Categoria: femminismi

L’altro Pride. Contro frontiere e decoro

Giugno è il mese del Pride. La giornata dell’orgoglio delle persone omosessuali, transessuali, queer, bisex, intersex nasce dopo la rivolta di 49 anni fa a a New York. Stanch* di violenze, irrisioni, soprusi della polizia quelli dello Stonewall alzarono la testa e attaccarono la polizia. Il primo Pride fu un riot.

A Torino il Pride è un’imponente sfilata attraversata da decine di migliaia di persone. Ma Stonewall è lontana, lontanissima da Torino.
Il Pride anno dopo anno è diventato un ibrido tra un carnevale, una passerella istituzionale e uno evento commerciale.
C’è sempre meno spazio per le voci critiche, per un approccio intersezionale, per chi vuole che libertà e diritti siano per tutti, anche per gli esclusi dal grande banchetto, per i migranti, i poveri, i rom, i senza casa.
Lo slogan di quest’anno era “Nessun dorma”, una maniera appena accennata di alludere alle componenti omofobe, maschiliste, transfobiche del governo giallo-verde. Senza esagerare, senza permettersi critiche al governo della città e a quello della Regione. In punta di piedi, per non disturbare troppo.
Non poteva essere altrimenti, perché le istituzioni erano in testa al corteo.
La sfilata del 16 giugno è stata organizzata dal Coordinamento Torino Pride con il patrocinio di Comune di Torino, Regione Piemonte, Consiglio regionale del Piemonte, Torino Metropolitana, Provincia di Cuneo, Provincia di Novara. Tra gli sponsor la Coop, la Gtt, Il corpo di polizia municipale della città di Torino.

La sfilata, cui ogni carro entrava solo pagando, è stata tenuta sotto controllo dalla polizia di Stato e dal servizio d’ordine di due compagnie private, i City Angels, noti per la pulizia etnica a San Salvario e l’Hydra Service, i picchiatori prezzolati al servizio del PD, tristemente noti per i loro interventi muscolari contro ogni forma di opposizione sociale. Noi li ricordiamo per il camion dello spezzone anarchico e antimilitarista spaccato il primo maggio 2011, ma i loro bastoni si sono esibiti in molte altre occasioni.

Quest’anno al Torino Pride gli attivist* di “Nessun* Norma!”, il Pride contro frontiere e decoro del 28 giugno hanno distribuito volantini, che sono immediatamente entrati nel mirino della polizia, che li ha circondati pretendendo di sequestrarli, per le immagini satiriche stampate sul retro. Immagini considerate offensive, perché non è lecito burlare ministri e sindaci. Specie se si tratta di Salvini, Fontana e Appendino. Diverse compagn* sono state identificate e minacciate dalla digos. Alla fine gli uomini e le donne della polizia politica si sono accontentat* di sequestrare solo una parte del materiale.
Ma non è finita lì. Più tardi è stato aperto uno striscione in via Po ed acceso qualche fumogeno per attirare l’attenzione. Sullo striscione campeggiava la scritta “Il Pride è rivolta. Contro frontiere, decoro, istituzionalizzazione. Nessun Norma” Lo striscione è stato due volte rimosso dal servizio d’ordine del Pride. Un fumogeno è stato lanciato addosso alle persone.

La repressione al Pride istituzionale ha dato una bella spruzzata di pepe a chi stava organizzando il corteo indecoroso del 28 giugno.

In maggio individui e gruppi diversi, che si erano intrecciati nelle lotte contro le frontiere, gli sgomberi, la repressione hanno cominciato ad incontrarsi per costruire un altro Pride. Una scommessa che ha visto accanto Ah Squeerto e Studenti Indipendenti, Manituana e Federazione Anarchica, Breacktheborder e l’infoshock del Gabrio.
Una scommessa difficile, che si è dovuta scontrare con l’indifferenza e l’ostilità di chi, anche nei movimenti di opposizione sociale, nonostante tutto, preferiva affacciarsi al Pride istituzionale. Non Una di Meno, rete “transfemminista ed intersezionale”, avrebbe potuto portare un contributo importante all’iniziativa, invece si è divisa senza raggiungere una sintesi, ma, nei fatti partecipando attivamente, sia pure in tono minore, solo al Pride istituzionale dove sono stati distribuiti volantini, fatti interventi e portate a spasso le matrioske.
Una brutta scivolata della Rete torinese, preoccupante in un clima politico e culturale sempre più difficile.

Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.
E non può che andare peggio. Se Appendino riuscirà ad aggiudicarsi il carrozzone olimpico del 2026, il restyling della città costerà caro a chi non corrisponde ai criteri di decoro urbano.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria, cedendo alle tentazioni populiste e nazionaliste, rischiando di scivolare sul declivio della guerra tra poveri.

