Categoria: anarchia

Il seme dell’odio

Hannah Arendt, osservatrice al processo ad Eichmann, il “contabile dello sterminio”, che si atteggiava a grigio burocrate, scrisse di “banalità del male”. Probabilmente, al di là delle polemiche che suscitò all’epoca la sua rappresentazione di uno dei responsabili dello sterminio di milioni di persone, Arendt non poteva sospettare la fortuna che avrebbe avuto nei decenni successivi la sua amara constatazione su quanto conformista, insignificante, convenzionale, incolore fosse il male.
Oggi sappiamo che Eichmann era ben più che un mero “contabile”, bravo nel rendere più veloci, semplici, efficaci le modalità con le quali a ritmi da catena di montaggio, si raccoglievano, selezionavano, spogliavano, uccidevano e bruciavano i corpi di milioni di persone eliminate come polli allevati in batteria. Con la stessa, quieta, indifferenza. Resta il fatto che tanti furono gli esecutori materiali dello sterminio, come tanti vi collaborarono mettendo a frutto le proprie competenze tecniche, giuridiche, mediche, amministrative. Chi non collaborò attivamente sapeva ed approvava. La grandissima parte di queste persone non era né sadica né incline alla violenza.
Tanta cinematografia statunitense degli anni successivi ha confezionato un’immagine della dittatura nazista deformata dalle esigenze di propaganda del momento. La Germania Ovest era un’alleata preziosa durante la guerra fredda con l’Unione Sovietica. Il cinema costruì la narrazione, falsa ma potente, di una Germania schiacciata dal tallone dell’elite hitleriana e dalle SS, dove il popolo e l’esercito erano ignari ostaggi di una macchina feroce.
Sappiamo che non è così. Sappiamo che la “soluzione finale” era narrata nei cinegiornali, sappiamo che la deportazione e l’uccisione degli ebrei europei era approvata e plaudita, sappiamo che tutto venne codificato in un solido apparato legislativo.
Sappiamo che il Terzo Reich godeva dell’appoggio di un’ampia maggioranza della popolazione, perché era quel che era. Punto.
Altrimenti non vi sarebbe stata Auschwitz.
I 12 anni di nazismo venivano ridotti ad una parentesi di follia. Irripetibile.
Nel 1963 Arendt, nello specchio di Eichmann vide riflessa la normalità dello sterminio. Una banale procedura. Così banale che potrebbe ripetersi.
Non allo stesso modo, ma con la stessa ineluttabile semplicità. Semplice come la vita di ogni giorno, come la quotidianità che si nutre di ripetizioni, di piccoli rituali, di procedure consolidate.
Capita di chiedersi se non rischiamo di trovarci presto di fronte al bivio nel quale si separano complici e vittime, perché il tempo delle nuance, delle sfumature, delle gradazioni di grigio sta finendo.
Siamo abituati a pensare che il male sia estraneo alla vita quotidiana, estraneo alla normalità. Siamo convinti che il male non sia mai incolore. Persino quando lo è fingiamo che non lo sia, fingiamo che rappresenti l’eccezione, mai la regola.
La guerra, che pure è divenuta una costante di questi nostri anni, con truppe italiane che combattono su tanti fronti, viene raccontata come “male necessario”, o finanche come “male minore”. L’articolarsi della narrazione bellica intorno ad ossimori come la guerra umanitaria o edulcorazioni come l’operazione di polizia internazionale dimostra la volontà di nascondere la verità sui massacri delle truppe italiane.
Tutti sanno che la polizia picchia e tortura in modo ben più sistematico di quanto non rivelino vicende che solo la tenacia dei parenti delle vittime rende noti. Finché può lo Stato e le sue guardie armate negano l’evidenza, negano che Cucchi, Uva, Aldrovandi e tanti altri siano stati massacrati intenzionalmente. Negano perché temono lo sdegno che certi delitti potrebbero suscitare.
Negano e nascondono perché sono convinti di non avere il sostegno di una maggioranza significativa.
Sino ad oggi. Un giorno di questi potrebbe accadere che smettano di coprire con un tappeto il sangue per rivendicare la violenza sistematica di polizia, carabinieri, militari.
L’attuale ministro dell’interno, Matteo Salvini, ha approvato l’operato delle forze dell’ordine nel caso di Stefano Cucchi. Se il ministro di polizia sostiene che le botte a Cucchi sono giustificate, non sono ancora cambiate le leggi, ma potrebbero essersi modificati i rapporti di forza. Salvini ritiene di avere l’appoggio popolare: numerosi indizi inducono a ritenere che le sue convinzioni non siano prive di fondamento.
Questa lunga estate sembra scivolare via senza troppi contraccolpi, ma il sottile senso di inquietudine che attraversa le piazze dove, sin troppo timidamente, qualcuno prova a mettersi di mezzo, allude alla delicatezza del momento. La lunga storia della guerra ai migranti è come una pietra che rimbalzi a lungo quieta lungo un declivio, facendosi quasi frana, senza tuttavia mai correre all’impazzata. Pare che quest’estate di colpo il pendio sia divenuto più scosceso e la corsa stia accelerando. Non è questione di numeri ma di sostanza.
Le statistiche disegnano grafici inequivocabili: dallo scorso anno gli sbarchi sono nettamente diminuiti. Nell’estate del 2017 il governo Gentiloni inaugurò la stagione di lotta alle ONG impegnate in operazioni di serch and rescue nel Mediterraneo e strinse accordi con le milizie di Zawija e Sabratha, affinché bloccassero il traffico di migranti sotto il loro controllo.
Quest’anno il terreno era già stato sgomberato e reso disponibile a nuove operazioni di guerra non dichiarata. Il nuovo ministro ha solo completato l’opera, inserendo un tassello che né il suo predecessore Minniti, né, a suo tempo il suo camerata Maroni avevano osato portare sino in fondo.
Lo scontro esplicito con l’Europa è il perno su cui ha girato l’operato di Salvini e del ministro dei trasporti, il pentastellato Toninelli.
Impedire lo sbarco di centinaia di persone ripescate in mare da un’unità della Marina Militare Italiana va al di là della guerra alle ONG, criminalizzate come complici dei trafficanti. Negli ultimi mesi di governo già Minniti aveva chiuso i porti ad alcune ONG e, quando diede il via libera agli sbarchi, scattarono inchieste, blocchi delle imbarcazioni, accuse gravissime agli equipaggi.
Nel 2011, dopo un lunghissimo braccio di ferro con l’Europa, un altro ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni, si arrese e, in una sola notte, fece trasportare da Lampedusa alla Sicilia e, di lì, nei campi tenda settemila profughi della guerra per la Libia.
L’attuale governo è in sostanziale continuità con quelli precedenti di centro-sinistra e di centro-destra o siamo di fronte ad una frattura, ad una novità radicale, ad un salto di qualità?
Il dilemma, sebbene appaia autentico, nel dibattito politico estivo assume il sapore agre dell’interrogativo retorico. Rappresentare il governo Salvini-Di Maio nel segno della discontinuità radicale sui temi dell’immigrazione è operazione utile sia a destra che a sinistra del quadro istituzionale. Salvini, in continua campagna promozionale, vuole dimostrare di essere riuscito dove tutti gli altri hanno miseramente fallito, la disastrata opposizione Dem spera di rifarsi il trucco con l’antifascismo e l’antirazzismo.
Entrambi hanno ben poca lana da tessere, muovendosi sul terreno della propaganda.
Per i nazionalsocialisti non sarebbe stato facile promuovere lo sterminio degli ebrei se sin dai tempi della Seconda Internazionale i socialdemocratici non avessero soffiato sul fuoco dell’antisemitismo, equiparando l’ebreo al capitalista. Il che non implica negare la frattura ed l’imponente salto di qualità nazista.

