, hanno una chiara impronta di classe. Chi non ha soldi per i risarcimenti andrà in carcere.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Eugenio Losco, avvocato milanese, in prima fila nella difesa degli attivisti dei movimenti di opposizione sociale e dei migranti.

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Alessandria. Corteo contro le cave e il terzo valico

Alessandria 27 maggio. Un migliaio di attivisti hanno attraversato il centro cittadino contro le cave di Sezzadio e di Alessandria e contro i lavori per la realizzazione della nuova linea ad alta velocità tra Alessandria e Tortona. Una linea costruita attraverso una zona ricca di amianto, con grave rischio per chi lavora e per chi vive lungo i tragitto e nei posti di conferimento dello smarino.
Folta la delegazione di cittadini e comitati della Valle Bormida, da anni in prima fila contro le nuove discariche. Discariche che la lobby del terzo valico vuole aperte in fretta perché quelle esistenti, pur lavorando a pieno regime, stanno scoppiando.
Le cave già aperte funzionano a pieno regime: nella cava “ Clara e buona” di Alessandria vengono scaricati da cento a duecento camion che viaggiano quotidianamente senza protezione.
Il Cociv e la Regione hanno fretta di approvare l’aggiornamento del Piano cave del Terzo valico per gli 11 milioni di metri cubi di roccia e terra scavate nell’Appennino.
Il piano prevede due cave in piccolo paese dell’acquese, Sezzadio. Oltre alla discarica di rifiuti industriali della Riccoboni già autorizzata dalla Provincia sulla falda acquifera, il consorzio vuole portare da 355 mila a 666 mila metri cubi di smarino nella cava di cascina Opera Pia 2.

Anche la cava di Voltaggio è arrivata al limite. 900 mila metri cubi di smarino finiranno nella cave di pianura intasando la provinciale 160 della Val Lemme con i camion, e di lì la Valle Scrivia tra Arquata e Vignole Borbera, dove sono attivi due cantieri del Terzo valico. Il Cociv intende trasportare il materiale di scavo a Cerano e Romentino nel novarese, ad Alessandria, Frugarolo, Bosco Marengo, Pozzolo, Novi.
Secondo l’Arpa il metodo utilizzato per valutare la presenza di amianto ha un margine d’errore del 98%.

La scelta della data, a dieci giorni dalle elezioni, non era delle più felici. Nel mirino di molti manifestanti era la sindaca a candidata alla rielezione al Comune di Alessandria Rita Rossa. Rossa, come presidente delle provincia ha presto accantonato ogni riserva su amianto e salute di fronte ad un piatto di 11 milioni di compensazioni.
Post disobbedienti e alcuni comitati hanno dato al corteo il sapore agre del referendum su Rossa. Per la lista pentastallata e per quella di sinistra è stata un’occasione di propaganda gratuita, che il movimento contro Tav-terzo valico e discariche avrebbe potuto e dovuto dribblare.
D’altra parte l’esperienza disastrosa della lista No Tav di Arquata, che lo scorso anno trascinò nella sua sconfitta anche i comitati di lotta, avrebbe dovuto suggerire una certa prudenza, anche a chi si fa sedurre dalle sirene istutuzionali.
Importante la presenza di uno spezzone rosso e nero, che ha portato in piazza le ragioni dell’autogestione e dell’azione diretta.

Il corteo, ampio e popolare, è stato un’occasione importante per il movimento di lotta. C’erano 30 trattori, moltissimi agricoltori. Dopo lo spezzone anarchico che era poco distante dalla testa del corteo, c’erano il sindacato di base e le associazioni ambientaliste, oltre ai comitati contro il terzo valico piemontesi e liguri e una delegazione di No Tav da Torino e Val Susa.
I comitati popolari hanno ribadito la volontà mettersi di mezzo, contro chi mette a repentaglio acqua, vita e salute, per realizzare una piattaforma logistica per la ditta Gavio. Un matrimonio di interesse tra la gomma e il ferro, tra il porto di Genova e i piazzali della logistica tortonese. Un’opera inutile e dannosa per chi vive nel basso Piemonte. Molti, lo hanno dimostrato il 27 maggio, non sono disposti a chinare la testa.

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Marcia No Tav. Il futuro non si delega!