Il governo della città è stato per decenni nelle mani del Partito Democratico.
Da due anni governano i Cinque Stelle. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche e dai padroni.
Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. Appendino fa la guerra ai rom, sguinzaglia i vigili urbani a caccia di mendicanti, lavavetri, spacciatori di accendini, senza casa.

Chi aveva creduto alla retorica della democrazia penta stellata sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. I posti occupati che non hanno accettato la normalizzazione a Cinque Stelle sono stati sgomberati. La baraccopoli rom di corso Tazzoli è stata demolita per la “sicurezza” degli abitanti gettati in strada.
La retorica della “cittadinanza” partecipativa sceglie chi includere e chi escludere, nel gioco feroce delle poltrone, del potere, delle alleanze.
Appendino prepara la vetrina olimpica, cementifica la città, si congratula con la polizia che arresta gli anarchici… sfila in testa al Pride e benedice le famiglie arcobaleno.

Il 28 giugno l’altro Pride ha attraversato il centro cittadino, nonostante il nuovo questore avesse imposto divieti di sapore squisitamente politico. Piazza Palazzo di città, dove ha sede il comune, è stata chiusa e blindata da Digos e poliziotti in assetto antisommossa. Un blocco risibile di fronte alla folla queer che li fronteggiava, irrideva, mimava. Il segno che i timori per “l’ordine pubblico” erano solo paura di corpi ed identità erranti indisponibili a farsi rinchiudere in una gabbia dorata, dove il prezzo della “libertà” è l’accettazione delle linee di cesura che attraversano il nostro spazio sociale.
Cartelli con le “coppie di fatto” danno il segno di una critica intollerabile per la questura e la prefettura, la lunga mano del governo sui territori.
Chiara Appendino e Lorenzo Fontana, la sindaca gay friendly ed il ministro della famiglia omofobo e maschilista. Merkel ed Erdogan, Di Maio e Salvini, le coppie oscene del teatro politico.

Il corteo, cresciuto lungo il percorso, ha sostato in piazza Castello, percorso via Po e via Accademia tra musica, balli, corpi liberi e interventi. In corso Vittorio è dilagato su tutti e quattro i viali sino alla blindatissima stazione di Porta Nuova, vera frontiera invisibile nel cuore di Torino. Ogni giorno, da mesi, i binari da dove partono i treni diretti in Val Susa sono sorvegliati da pattuglie interforze di poliziotti e militari, che selezionano i passeggeri. Se sei nero, anche se hai un documento in tasca ed un biglietto, ti rimandano indietro. La frontiera con la Francia erige i suoi muri nel cuore di Torino.
Le frontiere sono linee su una mappa. Sottili righe scure fatte di nulla che uomini armati in divisa rendono vere.
Le frontiere dividono e uccidono.
Nel Mediterraneo e in montagna. Nei ghetti dei raccoglitori di frutta e pomodori, nei cantieri dove la sicurezza è un lusso.
Nei tanti interventi durante il corteo abbiamo ricordato Blessing e Mamadou, uccisi dalle frontiere chiuse al Montgenevre, Soumaila Sacko ammazzato dalla lupara al servizio dei padroni.
Le frontiere sono in mezzo a noi. Sono le leggi sul decoro che cacciano i poveri dai luoghi pubblici, sono le leggi sulla proprietà che negano una casa a chi non ce l’ha.
Sono le frontiere tra i sessi, che piegano i corpi e le soggettività erranti alle regole della famiglia, nucleo “etico” che ingabbia le relazioni, fissa i ruoli, nega la possibilità di percorsi individuali fuori dal reticolo patriarcale, statale, religioso.
Il corteo si è concluso con una festa al Valentino benefit per il rifugio autogestito Chez Jesus di Claviere.

Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo, hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Questi principi tengono saldamente fuori tanta parte dell’umanità. Poveri, donne, omosessuali, transessuali, bambini, stranieri erano/sono esclusi dall’accesso a questi diritti. La loro universalità, formalmente neutra, è modellata sul maschio adulto, benestante, bianco, eterosessuale. Il resto è margine. Chi non è pienamente umano non può essere “cittadino”, soggetto di diritto.
Chi non è pienamente umano non può aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni. Per chi ne è escluso si tratta di privilegi, per chi vi è inscritto diviene una gabbia normativa.
Come il matrimonio. Un legame sancito dallo Stato (e dalla chiesa) che fissava la diseguaglianza e l’asservimento delle donne, sottomesse al marito alla cui tutela venivano affidate. Eterne minorenni passavano dalla potestà paterna a quella maritale.
Le lotte che hanno segnato le tante vie della libertà femminile hanno in parte cancellato quella servitù. Ma ne hanno pagato il prezzo. Il prezzo dell’emancipazione femminile è l’adeguamento all’universale, che resta saldamente maschile, bianco, benestante ed eterosessuale.
Lo spazio della sperimentazione, della messa in gioco dei percorsi identitari, tanto radicati nella cultura da sembrare «naturali», tende ad estinguersi, polverizzato dalle cazzutissime donne in divisa, dalle manager in carriera, dal femminismo della differenza che inventa le gerarchie femminili per favorire manovre di lobbing. Tutto deve diventare “normale”, vendibile, controllabile.
Le differenze tra le persone non sono iscritte nella natura o nella cultura, ma offrono una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Percorsi possibili solo fuori e contro il reticolo normativo stabilito dallo Stato, che, non per caso, nega diritti e tutele alle persone che scelgono di non sposarsi.
La strada del movimento lgbtqi è stata ed è ancora in netta salita. Fascisti e preti continuano le loro crociate per escludere dall’umanità una sua parte. Le discriminazioni, la violenza statale e culturale sono molto forti.
Chi vorrebbe le stesse possibilità degli eterosessuali – adozioni, pensione di reversibilità, diritto alla cura del partner – deve adeguarsi ad un modello rigido di relazione costruita sulla coppia e sui loro figli, alla legalizzazione dei sentimenti, delle passioni, della tenerezza.
Chi sceglie di starne fuori, di fare altre strade, non può avere questi privilegi anche se eterosessuale.
La normalizzazione delle nostre identità erranti è il prezzo per accedere ad alcune libertà che si ottengono solo con il matrimonio, un legame sancito e regolato dallo Stato. È un prezzo che tanti non sono dispost* a pagare.
Abbiamo attraversato la città con la leggerezza di chi si scioglie da vincoli e lacci. Con la stessa leggerezza attraversiamo le nostre vite.
Senza frontiere, che separino i sommersi dai salvati, i cittadini e gli stranieri.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.

Maria Matteo

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Torino 8 marzo. Se non posso ballare non è la mia rivoluzione!

Torino 8 marzo. Se non posso ballare non è la mia rivoluzione!

Un alito di primavera ha accompagnato un lungo 8 marzo di lotta all’ombra della Mole.
In piazza Castello sin dal mattino è un fiorire di matrioske, cartelli, colori e suoni. In testa lo striscione “Scioperiamo dal lavoro di cura. Lottiamo insieme!”
Lo sciopero femminista contro la violenza maschile sulle donne e le violenze di genere, si è articolato come diserzione dal lavoro retribuito fuori casa, ma anche dal lavoro dentro casa, dai lavori di cura, dai lavori domestici e dai ruoli di genere imposti.
La rinnovata sessualizzazione del lavoro di cura non pagato riduce la conflittualità sociale conseguente alla erosione del welfare.
La riaffermazione di logiche patriarcali offre un puntello al capitale nella guerra a chi lavora.
Lo sciopero femminista scardina questo puntello, rimettendo al centro le lotte delle donne per la propria autonomia.
La prima tappa è al centro della piazza. Lunghi fili vengono tirati tra i pali: con pinze da bucato sono stesi pannolini, grembiuli, strofinacci… Tutti oggetti simbolo del lavoro di cura.
Un camioncino prova senza successo a forzare il blocco, che si allarga sulla piazza. Un nucleo dell’antisommossa, schierato a pochi passi da una carrozzina con un neonat*, chiede a gran voce rinforzi. La digos si affanna al cellulare. Si parte in corteo verso via Po. Per l’intera mattinata si svolgono blocchi con slogan e comizi volanti ai principali incroci.
In corso Regina il corteo viene raggiunto dalle studentesse, che in mattinata avevano bloccato le lezioni al campus. La mattinata si conclude a Palazzo Nuovo, l’altra sede delle facoltà umanistiche.