La legislazione sull’immigrazione nel nostro paese ha delineato una rottura dell’ordine liberale, configurandosi come “diritto penale del nemico”, secondo la definizione coniata dal giurista tedesco Jacobs nel 1985, e articolandosi in termini che definirei di “diritto amministrativo del nemico”. Il mancato accesso ai diritti di cittadinanza finisce con il declinarsi in negazione dei diritti umani.
I governi di centro-sinistra, pur avendo inaugurato questa stagione nel lontano 1998 con la legge Turco-Napolitano che istituì la detenzione amministrativa nel nostro paese, provano a mantenere intatta la patina umanitaria. Una patina sottile. Tragicamente ridicola, ma simbolicamente importante. Per quanto abnormi siano la detenzione e la deportazione, per quanto sia criminale la blindatura delle frontiere, che uccidono chi prova ad attraversarle, per quanto evidenti siano le responsabilità di tutti i governi, le cerimonie del cordoglio mettono in scena la finzione che le stragi siano “disgrazie”, “incidenti” da imputare al mare o ai trafficanti.
Il nuovo governo ha annunciato un pacchetto sicurezza, che, pur annunciando un prolungamento della detenzione amministrativa non rappresenta una significativa rottura con il recente passato.
La novità è altrove. La sottile patina umanitaria, etichettata come “buonismo” è stata stracciata. La gente in viaggio viene etichettata come criminale, portatrice di malattie, pericolosa. Nemica.
Tutti. Sempre. Uomini, donne, bambini. Quest’estate non abbiamo assistito alla messa in scena del lutto istituzionale. Le barche affondate mentre le ONG assistevano impotenti, l’incriminazione di chi si è ribellato al ritorno in Libia sono state ragione di orgoglio.
Salvini è indagato per sequestro di persona, mancata assistenza perché non si è neppure preoccupato di adeguare le norme alle pratiche da lui imposte. Può così, pur essendo al potere, giocare il ruolo del perseguitato. Un gioco che i suoi alleati a cinque stelle hanno fatto con abilità e profitto per anni. Lungo questo declivio il ruzzolar di pietre può divenire frana. Il governo del cambiamento potrebbe chiedere ed ottenere più potere per assolvere il mandato di proteggere la comunità – gli italiani dimentichi del Po e dei riti celti – dal moloch della finanza, dall’immigrazione che mira a spezzare e cancellare l’identità, dalla libertà che nega il nucleo etico familiare.
Tra il 9 e il 12 dicembre del 2013 a Torino migliaia di persone si riversarono in strada imbracciando tricolori, decise a bloccare tutto perché deluse dal cambiamento che non arrivava, spaventate per il futuro che non c’era più. Bloccarono le strade e abbracciarono i poliziotti. Sui loro volantini si auspicava un governo militare, una dittatura. Finì presto. Tutti, delusi tornarono a casa, i media affondarono nel ridicolo quell’avventura e nessuno ci pensò più.
Oggi quella gente ha trovato la propria rappresentanza, un governo che ha promesso di realizzarne il programma.
Mentre scrivo le agenzie hanno appena battuto la notizia di un profugo sedicenne aggredito e ferito a Raffadali. Chi lo ha colpito gli ha gridato “vattene a casa tua”. È l’ultima di tante vicende tutte uguali.
Provate ad immaginare. Un uomo dal balcone vede una donna rom con una neonata in braccio, entra in casa, prende il fucile a pallini e spara alla bambina.
Un altro tizio vede un lavoratore sull’impalcatura. Prende il fucile e lo ferisce. L’operaio è di origine africana. Il ministro dell’Interno si mostra comprensivo con i fucilieri della ringhiera.
Impossibile? È successo quest’estate nel Belpaese. Ci sono case dove il rancore cova da tanto tempo, distillandosi goccia a goccia, corrodendo ogni senso di legame umano. Il seme dell’odio sta producendo i suoi frutti avvelenati.
Nessuno dica che non sapeva, nessuno dica che non aveva capito.

Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista

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L’altro Pride. Contro frontiere e decoro

Giugno è il mese del Pride. La giornata dell’orgoglio delle persone omosessuali, transessuali, queer, bisex, intersex nasce dopo la rivolta di 49 anni fa a a New York. Stanch* di violenze, irrisioni, soprusi della polizia quelli dello Stonewall alzarono la testa e attaccarono la polizia. Il primo Pride fu un riot.

A Torino il Pride è un’imponente sfilata attraversata da decine di migliaia di persone. Ma Stonewall è lontana, lontanissima da Torino.
Il Pride anno dopo anno è diventato un ibrido tra un carnevale, una passerella istituzionale e uno evento commerciale.
C’è sempre meno spazio per le voci critiche, per un approccio intersezionale, per chi vuole che libertà e diritti siano per tutti, anche per gli esclusi dal grande banchetto, per i migranti, i poveri, i rom, i senza casa.
Lo slogan di quest’anno era “Nessun dorma”, una maniera appena accennata di alludere alle componenti omofobe, maschiliste, transfobiche del governo giallo-verde. Senza esagerare, senza permettersi critiche al governo della città e a quello della Regione. In punta di piedi, per non disturbare troppo.
Non poteva essere altrimenti, perché le istituzioni erano in testa al corteo.
La sfilata del 16 giugno è stata organizzata dal Coordinamento Torino Pride con il patrocinio di Comune di Torino, Regione Piemonte, Consiglio regionale del Piemonte, Torino Metropolitana, Provincia di Cuneo, Provincia di Novara. Tra gli sponsor la Coop, la Gtt, Il corpo di polizia municipale della città di Torino.

La sfilata, cui ogni carro entrava solo pagando, è stata tenuta sotto controllo dalla polizia di Stato e dal servizio d’ordine di due compagnie private, i City Angels, noti per la pulizia etnica a San Salvario e l’Hydra Service, i picchiatori prezzolati al servizio del PD, tristemente noti per i loro interventi muscolari contro ogni forma di opposizione sociale. Noi li ricordiamo per il camion dello spezzone anarchico e antimilitarista spaccato il primo maggio 2011, ma i loro bastoni si sono esibiti in molte altre occasioni.

Quest’anno al Torino Pride gli attivist* di “Nessun* Norma!”, il Pride contro frontiere e decoro del 28 giugno hanno distribuito volantini, che sono immediatamente entrati nel mirino della polizia, che li ha circondati pretendendo di sequestrarli, per le immagini satiriche stampate sul retro. Immagini considerate offensive, perché non è lecito burlare ministri e sindaci. Specie se si tratta di Salvini, Fontana e Appendino. Diverse compagn* sono state identificate e minacciate dalla digos. Alla fine gli uomini e le donne della polizia politica si sono accontentat* di sequestrare solo una parte del materiale.
Ma non è finita lì. Più tardi è stato aperto uno striscione in via Po ed acceso qualche fumogeno per attirare l’attenzione. Sullo striscione campeggiava la scritta “Il Pride è rivolta. Contro frontiere, decoro, istituzionalizzazione. Nessun Norma” Lo striscione è stato due volte rimosso dal servizio d’ordine del Pride. Un fumogeno è stato lanciato addosso alle persone.

La repressione al Pride istituzionale ha dato una bella spruzzata di pepe a chi stava organizzando il corteo indecoroso del 28 giugno.