Sabato 6 maggio il movimento No Tav ha promosso una grande marcia da Bussoleno a San Didero.
Appuntamento ore 12 alla stazione di Bussoleno

Uno spezzone anarchico parteciperà alla marcia con lo striscione “Il futuro non si delega! Azione diretta autogestione”.

Il governo vuole, costi quel che costi, imporre con la forza la realizzazione di una nuova linea ferroviaria inutile, costosissima, nociva per la salute e il territorio.

In ballo c’è molto più di un treno. In ballo c’è la necessità di piegare e disciplinare un movimento che ha saputo resistere e lottare per 25 anni. Nel 2005 un’insurrezione popolare fermò un progetto ormai entrato nella fase esecutiva. Nel 2011, dopo anni di melina, consapevole di aver riportato all’ovile solo il leader istituzionale del movimento, il governo decise di usare nuovamente la forza. La realizzazione di un’opera accessoria, un tunnel di sei chilometri e mezzo a Chiomonte, è costato processi, condanne, ossa spezzate.

Un migliaio di persone sono state inquisite, processate e condannate, per aver partecipato attivamente ad un movimento che non ha mai voluto avere un mero ruolo testimoniale.

Oggi l’eco mediatica intorno al movimento No Tav si è spenta.
Non per caso.
Il momento è cruciale. A gennaio il parlamento italiano ha ratificato il trattato con la Francia sulla Torino Lyon, il CIPE ha approvato il progetto definitivo della tratta internazionale, sono partiti gli espropri e le procedure preliminari per l’inizio dei lavori in Bassa Valle, a Bussoleno, Susa, San Didero e Bruzolo.

La realizzazione della nuova linea ad alta velocità ferroviaria, che consegnerà la Val Susa al destino di corridoio logistico per le merci è ormai giunto al momento dell’apertura dei cantieri.

Cantieri enormi che modificheranno per sempre la vita degli abitanti, mettendo a repentaglio la salute di tutti. Camion carichi di smarino e polveri d’amianto percorreranno la valle a est come a ovest, il dispositivo militare oggi presente solo a Chiomonte investirà anche zone densamente abitate. La perdita di falde acquifere sarà inevitabile e irreversibile.
La lucida profezia fatta 25 anni fa dal movimento No Tav rischia di trasformarsi in dura realtà.

Il governo sta provando a logorarci. Fa conto sulla rassegnazione, sulla difficoltà a fermare cantieri difesi da esercito, polizia, carabinieri blindati.
La ferita nella montagna di Chiomonte è aperta a fa male.
Il movimento No Tav ha sulle spalle il peso della speranza che ha rappresentato per tanta gente di ogni dove.
Il rischio è l’usura dei sentimenti, anestesia del tempo che trascorre, il ripetersi dei passi già fatti, dei sentieri che conducono là dove la ferita si allarga. Forte è tuttavia l’orgoglio di esserci, di tenere duro, di continuare a dare del filo da torcere ai nostri avversari.
Il grande tunnel lo faranno scavando dentro la montagna, partendo dalla galleria di Chiomonte. Una scelta costosa e rischiosa. Una scelta dettata dalla paura di aprire subito un grande cantiere a Susa. Il segno chiaro che, nonostante le dichiarazioni di vittoria, il governo continua a temere il movimento No Tav.

L’imposizione violenta dei nuovi cantieri non è l’unico pericolo. Il pericolo maggiore è l’illusione della delega, la seduzione a 5Stelle che ha colpito tanta parte di un movimento, che pure è consapevole, che la strada percorsa sinora è stata fatta appoggiandosi saldamente sulle due gambe di tutti.

L’azione repressiva lungi dal dividere il movimento lo ha rinforzato nell’azione solidale, nell’appoggio ai carcerati, ai condannati. Ma ha scavato nel profondo. Non si sono scalfite le convinzioni, si è tuttavia allargata la distanza tra chi fa e chi applaude, ri-aprendo la strada a percorsi istituzionali e di delega.

La delega istituzionale rilegittima la macchina di chi si arroga il diritto di decidere per noi, di chi giocherà la sua partita ad un tavolo dove il banco vince sempre e prende tutto. Per prima la nostra libertà.

Troppe volte la febbre elettorale ha attraversato la Val Susa assorbendo energie enormi, sottratte alla quotidianità della lotta.