Nel pomeriggio piazza XVIII dicembre, la piazza che ricorda i martiri della camera del lavoro, si riempie velocemente. Parrucche rosa, fucsia e viola sul nero degli abiti, tanti striscioni, tulle, cartelli. Il corteo si dipana per il centro. Saremo tremila, forse più.
La prima sosta è davanti alla caserma dei carabinieri Cernaia. Viene appeso uno striscione contro la violenza dei tribunali, in solidarietà alle donne stuprate, picchiate e offese che nelle aule di giustizia diventano imputate, chiamate a rispondere della propria vita, dei propri abiti, dei propri gusti, del proprio no alla violenza. Vengono lette alcune delle domande fatte in tribunale alle due studentesse statunitensi stuprate da due carabinieri la scorsa estate a Firenze. Domande di una violenza terribile.
In Italia viene ammazzata una donna ogni due giorni.
Spesso gli assassini usano le pistole d’ordinanza, che hanno il diritto di portare perché fanno parte dell’elite poliziesca e militare, che detiene per conto dello Stato il monopolio legale della violenza.
Gli spazi di autonomia che le donne si sono conquistate hanno incrinato e a volte spezzato le relazioni gerarchiche tra i sessi, rompendo l’ordine simbolico e materiale, che le voleva sottomesse ed ubbidienti. Il moltiplicarsi su scala mondiale dei femminicidi dimostra che la strada della libertà femminile è ancora molto lunga. Il crescere della marea femminista è la risposta ad una violenza che ha i caratteri espliciti di una guerra planetaria alla libertà delle donne, alla libertà dei generi, alla libertà dai generi.
Nelle aule dei tribunali la violenza maschile viene declinata come affare privato, personale, accidentale, nascondendone il carattere disciplinare, punitivo, politico.
Le lotte femministe ne fanno riemergere l’intrinseca politicità affinché divenga parte del discorso pubblico, in tutta la propria deflagrante potenza, mettendo in soffitta il paternalismo ipocrita delle quote rosa, delle pari opportunità, dei parcheggi riservati alle donne.
Tra i temi di questo 8 marzo di sciopero e lotta, la ferma volontà di rompere il silenzio e l’indifferenza, per sostenere un percorso di libertà, mutuo aiuto e autodifesa contro chi ci vorrebbe inchiodare nel ruolo di vittime.
Forte è il rifiuto che la difesa delle donne diventi l’alibi per politiche securitarie, che usino i nostri corpi per giustificare strette disciplinari sull’intera società.

“Nello stato fiducia non ne abbiamo, la difesa ce la autogestiamo!”
“Lo stupratore non è malato, è il figlio prediletto del patriarcato”
“Siamo la voce potente e feroce di tutte le donne che più non hanno voce!” Questi slogan riempiono la piazza, deflagrano per il corteo.

Tra i tanti interventi quello di una ragazza curda, che ricorda la lotta delle donne di Afrin contro l’invasione turca e il patriarcato. Una studentessa sviluppa una critica alla scuola, dove lo sguardo femminista è quasi sempre assente.

In piazza Castello su uno dei tanti monumenti militaristi della città, quello dedicato al duca d’Aosta, in braccio ad uno dei soldati raffigurati viene messa una scopa, uno strofinaccio, un pezzo di tulle rosa.
L’azione è accompagnata da un lungo intervento dal camion.
É il momento per parlare delle donne stuprate in guerra, prede e strumento del conflitto. In guerra la logica patriarcale sottesa a torture e stupri è meno dissimulata che in tempi di pace.
Dahira nel 1993 aveva 23 anni. Dahira già conosceva il sapore amaro dell’essere donna in una società patriarcale. Era stata ripudiata dal marito, perché non riusciva a dargli dei figli. Una cosa inutile, priva di valore. Ma per lei il peggio doveva ancora venire. In una notte di maggio di 25 anni fa venne spogliata, legata sul cassone di un camion con le braccia e le gambe immobilizzate e stuprata con un razzo illuminante. I torturatori e violentatori erano paracadutisti della Folgore, in missione umanitaria in Somalia. Con cruda ironia la missione Nato, cui l’Italia partecipò si chiamava “Restore hope – restituire la speranza”.
Gli stessi parà stanno per sbarcare in Niger per una nuova missione. Questa volta l’obiettivo sono i migranti in viaggio verso l’Europa.
Altri militari saranno in Libia, dove le milizie di Sabratha e Zawija, pagate dallo Stato italiano rinchiudono uomini, donne e bambini in prigioni per migranti, dove tutte le donne vengono stuprate. Gli esecutori sono in Libia, i mandanti sono sulle poltrone del governo italiano.

Il corteo imbocca via Po e si ferma davanti alla chiesa della SS Annunziata, legata a Comunione e Liberazione. Lì viene appeso uno striscione con la scritta “Preti ed obiettori tremate. Le streghe son tornate!” Prezzemolo e ferri da calza sono lasciati di fronte all’ingresso, per ricordare i tempi dell’aborto clandestino, quando le donne povere abortivano con decotti e ferri da calza, rischiando di morire.
La chiesa cattolica vorrebbe che le donne che decidono di non avere figli muoiano o vengano trattate da criminali. A quarant’anni dalla legge che ha depenalizzato l’aborto, ma lo ha sottoposto ad una rigida regolamentazione, in molte città italiane abortire è diventato impossibile, perché il 100% dei medici si dichiara obiettore.
Preti ed obiettori vorrebbero inchiodarci al ruolo di madri e mogli. Quest’8 marzo ci trova più agguerrite che mai nella lotta per una maternità libera e consapevole.