In maggio individui e gruppi diversi, che si erano intrecciati nelle lotte contro le frontiere, gli sgomberi, la repressione hanno cominciato ad incontrarsi per costruire un altro Pride. Una scommessa che ha visto accanto Ah Squeerto e Studenti Indipendenti, Manituana e Federazione Anarchica, Breacktheborder e l’infoshock del Gabrio.
Una scommessa difficile, che si è dovuta scontrare con l’indifferenza e l’ostilità di chi, anche nei movimenti di opposizione sociale, nonostante tutto, preferiva affacciarsi al Pride istituzionale. Non Una di Meno, rete “transfemminista ed intersezionale”, avrebbe potuto portare un contributo importante all’iniziativa, invece si è divisa senza raggiungere una sintesi, ma, nei fatti partecipando attivamente, sia pure in tono minore, solo al Pride istituzionale dove sono stati distribuiti volantini, fatti interventi e portate a spasso le matrioske.
Una brutta scivolata della Rete torinese, preoccupante in un clima politico e culturale sempre più difficile.

Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.
E non può che andare peggio. Se Appendino riuscirà ad aggiudicarsi il carrozzone olimpico del 2026, il restyling della città costerà caro a chi non corrisponde ai criteri di decoro urbano.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria, cedendo alle tentazioni populiste e nazionaliste, rischiando di scivolare sul declivio della guerra tra poveri.

Il governo della città è stato per decenni nelle mani del Partito Democratico.
Da due anni governano i Cinque Stelle. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche e dai padroni.
Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. Appendino fa la guerra ai rom, sguinzaglia i vigili urbani a caccia di mendicanti, lavavetri, spacciatori di accendini, senza casa.

Chi aveva creduto alla retorica della democrazia penta stellata sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. I posti occupati che non hanno accettato la normalizzazione a Cinque Stelle sono stati sgomberati. La baraccopoli rom di corso Tazzoli è stata demolita per la “sicurezza” degli abitanti gettati in strada.
La retorica della “cittadinanza” partecipativa sceglie chi includere e chi escludere, nel gioco feroce delle poltrone, del potere, delle alleanze.
Appendino prepara la vetrina olimpica, cementifica la città, si congratula con la polizia che arresta gli anarchici… sfila in testa al Pride e benedice le famiglie arcobaleno.

Il 28 giugno l’altro Pride ha attraversato il centro cittadino, nonostante il nuovo questore avesse imposto divieti di sapore squisitamente politico. Piazza Palazzo di città, dove ha sede il comune, è stata chiusa e blindata da Digos e poliziotti in assetto antisommossa. Un blocco risibile di fronte alla folla queer che li fronteggiava, irrideva, mimava. Il segno che i timori per “l’ordine pubblico” erano solo paura di corpi ed identità erranti indisponibili a farsi rinchiudere in una gabbia dorata, dove il prezzo della “libertà” è l’accettazione delle linee di cesura che attraversano il nostro spazio sociale.
Cartelli con le “coppie di fatto” danno il segno di una critica intollerabile per la questura e la prefettura, la lunga mano del governo sui territori.
Chiara Appendino e Lorenzo Fontana, la sindaca gay friendly ed il ministro della famiglia omofobo e maschilista. Merkel ed Erdogan, Di Maio e Salvini, le coppie oscene del teatro politico.

Il corteo, cresciuto lungo il percorso, ha sostato in piazza Castello, percorso via Po e via Accademia tra musica, balli, corpi liberi e interventi. In corso Vittorio è dilagato su tutti e quattro i viali sino alla blindatissima stazione di Porta Nuova, vera frontiera invisibile nel cuore di Torino. Ogni giorno, da mesi, i binari da dove partono i treni diretti in Val Susa sono sorvegliati da pattuglie interforze di poliziotti e militari, che selezionano i passeggeri. Se sei nero, anche se hai un documento in tasca ed un biglietto, ti rimandano indietro. La frontiera con la Francia erige i suoi muri nel cuore di Torino.
Le frontiere sono linee su una mappa. Sottili righe scure fatte di nulla che uomini armati in divisa rendono vere.
Le frontiere dividono e uccidono.
Nel Mediterraneo e in montagna. Nei ghetti dei raccoglitori di frutta e pomodori, nei cantieri dove la sicurezza è un lusso.
Nei tanti interventi durante il corteo abbiamo ricordato Blessing e Mamadou, uccisi dalle frontiere chiuse al Montgenevre, Soumaila Sacko ammazzato dalla lupara al servizio dei padroni.
Le frontiere sono in mezzo a noi. Sono le leggi sul decoro che cacciano i poveri dai luoghi pubblici, sono le leggi sulla proprietà che negano una casa a chi non ce l’ha.
Sono le frontiere tra i sessi, che piegano i corpi e le soggettività erranti alle regole della famiglia, nucleo “etico” che ingabbia le relazioni, fissa i ruoli, nega la possibilità di percorsi individuali fuori dal reticolo patriarcale, statale, religioso.
Il corteo si è concluso con una festa al Valentino benefit per il rifugio autogestito Chez Jesus di Claviere.

Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo, hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Questi principi tengono saldamente fuori tanta parte dell’umanità. Poveri, donne, omosessuali, transessuali, bambini, stranieri erano/sono esclusi dall’accesso a questi diritti. La loro universalità, formalmente neutra, è modellata sul maschio adulto, benestante, bianco, eterosessuale. Il resto è margine. Chi non è pienamente umano non può essere “cittadino”, soggetto di diritto.
Chi non è pienamente umano non può aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni. Per chi ne è escluso si tratta di privilegi, per chi vi è inscritto diviene una gabbia normativa.
Come il matrimonio. Un legame sancito dallo Stato (e dalla chiesa) che fissava la diseguaglianza e l’asservimento delle donne, sottomesse al marito alla cui tutela venivano affidate. Eterne minorenni passavano dalla potestà paterna a quella maritale.
Le lotte che hanno segnato le tante vie della libertà femminile hanno in parte cancellato quella servitù. Ma ne hanno pagato il prezzo. Il prezzo dell’emancipazione femminile è l’adeguamento all’universale, che resta saldamente maschile, bianco, benestante ed eterosessuale.
Lo spazio della sperimentazione, della messa in gioco dei percorsi identitari, tanto radicati nella cultura da sembrare «naturali», tende ad estinguersi, polverizzato dalle cazzutissime donne in divisa, dalle manager in carriera, dal femminismo della differenza che inventa le gerarchie femminili per favorire manovre di lobbing. Tutto deve diventare “normale”, vendibile, controllabile.
Le differenze tra le persone non sono iscritte nella natura o nella cultura, ma offrono una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Percorsi possibili solo fuori e contro il reticolo normativo stabilito dallo Stato, che, non per caso, nega diritti e tutele alle persone che scelgono di non sposarsi.
La strada del movimento lgbtqi è stata ed è ancora in netta salita. Fascisti e preti continuano le loro crociate per escludere dall’umanità una sua parte. Le discriminazioni, la violenza statale e culturale sono molto forti.
Chi vorrebbe le stesse possibilità degli eterosessuali – adozioni, pensione di reversibilità, diritto alla cura del partner – deve adeguarsi ad un modello rigido di relazione costruita sulla coppia e sui loro figli, alla legalizzazione dei sentimenti, delle passioni, della tenerezza.
Chi sceglie di starne fuori, di fare altre strade, non può avere questi privilegi anche se eterosessuale.
La normalizzazione delle nostre identità erranti è il prezzo per accedere ad alcune libertà che si ottengono solo con il matrimonio, un legame sancito e regolato dallo Stato. È un prezzo che tanti non sono dispost* a pagare.
Abbiamo attraversato la città con la leggerezza di chi si scioglie da vincoli e lacci. Con la stessa leggerezza attraversiamo le nostre vite.
Senza frontiere, che separino i sommersi dai salvati, i cittadini e gli stranieri.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.