Qualche crepa comincia a vedersi. La “sindaca No Tav” di Torino ha preso le distanze dai “pochi violenti” giustificando così le violente cariche contro gli spezzoni degli anarchici, dei centri sociali e dei No Tav al corteo del Primo Maggio.
Lo stesso giorno si era congratulata con il PM Rinaudo e con la polizia per gli arresti di sei anarchici attivi nelle lotte a Torino e in Valle. Lo stesso Rinaudo protagonista di tante inchieste contro i No Tav.
Le parole di Appendino sono destinate a lasciare il segno.
Troppe volte politici “amici” le hanno usate per spingere alla rinuncia ad ogni resistenza attiva.

Tante volte la grande favola della democrazia si è sciolta come neve al sole. Ogni volta che libertà, solidarietà, uguaglianza vengono intese e praticate nella loro costitutiva, radicale alterità con un assetto sociale basato sul dominio, la diseguaglianza, lo sfruttamento, la competizione più feroce, la democrazia mostra il suo vero volto.
La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti opinione ineffettuale, mero esercizio di eloquenza, semplice gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia si fa discorso del potere che nega legittimità ad ogni parola altra. Ad ogni ordine che spezzi quello attuale.

È importante che la memoria non vacilli: i No Tav hanno sostenuto ed appoggiato la pratica dell’azione diretta contro il cantiere e le ditte collaborazioniste, i blocchi delle strade e delle ferrovie, lo sciopero generale, le grandi marce e i sabotaggi.
Fermare il Tav, costringere il governo a tornare su una decisione mai condivisa dalla popolazione locale è la ragion d’essere del movimento No Tav.
L’8 dicembre 2005 fu il culmine della rivolta contro il TAV. Ma già allora non era c’era in ballo molto di più: la libertà e la dignità di chi non tollerava l’imposizione con la forza di una scelta non condivisa.
Nessuno lo pianificò ma accadde. I primi a stupirci fummo noi. Le barricate, i tronchi in mezzo alla strada, il blocco delle strade furono la risposta all’occupazione militare.
La Valle divenne ingovernabile.
La Valle deve tornare ad essere ingovernabile.

Lunghi anni di azione diretta, confronto orizzontale, costruzione di percorsi decisionali condivisi sono stati una straordinaria palestra di libertà. Tutti noi portiamo nei nostri cuori, nella memoria viva del nostro movimento Venaus e la Maddalena. Libere Rebubbliche, vere comuni libertarie, dove la gerarchia si è spezzata facendo vivere un tempo altro.

Il futuro non si delega: oggi come allora solo l’azione diretta, senza passi indietro, può creare le condizioni per fermare ancora una volta la corsa folle, di chi antepone il profitto alla vita e alla libertà di tutti.

Vi aspettiamo numerosi.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

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No Tav. Giuliano e Luca restano in carcere: domani presidio al carcere

No Tav. Giuliano e Luca restano in carcere: domani presidio al carcere

Il tribunale del riesame si è pronunciato su 20 dei 21 No Tav cui sono state imposte limitazioni della libertà per la giornata di lotta del 28 giugno 2015. Vengono confermati i domiciliari per Fulvio, Luca e Giuliano. Luca e Giuliano che, per aver rifiutato le restrizioni erano stati arrestati e condotti in carcere, restano alle Vallette. Il 18 giugno verrà pronunciata la sentenza nel processo per evasione che la Procura di Torino ha disposto per la disobbedienza.
Ricordiamo che Giuliano e Luca non sono fuggiti ma hanno rivendicato pubblicamente la loro scelta in assemblee popolari, fiaccolate, feste No Tav
A Gianluca, ora ai domiciliari ma disobbediente ai divieti di comunicazione, e a Silvano la misura è stata convertita in obbligo di firma. Ad alcuni No Tav, cui era stato imposto l’obbligo di firma quotidiano, sono state attenuate le restrizioni, ridotte a due firme alla settimana. Resta latitante Eddi.
Domani il movimento No Tav ha indetto un presidio solidale con Giuliano e Luca al carcere delle Vallette.
Appuntamento alle 18,30 al capolinea del tram 3.