Nelle piazze torinesi si è affermato un femminismo capace di obiettivi radicali e pratiche libertarie, vincendo la scommessa non facile dello sciopero femminista, con la buriana elettorale appena dietro le spalle, nel netto rifiuto di essere usate come trampolino per carriere politiche tinte di fucsia.
In quest’8 marzo è emerso l’intreccio potente tra la dominazione patriarcale e la violenza dello Stato, del capitalismo, delle frontiere, delle religioni.
Di questi tempi non è poco. Un sasso nello stagno, che si allarga e moltiplica le pozze.

Il corteo vibra dello slogan urlato da tutte “Ma quale Stato, ma quale dio, sul mio corpo decido io!”

La marea dilaga in piazza Vittorio dove viene disegnata una matrioska gigante al cui interno vengono lasciate scope, detersivi, grembiuli e strofinacci.

Un grido potente riempie la piazza “Se non posso ballare non è la mia rivoluzione!”. Ed è festa.
m. m.

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Marica licenziata da Ikea. Lavoratori in sciopero e presidio a Corsico

Il licenziamento di Marica Ricutti ha suscitato forte indignazione culminata oggi in uno sciopero in diversi magazzini italiani della multinazionale svedese.
I fatti sono noti. Marica ha lavorato all’Ikea per 17 anni. É una mamma single con due figli a carico di cui uno disabile. Ricutti, spostata di reparto, di fronte a nuovi orari incompatibili con il lavoro di cura gratuito per i figli, aveva parlato con i dirigenti e concordato altri tempi di lavoro. Ikea, dopo un’iniziale disponibilità verbale dei capi del negozio/magazzino di Corsico, l’ha licenziata.
Le decisioni vere le prende un algoritmo.
I turni di lavoro per i 6500 dipendenti dell’Ikea in Italia li fissa questa macchina. Una macchina, che, al di là dei pregiudizi consolidati, ha dei sentimenti. Sentimenti forti. Ogni sei mesi, a settembre e marzo, sulla base di uno schema prestabilito che contempla il flusso dei clienti, il numero dei lavoratori impiegati e le esigenze di ogni singolo reparto, decide quando, quanto e dove si lavora.
Marica Ricutti lavorava all’Ikea dal 1999: non aveva mai ricevuto un richiamo e nemmeno una contestazione sulla sua professionalità.
Ogni martedì Marica porta suo figlio disabile in un centro specializzato, dove segue una terapia. Il martedì Marica non può entrare al lavoro alle 7 del mattino, come deciso dall’algoritmo. Una macchina con un cuore, un cuore che batte per gli interessi del padrone.

Oggi al magazzino milanese e in diversi altri in Italia l’USB ha indetto uno sciopero di solidarietà con Marica. La CGIL si è limitata al sostegno verbale, partecipando al presidio, senza lanciare la giornata di lotta.
Di fronte al magazzino IKEA di Corsico si sono radunate 200 persone. Tanti lavoratori, tanti anche i solidali.
Tra loro anche un gruppo di femministe della rete Non Una di Meno di Milano, che hanno letto una lettera pubblica di sostegno a Marica.
Qui puoi ascoltare la diretta dell’info di Blackout a Dafne di NUDM Mi.

Fuori dal magazzino il freddo punge ma gli umori sono bollenti. «Ci trattano come mobili da smontare e rimontare. Per loro siamo solo numeri senza diritti».
I lavoratori hanno cartelli con la scritta “Pessima Ikea”
«I nostri turni di lavoro sono regolati da algoritmi. Non siamo più uomini e donne. Solo numeri»
A Corsico l’algoritmo che combina i dati per ottenere il maggior profitto al minor costo per Ikea, è arrivato a decidere 1800 cambi turno al mese su 450 dipendenti.
Lo sciopero di oggi è in appoggio anche ad un altro lavoratore licenziato a Bari, per essere rientrato con cinque minuti di ritardo dalla pausa pranzo. Ad altri due lavoratori di Corsico, licenziati per aver partecipato alle lotte e reintegrati dal giudice, sono ancora in strada, perché le porte dell’azienda restano chiuse.

Negli ultimi cinque anni Ikea ha ridotto le maggiorazioni per la domenica e i festivi mentre il premio di “partecipazione” – il nuovo nome del vecchio premio di produttività – è stato quasi azzerato. Da qualche mese i lavoratori sono anche assegnati ai reparti anche senza formazione specifica. Jolly, usa, sposta, paga poco e getta via, specie se protesta.