Maria Matteo

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2 giugno a Torino. Lo sberleffo degli antimilitaristi

Tanto tuonò che non piovve. Doveva essere il 2 giugno della riscossa democratica contro la coalizione giallo-verde. I pentastellati avevano chiesto la destituzione di Mattarella per alto tradimento, il PD aveva fatto una chiamata alle armi a favore del presidente della Repubblica.
Poi i giochi si sono chiusi con un compromesso. Il professor Savona non è andato al Tesoro, ma si è preso una poltrona da Ministro è tutto è rientrato nei binari.
Evitato l’economista blasonato ma antieuro all’economia, Mattarella ha dato il via al governo. Il presidente del consiglio con i titoli taroccati e la sua allegra banda di razzisti, omofobi, misogini hanno avuto la benedizione del presidente, che ha firmato senza batter ciglio.

A Torino, il 2 giugno, il presidente Dem della Regione, Chiamparino, e la sindaca a 5 Stelle della città, si sono trovati fianco a fianco alla cerimonia militarista di piazza Castello.
Nel capoluogo subalpino, come in tutt’Italia la Repubblica ha celebrato se stessa con esibizioni militari, parate e commemorazioni.
Lo Stato ha il monopolio legale della violenza. Guerre, stupri, occupazioni di terre, bombardamenti, torture, l’intero campionario degli orrori umani, se fatto da uomini e donne in divisa, diventa legittimo, necessario, opportuno, eroico.
Le divise da parata, le bandiere, le medaglie non sono solo retaggio di un passato più retorico e magniloquente del nostro presente da supermercato, ma la rappresentazione sempre attuale che lo Stato da di se stesso.
La democrazia reale, strumento duttile di ricambio delle elite, non può fare a meno della forza militare e poliziesca, modulandone l’impiego in base ai rapporti di forza che attraversano la società.
Da qualche anno la funzione di polizia e quella militare si intrecciano e si intersecano sempre più. Gli interventi bellici oltre confine e sui confini sono diventati operazioni di polizia, mentre è diventato “normale” l’impiego dei militari con funzioni di ordine pubblico: la distanza tra guerra interna e guerra esterna è assottigliata.

Le guerre che si combattono altrove, sebbene vedano soldati italiani in prima fila, non suscitano indignazione. Forse neppure attenzione: sono diventate “normali”. Necessarie.

La guerra interna contro migranti, oppositori politici e sociali è più tangibile e gode di ampi consensi. Gli impenditori politici della paura sono riusciti a piazzare bene il proprio prodotto, fornendo un nemico “interno” da combattere. L’estraneo, l’intruso, il mangiapane a tradimento.

I tempi sono grami, inutile nasconderselo. Una buona ragione per darsi da fare, nella consapevolezza che il vento può cambiare solo se si da una mano a remare per intercettare la brezza che segna la fine della bonaccia.

Il 2 giugno anche gli antimilitaristi sono scesi in piazza, per contrastare le cerimonia armata per la festa delle Repubblica.
La polizia ha chiuso l’ingresso di piazza Castello, blindandolo con camionette, furgoni e uomini dell’antisommossa.
Il presidio convocato all’angolo con la piazza si è dovuto spostare una decina di metri più indietro. Lì è stato montato un binario e una mostra, che racconta di controlli etnici alla stazione di Porta Nuova, per impedire la partenza dei migranti diretti in alta val Susa e, di lì, in Francia.
Numerosi interventi, musica e volantinaggio per circa un’ora, finché, aperto lo striscione dell’assemblea antimilitarista “contro tutti gli eserciti, per un mondo senza frontiere” ci si è mossi verso la polizia, che dopo qualche minuto si è ritirata. Il piccolo corteo ha guadagnato piazza Castello, dove si era appena conclusa la cerimonia militarista.

La gente in piazza ha ascoltato e plaudito gli interventi finali della manifestazione. Un segnale che qua e là il vento soffia nella direzione giusta.

Nella notte ignoti antimilitaristi hanno appeso uno striscione “militari assassini” al monumento ai bersaglieri in corso Galileo Ferraris e ai sei bersaglieri di ferro hanno messo sul capo mutandine colorate.
Una beffa per smontare la retorica militarista, per “fare la festa” alla Repubblica. Un passante ci ha inviato alcune foto che volentieri pubblichiamo.

Di seguito il volantino che l’assemblea antimilitarista ha distribuito in piazza nel pomeriggio.

“L’Italia è in guerra. A pochi passi dalle nostre case si producono e si testano le armi impiegate nelle guerre di ogni dove.

Le usano le truppe italiane nelle missioni di “pace” all’estero, le vendono le industrie italiane ai paesi in guerra. Queste armi hanno ucciso milioni di persone, distrutto città e villaggi, avvelenato irrimediabilmente interi territori.
L’Italia è in guerra. Ma il silenzio è assordante.
La retorica sulla sicurezza alimenta l’identificazione del nemico con il povero, mira a spezzare la solidarietà tra gli oppressi, perché non si alleino contro chi li opprime.

Chi promuove guerre in nome dell’umanità paga il governo libico e quello turco perché i profughi vengano respinti e deportati.

Ogni giorno dalla stazione di Torino partono treni diretti in alta Val Susa. Polizia e militari selezionano le persone in base al colore della pelle.
In Piemonte i migranti prendono le rotte alpine al confine con la Francia.
Il confine è una linea sottile sulle mappe. Tra boschi e valichi, tra le acque del Mare di Mezzo, non ci sono frontiere: solo uomini in armi che le rendono vere.
Le frontiere tra i sommersi e i salvati sono ovunque, ben oltre i confini di Stato e le dogane.
Ogni strada è una frontiera, da attraversare con circospezione. I senza carte ogni giorno rischiano di incappare in una pattuglia, di essere rinchiusi nel CPR o deportati a migliaia di chilometri di distanza.
Pochi giorni fa una giovane donna per sfuggire ai gendarmi è scappata da sola, di notte nei boschi. L’hanno trovata morta nella Durance. Il corpo di un migrante sconosciuto è riaffiorato nella neve,

I militari che vedete a Porta Nuova e al confine sono gli stessi che fanno la guerra in Afganistan, Iraq, Libia…
Anche qui fanno la guerra. La guerra ai poveri, la guerra a chi fugge dalle bombe e dall’occupazione militare.
Guerra interna e guerra esterna sono due facce della stessa medaglia. Oggi i militari fanno la guerra ai poveri senza documenti, domani faranno la guerra a tutti.

Il silenzio è assordante. Il pensiero sulla sicurezza – lo stesso a destra come a sinistra – sembra aver paralizzato l’opposizione alla guerra, al militarismo, alla solidarietà a chi fugge persecuzioni e bombe.

In Val Susa, nel brianzonese e a Torino c’è chi ha deciso di non stare a guardare la gente che crepa, i ragazzi cui amputano i piedi perché non hanno le scarpe adatte, che si perdono nella neve, che dormono in strada.
Mettersi in mezzo è possibile. Dipende da ciascuno di noi.”

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Vittorio Taviani. Le coq est mort

È morto Vittorio Taviani. Nel 1972, con il fratello Paolo, aveva scritto e diretto il film “San Michele aveva un gallo”. La vicenda, pur con una chiara nuance allusiva, non si riferiva a fatti realmente accaduti.
Il protagonista è un anarchico militante nella Prima Internazionale, condannato all’ergastolo dopo un tentativo insurrezionale.
In galera subiva un isolamento totale. Gran parte della narrazione si dipana intorno ai suoi tentativi di mantenersi lucido in quella situazione terribile.
Dopo dieci anni decidono il suo trasferimento in un altro carcere.