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Tav low cost: il tunnel nel deserto

Tunnel1Se un idraulico per riparare un guasto congiungesse un tubo piccolo ad uno molto più grande, anche il più sprovveduto di noi capirebbe che il tubo si intaserebbe. Se la stessa cosa la fa il ministro dei trasporti Graziano Del Rio i quotidiani parlano di sensibilità ecologica, razionalizzazione dei costi, realizzazione dell’opera in modo graduale, verificando nel tempo le necessità. La tratta italiana dell’opera può essere realizzata utilizzando in buona parte le infrastrutture già esistenti – il tubo piccolo – ma il tunnel di base di 57 chilometri non va toccato, perché nel 2030 il flusso delle merci avrà un’impennata.

Delle due una: o da quel tubo passerà poca acqua e quindi non serve innestarlo in un tubo più grosso oppure serve e quindi occorre mettere tubi grandi in tutto il nostro impianto di casa.
Quello che vale per i tubi dell’acqua, vale a maggior ragione per una nuova linea ad alta velocità e capacità.

Il progetto Tav o vale tutto o non vale niente. Elementare? Non tanto.
Nel complesso risico del Tav, la nuova linea è un affare per chi la realizza ma solo spese e danni ambientali per tutti gli altri. Al ministro interessa salvaguardare gli affari, senza esporsi troppo con le banche per un progetto per il quale i soldi non ci sono. Lo stesso tunnel geognostico è partito grazie al finanziamento europeo di 172 milioni di euro e il tunnel principale dipende dal 40% che l’UE dovrebbe buttare sul piatto.

Quindi niente investimenti a Torino e in Bassa Val Susa, ma via a testa bassa per completare il tunnel geognostico di Chiomonte e far partire il tunnel di base. La tavola del Tav resta imbandita, ma per il momento non si aprono nuove cucine e nuove abbuffate di denaro pubblico, usato per fini privatissimi.

Non solo. Se non cantierizzano in Bassa Valle, se non fanno le nuove gallerie, se non spostano l’autoporto di Susa, se non devastano la frazione San Giuliano a Susa, evitano un ulteriore duro confronto con il movimento No Tav sul terreno dove è nato ed è cresciuto, quello della Bassa Valle.

Nonostante la repressione il movimento No Tav resta la spina nel fianco di una classe politica abituata a finanziarsi con le grandi opere, garantite dalla legge obiettivo, che semplifica controlli e verifiche sull’ambiente, il lavoro, la sostenibilità economica.

Quella del ministro Del Rio è una truffa ben impacchettata ed infiocchettata. La stessa di sempre.

Le relazioni politiche e sociali che il modello Tav prefigura presuppongono la crescita infinita della produzione e del trasporto delle merci. Una follia sul piano ecologico, sociale, politico. La follia della logica del profitto, accentuata dalla smaterializzazione della ricchezza, più che insostenibile, perché banalmente impossibile.

Ascolta la diretta realizzata dall’info di Blackout con Angelo Tartaglia, docente al Politecnico di Torino ed esponente del Controsservatorio Val Susa, che ci ha mostrato, anche su un piano squisitamente tecnico, la trasparenza del gioco di Del Rio

Di seguito l’articolo di Tartaglia, uscito sul Fatto Quotidiano del 4 luglio:

“I maggiori mezzi di comunicazione hanno dato grande rilievo all’intenzione manifestata dal ministro Delrio di modificare il tracciato della tratta italiana della nuova linea Torino-Lione (Nltl), riducendo costi e impatti sul nostro versante. Come sempre ci si è sbizzarriti nelle valutazioni “politiche” senza nemmeno provare a entrare nel merito. Il ministro ha parlato di una “revisione” del progetto, di una riduzione delle gallerie ivi previste, di una maggiore utilizzazione della linea storica e, in conseguenza di ciò, di una riduzione della spesa, da 4,3 a 1,7 miliardi. Con una sorta di gioco di prestigio si cerca così di trasformare in dimostrazione di attenzione alle istanze dei cittadini e ai problemi economici del Paese una scelta che, da un lato, è ineluttabile e, dall’altro, dimostra che la faraonica ipotesi iniziale realizzava in realtà un inutile spreco (in quella tratta come in tutta l’opera).