Flessibilità è la parola d’ordine nella logistica e nel commercio su grande scala, le catene di montaggio del Terzo Millennio. Chi non ci sta, chi non accetta trasferimenti a centinaia di chilometri, turni spalmati sulle esigenze calcolate dall’algoritmo, viene buttato fuori. Un figlio disabile non è rappresentato tra le variabili matematiche che decidono la vita delle persone.
Il lavoro di cura gratuito è oggi più che mai un destino assegnato alle donne. Chi non riesce a far uscire tutte le sei facce del cubo di Rubik, viene espulsa.

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Non Una di Meno. Perquisizione per la solidarietà a Laura

Ieri mattina tre esponenti della digos si sono presentati a casa di Francesca, un’attivista di Non Una di Meno di Torino, per una perquisizione domiciliare. Cercavano abiti e cellulare. Il provvedimento è stato firmato dal PM Antonio Rinaudo in seguito alla denuncia per diffamazione presentata da Massimo Raccuia.

Chi è Massimo Raccuia? I muri di Torino e i cartelli portati in piazza dalle femministe parlano chiaro. “Massimo Raccuia” è uno stupratore.
Facciamo un passo indietro. Torniamo al 15 febbraio di quest’anno.
Quel giorno al Tribunale di Torino, un collegio di tre giudici donne, presieduto da Diamante Minucci ha assolto con formula piena Massimo Raccuia, ex commissario della CRI, accusato di violenze e stupro. Nelle motivazioni della sentenza si evince che Laura, la donna che ha accusato il suo collega e superiore alla Croce Rossa, non avrebbe avuto una reazione adeguata alle circostanze. Laura si sarebbe limitata a dire “Basta!” “Basta!”. Non aveva urlato, non si era fatta pestare a sangue. Per il collegio giudicante se non urli, se non c’è il sangue, se ti limiti a dire no, a dire “basta” non c’è violenza, non c’è sopraffazione, non c’è umiliazione.
Non solo.
Le giudici hanno trasmesso gli atti alla Procura per avviare un procedimento per calunnia contro Laura. Quella sentenza è l’ennesima che trasforma la donna stuprata in imputata; ancora una volta i riflettori vengono puntati su chi subisce violenza, mettendone in dubbio la credibilità e scandagliandone la vita privata in ogni particolare..

Per Diamante Minucci e le altre due giudici del collegio, dire “Basta” non è sufficiente. Bisogna gridare, correre a farsi fare un test di gravidanza, farsi lacerare la carne e suon di botte.
Per Minucci e le altre due giudici del collegio il discrimine è il martirio. Se lo stupratore non lascia il segno, se la donna non grida aiuto, allora è chiaro che ci stava.
Raccuia è un dirigente, Laura una precaria, già vittima delle violenze durante l”infanzia. Una storia che somiglia a tante altre: in Italia una donna su tre ha subito molestie o stupri. I violenti giocano sulla paura, sul ricatto del lavoro, dei figli, sulla giusta reticenza delle donne a rivolgersi ai tribunali, dove le loro vite sono frugate ed indagate, dove la loro libertà è sempre sul banco degli accusati.
Stupratori e giudici ci vorrebbero spaventate e piegate, ma la nostra forza è nella solidarietà, nel mutuo appoggio.
Raccontare per le strade la storia di Laura serve a far si che la paura cambi di campo.
Il 1 aprile un corteo ha attraversato il centro cittadino per raccontare la storia di Laura e per esprimere la solidarietà e l’indignazione delle donne della rete “Non Una di Meno” di Torino.

Il 12 aprile alle 12 davanti ai palazzi di giustizia di decine di città ci sono stati presidi contro la violenza dei tribunali in sostegno a Laura.
Molto numeroso e rumoroso quello svoltosi a Torino, dove la Questura aveva provato a bloccare l’iniziativa, minacciando divieti e sanzioni.
In tante ci siamo ritrovate davanti al tribunale con cartelli, striscioni e slogan. Poi il presidio si è trasformato in un breve corteo che si è guadagnato il mercato, dove tanti si sono fermati ad ascoltare i brevi comizi.

Francesca è stata perquisita per la partecipazione a quel presidio.
Non Una di Meno di Torino ha emesso un immediato comunicato di solidarietà, che potete leggere qui

Ascolta la diretta con Francesca dell’info di Radio Blackout

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Parma. Processo per stupro

Era il settembre del 2010. In piazza c’era la Festa delle Barricate, nella sede della RAF, la Rete Antifascista, una ragazza appena diciottenne viene ripetutamente violentata da più uomini.

Lei è quasi priva di coscienza. Ha bevuto qualcosa da un bicchiere. La mattina dopo si sveglia sola e nuda nella sede vuota. Si riveste, va in stazione, torna a casa.
Negli anni successivi le viene affibbiato un nomignolo. La chiamano fumogeno. Ci vorranno cinque anni perché “Claudia” capisca il perché.