Si trova su un’imbarcazione nella laguna veneta, scortato alla nuova prigione. Durante il viaggio la sua barca incrocia quella di altri detenuti. Uno di loro gli dice che ora il socialismo era elettoralista, che la sua visione della rivoluzione era perdente, perché mancava della scienza del materialismo storico.
L’uomo, in quei pochi minuti prende coscienza del fallimento dell’anarchismo di fronte alla scienza marxista e si suicida, annegandosi nella laguna.
Quel film era il tipico esempio della spocchiosa arroganza dei marxisti di quegli anni, convinti che, forti dei loro gulag, avevano trionfato su quei poveri utopisti degli anarchici.
Tanti anni sono passati da allora. Il marxismo e la socialdemocrazia sono morti, fallendo miseramente nei loro progetti di emancipazione sociale.
L’anarchismo è invece ancora vivo nelle lotte sociali del pianeta.
Anche Vittorio Taviani è morto. Non possiamo non notare la sua incoerenza. Ha preferito morire nel suo letto. Dopo la constatazione del fallimento del marxismo, per un briciolo di dignità, avrebbe dovuto annegarsi nella laguna veneta.
E. P.

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Argentina. Lo spettro del passato che ritorna

Il governo Macrì è deciso a regolare i conti con tutta l’opposizione sociale e politica nel paese.
La dura repressione che ha investito le migliaia di persone scese in piazza contro la riforma delle pensioni non accenna a placarsi.
L’attacco alle già precarie condizioni di vita della popolazione è sempre più forte: aumenti delle bollette, salari bassissimi, elisione delle deboli garanzie per i più poveri.

Durissimo è l’attacco alle comunità mapuche in lotta.
L’unico poliziotto indagato nell’inchiesta sulla sparizione e la morte di Santiago Maldonado, il giovane anarchico sequestrato ed ucciso dalla polizia lo scorso agosto, è stato promosso. Per meriti sul campo.

Nell’inchiesta per l’assassinio di Rafael Nauhel, il giovane mapuche colpito a morte dalle squadre poliziesche Albatros, la magistratura ha deciso di inquisire solo i due compagni che trasportarono Rafael, ormai agonizzante, giù della montagna sino all’ospedale. I due, a loro volta feriti nell’attacco alla comunità resistente di Villa Mascardi, vennero arrestati e poi rilasciati, ora sono stati nuovamente incarcerati.
La magistrata che aveva iniziato l’inchiesta è stata rimossa, mentre il governo ha deciso di costituire un’unità speciale anti RAM. La RAM, resistenza ancestrale mapuche, è considerata un’organizzazione terrorista.

l 27 dicembre, è stato reso pubblico un rapporto di 180 pagine intitolato RAM, preparato dal Ministero della Sicurezza della Nazione in collaborazione con i governi provinciali di Río Negro, Neuquén e Chubut, dove vengono criminalizzati i mapuche che si organizzano e resistono. Nel mirino anche attivisti sociali, di sinistra e anarchici, considerati sostenitori e complici della RAM.
Qui potete leggere il comunicato emesso in risposta al rapporto del governo sottoscritto da numerosissime gruppi, reti territoriali e organizzazioni argentine.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Ivan Colombo, che ha trascorso in Argentina diversi mesi, visitando le comunità mapuche e partecipando alla lotta contro la riforma delle pensioni.

Il governo Macrì è deciso a regolare i conti con tutta l’opposizione sociale e politica nel paese.
La dura repressione che ha investito le migliaia di persone scese in piazza contro la riforma delle pensioni non accenna a placarsi.
L’attacco alle già precarie condizioni di vita della popolazione è sempre più forte: aumenti delle bollette, salari bassissimi, elisione delle deboli garanzie per i più poveri.

Durissimo è l’attacco alle comunità mapuche in lotta.
L’unico poliziotto indagato nell’inchiesta sulla sparizione e la morte di Santiago Maldonado, il giovane anarchico sequestrato ed ucciso dalla polizia lo scorso agosto, è stato promosso. Per meriti sul campo.

Nell’inchiesta per l’assassinio di Rafael Nauhel, il giovane mapuche colpito a morte dalle squadre poliziesche Albatros, la magistratura ha deciso di inquisire solo i due compagni che trasportarono Rafael, ormai agonizzante, giù della montagna sino all’ospedale. I due, a loro volta feriti nell’attacco alla comunità resistente di Villa Mascardi, vennero arrestati e poi rilasciati, ora sono stati nuovamente incarcerati.
La magistrata che aveva iniziato l’inchiesta è stata rimossa, mentre il governo ha deciso di costituire un’unità speciale anti RAM. La RAM, resistenza ancestrale mapuche, è considerata un’organizzazione terrorista.

l 27 dicembre, è stato reso pubblico un rapporto di 180 pagine intitolato RAM, preparato dal Ministero della Sicurezza della Nazione in collaborazione con i governi provinciali di Río Negro, Neuquén e Chubut, dove vengono criminalizzati i mapuche che si organizzano e resistono. Nel mirino anche attivisti sociali, di sinistra e anarchici, considerati sostenitori e complici della RAM.
Qui potete leggere il comunicato emesso in risposta al rapporto del governo sottoscritto da numerosissime gruppi, reti territoriali e organizzazioni argentine.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Ivan Colombo, che ha trascorso in Argentina diversi mesi, visitando le comunità mapuche e partecipando alla lotta contro la riforma delle pensioni.

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Santiago Maldonado, torturato ed ucciso dallo Stato

Il 18 di ottobre nel rio Chabut è stato ripescato il corpo di Santiago Maldonado.
Era scomparso il 1 agosto.

Desaparecido. Scomparso. Questa parola viene usata solo in spagnolo, perché solo in questa lingua assume il significato che hanno saputo imprimerle i regimi autoritari che negli anni Settanta hanno insanguinato l’America Latina.
Durante la dittatura di Videla sparirono circa 30.000 persone. Sequestrate, torturate per settimane, mesi, infine gettate in mare ancora vive da aerei militari.
I figli delle prigioniere incinta nacquero in galere segrete come l’ESMA, vennero presi dagli aguzzini dei loro genitori che li spacciarono per propri.

Pochi sanno che nei decenni trascorsi dalla fine della dittatura ci sono stati 310 desaparecidos. Desaparecidos della democrazia. Di loro non si sa più nulla.
Anche Santiago Maldonado sarebbe entrato a far parte della lunga lista di desaparecidos se centinaia di migliaia di persone non fossero scese in piazza in Argentina e nel mondo per chiedere di rivederlo e di rivederlo vivo.

Santiago partecipava alla lotta dei Mapuche della Patagonia argentina e cilena contro la multinazionale italiana Benetton.
Oltre 960.000 ettari di terre mapuche, sfruttate in passato da compagnie inglesi, dal 1990 sono di proprietà di Benetton, che le ha trasformate in enormi pascoli per pecore da lana, bovini e cavalli a loro volta sfruttati intensivamente.
Uno dei tanti casi di land grabbing, furto legale di enormi porzioni di territorio, sottratte alle popolazioni che ci vivevano. La forma “moderna” del colonialismo.
Contro Benetton e lo Stato argentino ampi settori della comunità mapuche conducono una dura e lunga lotta. In questi anni si sono moltiplicate le occupazioni, i piccoli sabotaggi, le azioni di blocco.