La nuova soluzione altro non è che la riproposizione di una strategia di realizzazione per fasi, in cui il maggior utilizzo del tracciato esistente (sul solo versante italiano) sarebbe transitorio, fino al 2030, rinviando la soluzione definitiva, per mancanza di denaro, al 2050 e oltre… E ciò senza dare risposta alla domanda fondamentale che la stessa “apertura” del ministro pone: perché non utilizzare, con opportuni interventi di ammodernamento, tutto il percorso attuale, lasciando cadere un tunnel di base che, nella versione prevista, sarebbe del tutto inutile senza gli adduttori sul versante italiano e francese?

Le manipolazioni del tracciato lasciano tal quale la questione fondamentale e cioè il fatto che la Nltl è un’opera inutile realizzata a debito pubblico, direttamente, per la quota italiana, e indirettamente, per quella europea (in Francia è la Court des Comptes che ha da ridire sulla produttività della spesa); un’opera per di più destinata ad accumulare passività, sempre a carico nostro, anno dopo anno. Le ragioni di questa valutazione sono state esposte in dettaglio in moltissime occasioni e non sono mai state contestate o smontate; in particolare non è mai stato accettato un pubblico confronto in sede tecnica.

Le ferrovie non si dimensionano in base alle chiacchiere della politica e alle dichiarazioni ai giornali, ma in base alle tonnellate che si prevede di trasportare. Ora, il fatto è che le tonnellate che attraversano la frontiera terrestre tra Italia e Francia lungo tutti i canali e in tutte le modalità sono in calo dal 2002; lungo l’asse della Valle di Susa il flusso (ferroviario) è circa un sesto della capacità della linea; il flusso attraverso l’intero arco alpino mostra la tendenza a stabilizzarsi dal 2012 in poi, dopo aver visto, fino al 2008, andamenti crescenti lungo le direzioni da nord a sud; l’economia mondiale continua a trovarsi in condizioni di stagnazione dovuta ai vincoli materiali che i governanti ignorano.

Queste tendenze hanno delle spiegazioni che, nella sintesi qui necessaria, sono riconducibili alla saturazione materiale dei mercati dell’Europa centro-occidentale, idea che i “politici” tradizionali, insieme ad una parte degli economisti, si rifiutano di accettare. Per capire di che cosa si tratti basta pensare a una unità abitativa media italiana, francese, tedesca… e ai beni, attrezzature e oggetti (cose che vengono trasportate) reperibili al suo interno.

È difficile immaginare che ce ne possano stare molti di più di quanti ce ne sono. È certamente possibile rinnovare, cambiare, ammodernare quegli oggetti, ma non si può pensare di ridurre a pochi giorni i tempi di sostituzione (proviamo a pensare ad autoveicoli, elettrodomestici e persino telefonini). Insomma il flusso totale di merci può oscillare un poco su e giù ma non può crescere in modo esplosivo. Orbene i proponenti la Nltl hanno individuato quale dovrebbe essere il flusso di merci (complessivo, non solo ferroviario) tale da giustificare economicamente l’opera (occhio e croce tre volte quello attuale) e hanno trasformato questa esigenza in “previsione” per la prossima decina d’anni (il moltiplicatore diventerebbe addirittura 15-20, estrapolando al 2053).

Queste “previsioni” sono del tutto infondate; per ottenerle i consulenti hanno utilizzato anche modelli matematici manipolando in maniera plateale e professionalmente indecorosa i parametri in modo da far emergere i risultati richiesti dai committenti. Questi sono i nodi e sicuramente non è il tracciato italiano della linea a scioglierli. Non so quanto Delrio sia “ambientalista”; so che il suo governo e molti altri soggetti nel merito non entrano e alle obiezioni di sostanza non hanno risposte. Ma i fatti sono più testardi e il guaio è che le conseguenze della irresponsabilità le pagheremo tutti.”

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No Tav. Fuga nella libertà

L’ultima operazione repressiva contro i No Tav è scattata martedì scorso. Due arresti, nove persone ai domiciliari, 12 con obbligo di firma quotidiano. Nel mirino la manifestazione popolare del 28 giugno 2015, quando un corteo partito di Exilles, violò i divieti e provò a buttare giù i jersey che chiudevano l’accesso al cancello nei pressi della centrale Iren di Chiomonte.
Al secondo tentativo i jersey vennero giù.