Nel corso di un indagine su una bomba carta a Casa Pound i carabinieri effettuano numerose perquisizioni. Nel cellulare di un esponente dell’ormai disciolta RAF trovano un video. Il video dello stupro di gruppo di quella lontana notte di settembre.
Il video viene mostrato a Claudia. Sola, in una caserma dei carabinieri, Claudia vede un video, dove lei è oggetto inanimato. Quel video in quei lunghi cinque anni lo avevano visto in tanti a Parma.

Nessuno ha riconosciuto pubblicamente la violenza consumata sul corpo di Claudia nella sede della Raf.
Parte l’inchiesta, scattano gli arresti. In tre, Concari, Cavalca e Pucci sono accusati di stupro di gruppo, altri vengono inquisiti per favoreggiamento.

Vari settori di movimento a Parma assumono un atteggiamento omertoso e “prudente”. Molti puntano il dito su Claudia, accusata di aver fatto i nomi dei suoi stupratori. Claudia viene cacciata da molti luoghi di movimento. Un’appestata, un’infame. La violenza di quella notte la investe in altra forma.
In tribunale, come spesso accade, sul banco degli imputati ci finisce lei. La difesa dei tre uomini accusati di stupro punta a screditarla, con i modi usuali in certi processi. Claudia è una facile, una che va con tutti, una prostituta. Le sue scelte libere diventano la leva sulla quale costruire una tesi difensiva, che non riconosce dignità alle donne stuprate, che abbiano una vita sessualmente libera.
Il nodo è il consenso. Ma non in tribunale.
Claudia è sola, va al processo con l’avvocato d’ufficio.
Questa vicenda era destinata a venire dimenticata presto.
Questa volta capita qualcosa. La strada della libertà delle donne non è stata fatta invano. Claudia incontra compagne e compagni che ascoltano la sua storia e la raccontano in un documento che spezza il velo di omertà che copriva gli stupratori.
Da allora ai processi non è più sola.

Il 9 maggio, dopo mesi di sospensione, il processo è ripreso.
Un gruppo di femministe erano al tribunale per dare sostegno a Claudia. Per la prima volta i sostenitori dei tre stupratori non si fanno vedere.

In aula si consuma un’ulteriore violenza. È il turno di uno psichiatra cui la difesa dei tre uomini ha dato l’incarico di fare una perizia. Lo psichiatra parla ed ogni parola è una pietra scagliata contro Claudia. Le sue parole si incardinano sulla lettura della relazione della psicologa che segue la ragazza: lo psichiatra non ha mai parlato con lei.
Claudia è descritta come bipolare, schizzata, una che nei guai ci entra a capofitto. Una che se l’è cercata. E chi se la cerca, si sa, diventa automaticamente stuprabile.
E, soprattutto diventa poco credibile. Chi entra nel mirino della psichiatria perde la libertà di parola, perché la voce dei “matti” è sempre stonata, fuori dal coro, aliena ed alienata, priva di ragione e di ragioni.
Lo sguardo psichiatrico trasforma chi ne viene investito in persona incapace di intendere e di volere, di capire e di decidere.
Claudia lascia l’aula. Fuori ci sono compagne e compagni pronti a raccoglierne la voce e darle eco.

Anarres ne ha parlato con una delle compagne che ha redatto il documento detto delle “4 crepe”, che per primo ha dato voce a Claudia, rompendo il silenzio intorno a questa vicenda.

Ascolta qui l’approfondimento

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La vendetta della Procura. Perquisiti quattro anarchici per la solidarietà a Laura

Nella notte tra venerdì e sabato la Digos ha perquisito le abitazioni di quattro compagni e compagne della Federazione Anarchica Torinese. Sono stati sequestrati cellulari, computer, abiti.
Le perquisizioni sono state disposte dal PM Rinaudo, che sta indagando per diffamazione e imbrattamento. Nel mirino di Rinaudo le scritte comparse a fine marzo in solidarietà a “Laura”, una donna stuprata due volte, la prima da un collega di lavoro, Massimo Raccuia, la seconda dal tribunale che lo ha assolto. Un collegio di sole donne, presieduto dalla giudice Diamante Minucci, ha stabilito che Laura non è credibile. Non è credibile perché ha detto solo “no”, “no, basta”, per fermare l’uomo che la stuprava. Per il tribunale di Torino dire “Basta” non è sufficiente. La donna stuprata deve avere sul corpo i segni della violenza, deve urlare, deve essere disposta a morire per essere creduta.
Sono passati vent’anni da quando venne cambiata la legge che considerava lo stupro un “delitto contro la morale”. Lo stupratore non faceva violenza ad una donna, ma al suo “onore” e a quello di tutti i suoi parenti maschi. Nel 1996, dopo decenni di manifestazioni femministe, la violenza sessuale venne ascritta ai “delitti contro la persona”.
Tutto cambiava ma molto rimase come prima. In tanti, troppi processi la donna stuprata siede sul banco degli imputati: la sua vita viene messa a nudo nelle aule dei tribunali. La sua parola non basta. Non basta mai. Il discrimine ovvio, quello del consenso, viene costantemente messo in dubbio. La cultura patriarcale continua a celebrare i propri fasti nei sacrari della giustizia di Stato.