Santiago è stato inghiottito da un potere che non guarda in faccia nessuno, pur di continuare a fare affari.
Il primo agosto si trovava a Pu lof en resistencia a Cushamen, quando un centinaio di poliziotti in assetto antisommossa hanno fatto irruzione, sparando proiettili di gomma e di piombo.
La gente è fuggita attraversando il fiume per ripararsi dalle pallottole. Santiago non è riuscito a guadagnare l’altra sponda e si è nascosto dietro ad un albero. Qui i suoi compagni hanno sentito i poliziotti gridare che ne avevano preso uno. Poi lo hanno gettato su un mezzo della polizia. La polizia ha negato di averlo arrestato ed ha cominciato le “indagini” solo a metà agosto.

Soraya Maicoño quel giorno si trovava per strada ed è stata fermata e trattenuta per sei ore sulla ruta 40, mentre la Gendarmeria reprimeva la comunità Pu Lof en Resistencia di Cushamen. Ha visto Pablo Noceti, capo di Gabinetto del Ministero di Sicurezza della Nazione, passare più volte di lì.
Ha anche notato che tra i pick-up che si dirigevano a Pu Lof c’erano anche quelli della tenuta Leleque di Benetton. Entravano nel commissariato, tornavano a Leleque, andavano a Pu Lof. Anche loro davano ordini, indicazioni. Erano al corrente di quello che succedeva. Era già successo il 10 gennaio, quando Ronald McDonald, amministratore generale delle tenute di Benetton, prestò il camion del ranch per trasportare i cavalli che avevano sequestrato ai mapuche.
Prima di entrare nel governo di Mauricio Macrì, Pablo Noceti era stato l’avvocato dei militari accusati di aver partecipato alle torture e alle sparizioni degli oppositori politici e sociali argentini durante la dittatura. Noceti aveva messo in dubbio le prove giudiziarie definendole “una vendetta politica” e mettendo in discussione l’impossibilità della prescrizione per tali crimini.
L’uomo giusto al posto giusto, pronto ad accusare di terrorismo le organizzazioni mapuche, mentre Santiago Maldonado era vittima del terrorismo di Stato. In vesti democratiche.
Il giorno prima del sequestro di Santiago, il 31 luglio, membri delle comunità mapuche protestavano davanti al tribunale federale di Bariloche per l’arresto arbitrario di Facundo Jones Huala: sono stati colpiti dalla Gendarmeria Nazionale e dal reparto di Assalto Tattico della polizia aeroportuale di sicurezza, con proiettili di gomma sparati ad altezza d’uomo. Nove persone sono state arrestate e molte altre sono state ferite.
Il primo settembre centocinquantamila persone hanno attraversato il centro di Buenos Aires, mostrando cartelli e gridando a gran voce “Donde esta Santiago Maldonado?”, “Dov’è Santiago Maldonado?” “Lo abbiamo salutato vivo, vogliamo rivederlo vivo.” Le piazze si sono nuovamente riempite il primo ottobre.

A metà settembre fonti anonime della polizia federale avevano fatto filtrare la notizia che Santiago era morto per le torture subite durante la detenzione.

Un mese dopo il suo corpo viene fatto trovare nel fiume Chabut. Trecento metri più a monte del luogo dove erano passati i mapuche in fuga dalle pallottole della polizia. Come ha fatto a risalire la corrente?
Secondo il quotidiano La Nacion ci sarebbe persino un testimone, anonimo e pagato per la sua testimonianza, che avrebbe dichiarato di aver visto Santiago nel fiume. Una testimonianza costruita per screditare i compagni di Santiago, che hanno assistito alla sua cattura. Un modo per assolvere lo Stato.

Nessuno crede a questa storia confezionata per sottrarre alle proprie responsabilità il governo argentino e la la multinazionale Benetton.
Vi ricordate il Rana Plaza?
Il Rana Plaza era uno stabilimento in cui si produceva per diversi marchi internazionali, tra cui Benetton. Siamo in Bangladesh dove “diritti umani”, “tutela dei lavoratori” sono lussi che i padroni non concedono ai loro dipendenti, sfruttati ferocemente per paghe da fame. Ne morirono mille nel crollo di quella fabbrica fatta di carta e sputi. Vuoti a perdere. Come i mapuche. Ma qualcuno dice no, alza la testa, sceglie di lottare per la propria vita e per la propria dignità.

Nella lunga storia della lotta Mapuche per la propria terra, chiare sono le responsabilità dei governi che si sono succeduti.
Altrettanto chiare le responsabilità del gruppo Benetton. Dietro alla facciata antirazzista, gay friendly, ci sono i feroci colonialisti del nuovo millennio.
Le maglie colorate di Benetton si sono macchiate del sangue di tanta gente che lottava. Come Santiago Maldonado.

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G7. Oltre il circo mediatico

Il G7 per il governo è stata una mera questione di ordine pubblico. Sin dall’inizio, quando il vertice doveva tenersi tra Torino e Venaria. Lo spostamento alla Reggia, la cancellazione di quasi tutti gli incontri in città, hanno creato lo scenario per l’assedio, solleticando un immaginario da 1789. Peccato che il palazzo di caccia dei Savoia sia solo un museo. Chi ci lavora lo ha bloccato tante volte nell’ultimo anno e mezzo di lotte.
Tant’è. La politica e i media si nutrono di spettacolo, fanno spettacolo quotidiano usa e getta.
Tra la prima e la seconda edizione della Stampa di sabato mattina, due cassonetti bruciati e qualche fuoco d’artificio serale hanno sostituito la cronaca del corteo dei lavoratori in Barriera di Milano, il momento di lotta più vivace e partecipato di venerdì 29, ultimo giorno del vertice, prima della rituale conferenza stampa del giorno successivo.
Nulla di cui stupirsi. L’informazione funziona così. Poco saggio farne lo specchio su cui misurare la propria bellezza. Perchè il coltello dalla parte del manico lo tengono sempre Biancaneve e i suoi sette nani.
Fuori di metafora. Se non si sa uscire dalla fascinazione del circo mediatico si rischia di divenirne una mera variabile dipendente.
D’altra parte, l’informazione – e la propaganda – al tempo della rete riescono in parte a prendere vie proprie, costruendo reti attraverso le quale circolano in tempo reale, foto, audio, video, cronache.
Nel 2001 a Genova l’informazione indipendente fu parte integrante della lotta, contribuendo, almeno in parte, a smontare le verità ufficiali.
Oggi tanta acqua è passata sotto i ponti dei tre fiumi di Torino. La città dell’auto è diventata vetrina luccicante di grandi eventi, mentre le periferie sono luogo di riqualificazioni escludenti.
Sono passati 16 anni da quel G8, tornato G7 dopo la cacciata della Russia putiniana. I movimenti, che in quegli anni scelsero di sfidare i potenti del mondo assediando gli incontri, dove si affinavano le politiche che hanno reso più tagliente e aguzza la piramide sociale, si sono inabissati. Il moltiplicarsi dei fronti di guerra, l’inaridirsi in percorsi paraistituzionali, l’incapacità di cogliere l’occasione di tessere una nuova Internazionale degli oppressi e degli sfruttati, ne hanno segnato la fine.
Oggi, la scarsa reattività dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, dei senza reddito agli attacchi convergenti di governo e padroni, il moltiplicarsi contestuale di misure di disciplinamento sociale, ci mettono di fronte ad una strada tutta in salita.
Una strada sulla quale si rischia di inciampare nel populismo montante, tanto caro a certi antagonisti sedotti dalle fiammate, chiunque le agisca. Foss’anche una santa alleanza tricolore: c’è chi ancora oggi è orfano della tre giorni forcona all’ombra della Mole.