Martedì sera il polivalente di Bussoleno, dove da tempo era prevista un’assemblea popolare, è gremito di solidali, che si stringono ai No Tav colpiti dalla repressione. Quel 28 giugno c’eravamo tutti.
Due No Tav prendono la parola e dicono chiaro che non intendono piegarsi agli ordini della magistratura. Nicoletta annuncia che non andrà a firmare e che non accetterà neppure i domiciliari, perché non vuole che la sua casa si trasformi in prigione.
Poi prende la parola Giuliano del Cels. Lui è evaso dai domiciliari. Sa che verrà arrestato ma ha deciso di non intende cedere.
La loro decisione spinge anche altri alla disobbedienza. Alla fiaccolata che giovedì 23 attraversa il centro di Bussoleno, un altro No Tav, Gianluca, ancora latitante, dichiara che non accetterà i domiciliari a Torino e aspetterà la polizia all’osteria No Tav La Credenza. Anche Eddy è uccel di bosco e invia una lettera al movimento, e dichiara la sua scelta di disobbedire.

Una risposta forte e chiara alla Procura di Torino.

Di seguito la lettera che Giuliano ha letto alla fiaccolata di Bussoleno:

“La misura è colma

Nella volontà di metterci in mezzo alla costruzione del progetto dell’Alta Velocità ci siamo incontrati in tanti.

Iniziare a guardare in modo diverso la terra in cui si vive per capire se le trivelle stanno arrivando.
Alimentare il passaparola, prendere la macchina per riuscire ad accorrere in fretta.
Recuperare del materiale da buttare sulla carreggiata per bloccarla.
Preparare un tè per scaldare la notte tutti insieme.
Prendersi la Maddalena, organizzare collettivamente le giornate e vivere questo spazio rompendo la propria quotidianità.
Non avere paura di difenderlo insieme.
Riscoprire i sentieri e trovare nuove vie per arrivare al cantiere, sperimentare modi diversi per attaccarne le reti.
Stringersi attorno a chi per tutto questo viene punito e non lasciarlo solo.

La lotta qui ha cambiato la vita di molti di noi.
La lotta qui è riuscita a dare molto filo da torcere alla realizzazione dell’opera.

Proprio per questo ci hanno attaccato da più fronti: hanno fatto di un cantiere un fortino, hanno militarizzato la valle, hanno promesso compensazioni e deciso tavoli di trattativa per guadagnarsi gli indecisi; hanno provato a spaventarci con multe, misure cautelari e arresti.

In questo quadro s’inserisce quest’ultima operazione repressiva.
Il 21 giugno la polizia ha bussato alle porte di molti di noi per portare ancora misure cautelari e arresti. In questo momento in cui gli ostacoli fanno faticare la lotta, viene colpita l’ostinazione di 23 persone, qualcuno che in valle ci vive e qualcuno che ha deciso di esserci con costanza.

Se di prima impressione parrebbe che non si siano fatti scrupoli obbligando persino delle signore di settant’anni a presentarsi quotidianamente dai carabinieri e utilizzando misure straordinarie come l’arresto e l’isolamento dopo una perquisizione, in realtà – a ben vedere – c’è la volontà precisa di stroncare la lotta.

Se questa volontà ci è già chiara da tempo, se gli spazi per lottare sono sempre più risicati, se le nostre vite sempre con più facilità sono legate a delle carte di tribunale, è arrivato il momento in cui tutto ciò non si può più accettare.

La misura è colma.

Ecco perché ho deciso di non trasformare la mia casa in prigione, me stesso in carceriere e permettere di essere allontanato dai miei affetti e dalla lotta. Consapevole delle conseguenze di questo gesto e sulla spinta di chi a Torino già ha sperimentato una strada come questa e ha rifiutato le misure cautelari, questa è l’unica scelta che ho sentito di fare.

Una scommessa di chi è stato colpito e di chi in Val di Susa e altrove vorrà vederci un’occasione per rilanciare la nostra forza.