Il contenitore ReSetG7 non ha saputo raccogliere e sintetizzare a pieno le proposte emerse dalle tante anime del movimento. Forse l’obiettivo stesso era poco credibile.

Tra chi ha scelto le periferie della città, lasciando i G7 nella loro residenza di caccia, e chi invece ha puntato sui luoghi e sui simboli, la distanza si è accorciata senza tuttavia mai colmarsi del tutto. Gli uni hanno attraversato le periferie, per dare rappresentazione alle lotte dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, che, sia pure in forme minoritarie, mettono in difficoltà i padroni, spezzano l’ordine, non si piegano alla schiavitù salariata, gli altri si sono concentrati sulla metafora ormai un poco logora dell’assedio, del Palazzo. La Questura, per sfregio, non ha creato una Zona Rossa in cui fosse vietato passare. Né la Reggia, né piazza Carlina, dov’è l’albergo dove sono state ospitate le delegazioni, sono mai state chiuse. Una militarizzazione imponente, ma niente pass, grate, aree proibite. Le grate si sono viste solo in occasione della manifestazione del sabato.

Vale la pena chiarire subito un fatto. Nella tre giorni contro il G7 sono scese in piazza minoranze agenti, mai grandi folle capaci di dare qualche grattacapo ai potenti chiusi nella Reggia.
La radicalità degli obiettivi e il radicamento sociale sono condizioni indispensabili ad innescare processi capaci di mutare senso ai tempi che siamo forzati a vivere. Questo G7 è stato però un’occasione di costruire e rafforzare le relazioni sul territorio in vista delle sfide dell’autunno.
Gli anarchici della FAT, con un ampio fronte di altri gruppi politici e sindacati di base, hanno deciso di giocare questa partita, pur consapevoli del momento non facile per i movimenti a Torino e in Piemonte. Un corteo che partisse da Porta Palazzo, inoltrandosi per le strade di Barriera, sostando a lungo per confrontarsi con la gente, è stato una scommessa vinta. Lo dimostra il suo crescere durante il percorso: tante persone si sono unite alla manifestazione, i negozi sono rimasti aperti e la gente era in strada nonostante la campagna di criminalizzazione degli ultimi giorni.
Carlotta Silvestri e Luca Deri presidenti della sesta e settima circoscrizione di Torino avevano chiesto che il corteo dei lavoratori in Barriera di Milano venisse vietato, perché lo consideravano pericoloso per il decoro e l’ordine pubblico.
In Barriera di Milano la risposta del governo della città e delle circoscrizioni alla povertà, alla disoccupazione, alla precarietà, agli sfratti è da sempre la stessa: tagli ai servizi, alla sanità, ai trasporti, militarizzazione delle strade del quartiere.
Fanno la guerra ai poveri e la chiamano sicurezza. Fanno la guerra ai poveri e la chiamano decoro.
Silvestri e Deri hanno giocato la carta di sempre: criminalizzare l’opposizione sociale, per provare ad annullare la carica sovversiva, di chi vuole farla finita con governi e padroni.
In Barriera hanno manifestato circa 500 lavoratori, precari, disoccupati, le vittime delle politiche dei G7 rinchiusi nella Reggia di Venaria. Tutti insieme dietro allo striscione “Contro i padroni del mondo. La nostra lotta”.
Il corteo ha dato voce a chi agisce le lotte, per dimostrare con i fatti che invertire la rotta è possibile. Per un mondo di liberi ed eguali, autogestito e solidale.
Quest’iniziativa ha rappresentato il tentativo, simbolico e reale, di rimettere al centro le periferie, luoghi dove si può creare la miscela capace di accendere un processo di trasformazione sociale.
Quello stesso giorno un corteo di trecento studenti, cui si è unito un gruppetto di No Tav, ha percorso del vie del centro: un tentativo di avvicinarsi a piazza Carlina è finito con una breve carica. In serata, mentre in Barriera si stava svolgendo l’assemblea finale con cui si è chiuso il corteo dei lavorator*, un centinaio di attivisti si è mosso da Palazzo Nuovo, occupato per la giornata dagli studenti, verso piazza Carlina. Il nutrito lancio di fuochi d’artificio con cui è stata salutata la celere non è stato gradito dalla Questura che ha ordinato una carica finita tra i banchetti della Notte dei ricercatori. I manifestanti si sono coperti la fuga con un paio di cassonetti incendiati.
La manifestazioni erano cominciate giovedì 28 con “Reclaim the street”, la parade che ha attraversato le zone della movida con lo slogan “A noi le strade, a voi i privè”.
Sabato mattina volantinaggio al mercato di corso Cincinnato e un corteo per il quartiere, prima della partenza del corteo pomeridiano diretto alla Reggia, dove era prevista la conferenza stampa finale del G7.
Mille e quattrocento manifestanti, partiti dalle Vallette, hanno attraversato la periferia di Venaria, dove le case dormitorio e la scuola sono accanto ai tralicci dell’alta tensione e alla tangenziale, dirigendosi verso piazza Matteotti, dove comincia la strada pedonale che immette nel piazzale della Reggia.
Gli anarchici della Fat hanno partecipato al corteo con uno spezzone, aperto dallo striscione “Occupiamo le fabbriche, licenziamo padroni e burocrati”.
L’ingresso all’area pedonale era chiuso da grate, camion con idrante e un nugolo di poliziotti dell’antisommossa e digos.
La testa del corteo, a mani nude e con tre carrelli pieni di enormi brioche di gommapiuma, ha cominciato a spingere tra un nugolo di fotoreporter con le maschere antigas. È partita una breve carica, durante la quale la digos è riuscita prendere un manifestante pesarese. Dal corteo sono partiti fuochi d’artificio contro la polizia che ha replicato con un fittissimo lancio di lacrimogeni, che hanno reso l’aria irrespirabile. Il corteo è arretrato in strada. Dopo una mezz’ora nuovo lancio pirotecnico dai manifestanti e nuovo areosol al Cs dalla polizia.
In serata si è saputo dell’arresto di un altro manifestante, fermato dalla polizia e condotto al carcere delle Vallette. Si tratta di un arresto in fragranza differita. Grazie alle legge sulla sicurezza del ministro dell’interno Minniti si sono estesi i poteri delle Questure.

In serata la sindaca di Torino si è congratulata con la polizia, il suo vice Montanari, anima “sinistra” del governo della città, schierato con i manifestanti, si è affrettato a dividerli in buoni e cattivi, per mantenere il piede in due scarpe.

Da domani si ritorna nelle nostre periferie. Per far sì che la paura cambi di campo, per far sì che radicalità e radicamento rendano possibile spezzare l’ordine del mondo disegnato dai G7.

(quest’articolo uscirò sull’ultimo numero di Umanità Nova)

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Contro il G7 lavoro. Per un mondo senza servi e senza padroni

Contro il G7 lavoro. Tutti a Torino per gettare sabbia nel motore dei potenti!

A fine settembre alla reggia di Venaria si incontreranno i ministri del lavoro, dell’industria e della ricerca di Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Francia, Giappone, Germania e Canada.
L’incontro doveva svolgersi a Torino, ma in luglio gli appuntamenti torinesi, comprese le cene e le visite culturali, sono stati cancellati o spostati a Venaria. Solo gli sherpa delle delegazioni verranno ospitati nell’albergo di lusso di piazza Carlina, fiore all’occhiello della “nuova” Torino, quella che negli ultimi vent’anni ha allontanato dal centro gli abitanti più poveri, cambiando poco a poco pelle.

La decisione di relegare il summit nella reggia di Venaria è stata presa perché il governo teme le contestazioni di chi non ha casa, reddito, pensione, di chi fa mille lavori precari e supersfruttati, di chi non crede che il lavoro gratuito sia educativo.
Il governo ha paura che tanti si ribellino a chi sta costruendo un futuro peggiore del presente che siamo forzati a vivere.
L’impegno dei movimenti sociali in vista del G7 è ovviamente di rendere reali i timori di Gentiloni, Minniti, Padoan…
Torino è stata per decenni uno dei laboratori, dove si sono sperimentate imponenti strategie di asservimento e controllo sociale, indispensabili alle grandi trasformazioni in atto. È quindi luogo simbolico e reale di uno scontro di classe durissimo, dove governanti e padroni, nonostante i tanti punti segnati, esitano a confrontarsi.

Dall’auto al Luna Park
Torino si è convertita da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria.
L’amministrazione è stata per decenni nelle mani del Partito Democratico.
Oggi governano i Cinque Stelle. Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche, dai padroni, da settori del movimento No Tav, da alcuni centri sociali e dai comitati xenofobi e razzisti. Un gran minestrone sulla cui tenuta è lecito interrogarsi, senza tuttavia farsi eccessive illusioni su possibili rapide implosioni.
Appendino imita Fassino: fa la guerra ai rom delle baracche lungo la Stura, sguinzaglia i vigili urbani a caccia di mendicanti, lavavetri, spacciatori di accendini, senza casa.
Chi aveva creduto alla retorica della partecipazione sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. La sindaca a Cinquestelle ha subito applicato le leggi del governo Gentiloni sulla sicurezza urbana. É finita con le cariche della celere contro chi beveva una birretta in via santa Giulia.

La criminalizzazione della povertà
Lo scorso 29 agosto il consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo che attua la legge, approvata nel marzo scorso, sul reddito di inclusione (ReI). Una manciata di soldi per una minoranza esigua, una mossa dallo squisito sapore elettorale. Ma anche un ulteriore salto di paradigma. I beneficiari degli assegni vengono messi sotto tutela, sottoposti al costante controllo dei servizi sociali, perché sono tenuti a dimostrare di voler uscire da uno stato del quale sono considerati responsabili.
È la quadratura del cerchio del governo del nobile Gentiloni. Per chi si piega c’è l’elemosina di Stato, per chi lotta multe, galera, manganelli e daspo urbano.
Se sei povero la responsabilità è tua, non di chi si arricchisce sul lavoro altrui, non di un sistema politico e sociale che nega una vita decorosa alla maggior parte della popolazione del pianeta.
Per il governo chi occupa una casa vuota offende il decoro, i proprietari che affittano a prezzi altissimi sono invece bravi cittadini.

Ci raccontano che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo.
Il governo dice che non ci sono soldi per ospedali, trasporti locali, scuole. Ma spende 68 milioni di euro al giorno per fare la guerra.
Gentiloni investe in telecamere, polizia, militari per le strade. L’Italia ha pagato le milizie che controllano la costa libica e gestiscono il traffico di esseri umani, petrolio e armi, perché blocchino i profughi delle guerre combattute con armi made in Italy. In agosto sono seccamente diminuiti gli sbarchi. Chi resta intrappolato finisce nelle galere libiche, dove omicidi, torture, ricatti e stupri sono il pane quotidiano. Nuovi lager stanno sorgendo nel cuore dell’Africa subsahariana.
Il candidato premier a 5Stelle Di Maio plaude la violenza poliziesca contro gli immigrati del ministro dem Minniti.

Sul fronte del lavoro
In questi anni i padroni si sono arricchiti, i poveri sono diventati più poveri.
Il lavoro non c’è o è precario, pericoloso, malpagato.
Il job act ha fatto piazza pulita delle poche tutele rimaste a chi lavora, lasciando mano libera ai padroni.
Soffiano sul fuoco della guerra tra poveri, per mettere i lavoratori italiani contro quelli immigrati. Ci vogliono divisi per poterci meglio comandare e sfruttare.
Chi si fa ricco con il lavoro altrui non guarda in faccia nessuno. Chi governa racconta la favola che sfruttati e sfruttatori stanno sulla stessa barca ed elargisce continui regali ai padroni.
Il governo vuole la fine delle lotta di classe, la resa senza condizioni dei lavoratori.
Cigl, Cisl e Uil, veri sindacati di Stato, firmano contratti indecenti, frenano le lotte, pur di mantenere i propri burocrati e i propri privilegi.
C’è chi non ci sta, chi si ribella ad un destino già scritto, chi vuole riprendersi il futuro.
Sono gli antimilitaristi, che lottano contro le basi militari, le fabbriche d’armi, la militarizzazione dei nostri quartieri. Sono i prigionieri dei CIE che bruciano le celle e scavalcano i muri. Sono gli sfrattati che non si rassegnano alla strada e si prendono le case vuote. Sono i lavoratori che bloccano e occupano magazzini e strade per vivere meglio.

Questo G7 è un occasione per dare visibilità a chi lotta, per riprenderci le periferie, per dimostrare, che al di là della retorica su sviluppo, innovazione, ricerca, il vertice di Venaria è solo la vetrina lucida dietro alla quale c’è una realtà dove tanta parte del genere umano è diventata inutile, persino per chi si fa ricco sulla povertà altrui. Chi lavora è una pedina intercambiabile in una macchina che corre veloce la sua corsa senza limiti. Neppure quelli fisici di un pianeta allo stremo.

Per qualcuno la partita si gioca nella visibilità mediatica delle contestazioni, a costo di relegarle in zone in bilico tra il nulla metropolitano e i quartieri dormitorio della Torino del secolo scorso. Per tanti altri il vertice è una buona occasione per raccogliere le forze in vista delle dure sfide dell’autunno.
Le aree post autonome, come di consueto si muovono cercando di mantenere il complesso equilibrio tra conflitto di piazza ed interlocuzioni istituzionali in vista della tornata elettorale di primavera. Nonostante il fallimento della partita sul referendum costituzionale, continuano ad agitare lo spauracchio del ducetto di Rignano, ma sono in affanno di fronte all’esplicitarsi delle posizioni paraleghiste del premier in pectore Di Maio.
I sindacati di base non hanno saputo cogliere l’occasione, strangolati dalla competizione intorno ai rituali scioperi d’autunno, ed hanno annunciato e poi ritirato lo sciopero del 29 settembre.

Nonostante queste indubbie difficoltà ampi settori di movimento si stanno organizzando in vista del G7. Iniziative si svolgeranno in tutto il mese con un focus sul 28, 29 e 30 settembre, quando sono previste le principali manifestazioni.

Gli anarchici federati di Torino stanno costruendo spezzoni rossi e neri e fanno appello a tutti per una partecipazione ampia.

Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, aprendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, intessendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali.

Roviniamo la vetrina dei padroni del mondo! No al G7!
Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile.
Tocca a noi costruirlo.

Ecco gli appuntamenti per gli spezzoni rossoneri:

Venerdì 29 settembre
ore 17,30
Corteo dei lavoratori e delle lavoratrici contro il G7
Partenza da Corso G. Cesare
n. 11, vicino a Porta Palazzo (ex stazione Torino-Ceres)
assemblea finale ai giardinetti tra corso Giulio e via Montanaro

Sabato 30 settembre
ore 14
Corteo contro il G7
Ritrovo quartiere Vallette in
direzione Reggia di Venaria

per info: fai_to@inrete.it

i compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

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