Giuliano,
Cels 23 giugno 2016

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No Tav. Assolti Gabriele e Matteo

Sono stati assolti Gabriele e Matteo, i due no Tav processati per l’episodio del carabiniere che, durante il 3 luglio 2011, venne dimenticato nel bosco dai suoi colleghi dopo una sortita poco felice. Era il giorno dell’assedio No Tav al nascente cantiere della Maddalena, meno di una settimana dopo lo sgombero della libera repubblica della Maddalena.
La Procura di Torino ha formulato l’accusa di sequestro di persona e di lesioni. Destinata all’archiviazione, per l’inconsistenza delle prove contro i due No Tav, è stata portata a dibattimento quando il fascicolo è passato dal tavolo di Ferrando, promosso Procuratore capo a Ivrea, a quello di Andrea Padalino.
La sentenza è stata pronunciata questa mattina dopo un processo celebrato a porte chiuse come prescrive la scelta del rito abbreviato. Questo tipo di processo viene fatto sulla base delle prove documentali, senza testimoni.
La Procura aveva chiesto 9 anni di carcere per sequestro di persona.
Il tribunale non ha considerato convincenti le tesi della Procura, respingendo le richieste di Andrea Padalino.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Silvia, No Tav del comitato alta valle, dal presidio solidale al mercato di Susa.

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No Tav. Chiesti 9 anni per Gabriele e Matteo

9 anni di reclusione. Questa la richiesta formulata dal PM Rinaudo al termine dell’ultima udienza del processo contro Matteo e Gabriele. I due No Tav sono accusati di aver sequestrato e rapinato un carabiniere nei boschi della Clarea il 3 luglio del 2011, il giorno dell’assedio al nascente cantiere di Chiomonte, a meno di una settimana dallo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena.
Quest’inchiesta, destinata all’archiviazione, vista l’inconsistenza dell’apparato accusatorio, dopo il passaggio delle carte dal PM Ferrando, promosso Procuratore Capo ad Ivrea, al PM Rinaudo, è approdata in tribunale.
Il processo, celebrato a porte chiuse, come prevede il rito abbreviato scelto dai due No Tav, si concluderà il 10 maggio, quando verrà emessa la sentenza. In caso di condanna ci sarà la riduzione di un terzo della pena. Il rito abbreviato comporta che il processo si celebri sulla base delle prove documentali senza dibattimento.
Di fronte al tribunale di Torino, militarizzato più del consueto per l’udienza di ieri si sono radunati numerosi solidali, che hanno dato vista ad un presidio.
Fuori dal tribunale è stata riproposta una performance teatrale, costruita sulle testimonianze di chi c’era, sulla Libera Repubblica della Maddalena, luogo simbolo di una lotta che, al di là della resistenza, si è sostanziata nella liberazione di un’area dove sperimentare relazioni politiche e sociali libere. Il giorno prima alla Ramat era stata messa in scena la stessa performance, all’interno di una giornata di informazione sulla vicenda, ma, soprattutto, di ricostruzione di quei giorni del 2011, quando nei boschi di Clarea si è lottato per uno spazio di libertà fatto di barricate e autogestione.

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Sabotaggio al cantiere Tav: sentenza per Francesco, Graziano e Lucio

Si è svolto martedì 9 febbraio il processo di secondo grado contro Francesco, Graziano e Lucio, accusati del sabotaggio della notte tra il 13 e il 14 maggio 2013 al cantiere di Chiomonte. In primo grado, erano stati condannati a due anni e dieci mesi e 20 giorni, usufruendo della riduzione di un terzo per la scelta del rito abbreviato. Una condanna proporzionalmente più pesante di quella inflitta a Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò, condannati a tre anni e mezzo per lo stesso episodio.

Il tribunale ha confermato la sentenza di primo grado per Graziano, riducendo a due anni e due mesi la pena per Francesco e Lucio.
Per l’intera mattinata davanti al tribunale si è svolto un presidio solidale La buona notizia della riduzione di 8 mesi e 20 giorni per due dei tre attivisti alla sbarra, è stata resa amara dalla conferma della condanna per Graziano.
Il tribunale si è riservato di far uscire le motivazioni della sentenza entro 90 giorni.
Solo allora potremo sapere le ragioni della decisione della corte d’appello.
Eugenio Losco, avvocato difensore, ipotizzava che il tribunale avesse valutato in base al diverso comportamento processuale dei tre No Tav. Francesco e Lucio, come già Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò hanno rivendicato in aula la partecipazione all’azione di sabotaggio al cantiere, Graziano aveva invece deciso di non rilasciare dichiarazioni.

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