La sentenza di assoluzione di Massimo Raccuia ha suscitato ampia indignazione in tutta Italia.
Tante le manifestazioni di solidarietà a Laura, culminate nella giornata di lotta del 12 aprile, quando, in tantissime città si sono tenuti presidi di fronte ai tribunali.

Le scritte comparse davanti al tribunale di Torino e alla sede della Croce Rossa di via Bologna hanno ripetuto quanto veniva scritto e detto in tante piazze della penisola: “La giudice Minucci protegge chi stupra”, “Raccuia stupratore”.
La storia di Laura è simile a tante altre. Raccuia aveva una buona posizione in Croce Rossa, Laura all’epoca era una precaria, già vittima di violenze durante l”infanzia. Nel nostro paese una donna su tre ha subito molestie o stupri. I violenti giocano sulla paura, sul ricatto del lavoro, dei figli, sulla minaccia di altri, peggiori, soprusi, umiliazioni.
Lo stupro non ha nulla a che fare con la sessualità, la violenza contro le donne, la violenza di genere è esercizio di potere, è la reazione della cultura patriarcale alla libertà che le donne si sono prese, pezzo dopo pezzo. Anche a costo della vita.
“Lo stupratore non è un malato ma il figlio sano del patriarcato” era scritto su uno dei cartelli esposti al tribunale di Torino dalla Rete Non Una di Meno.
La cultura dello stupro si alimenta di sentenze come quella di Diamante Minucci, che ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, perché proceda per calunnia nei confronti di Laura, la donna violentata da Raccuia. Un’ulteriore violenza.
Le scritte al tribunale e alla Croce Rossa sono state rivendicate dal gruppo anarco-femminista “Emma Goldman” con un comunicato pubblicato su Indymedia Barcellona.
Non possiamo non condividerne le conclusioni.
“Stupratori e giudici ci vorrebbero spaventate e piegate, ma la nostra forza è nella solidarietà, nel mutuo appoggio, nella denuncia di violenze e abusi sui muri della città, nei posti dove viviamo, dove lavoriamo, dove studiamo, dove camminiamo, dove ci divertiamo.
Impariamo a riconoscerci, per lottare insieme contro chi ci vuole vittime e indifese.
Non lo siamo. Abbiamo imparato ad autodifenderci. Le nostre vite valgono.”

Come altre volte la sentenza di assoluzione di uno stupratore poteva restare un trafiletto in cronaca. Le scritte al tribunale hanno rotto il silenzio, dando un segnale forte e chiaro alla giudice Minucci e all’intero apparato giudiziario di Torino.
La sacralità del tribunale è stata infranta: per questa ragione sono scattate perquisizioni e sequestri per qualche scritta su un muro.
In piena sintonia con il “nuovo corso” inaugurato dal governo Gentiloni con le leggi sulla sicurezza urbana.

Il PM Rinaudo ci accusa di imbrattamento e diffamazione. Nel decreto di perquisizione si legge che siamo stati scelti perché anarchici attivi nella rete femminista Non Una di Meno.
Inutile negarlo. Siamo anarchici, anarchiche, femminist*.

Quelle scritte, chiunque le abbia tracciate sul muro, le ha fatte anche a nome nostro.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

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Uno stupratore e la giudice che lo protegge. Scritte al tribunale e alla CRI

Le motivazioni della sentenza di assoluzione di Massimo Raccuia dall’accusa di stupro hanno suscitato ampia indignazione, perché trasformano la vittima in imputata, negandone libertà e dignità.

Ieri scritte sono apparse di fronte al tribunale e sui muri della sede della Croce Rossa.

Qui gli articoli di Stampa e Repubblica.

Di seguito un testo pubblicato su Indymedia Barcellona dal gruppo anarco-femminista “Emma Goldman” che rivendica le scritte.

“Questa notte di fronte al tribunale di Torino è comparsa la scritta “La giudice Minucci protegge chi stupra”.
Sui muri della sede della Croce Rossa di via Bologna è stata vergata la scritta “Raccuia stupratore”.

Massimo Raccuia è un dirigente della Croce Rossa. Accusato di stupro da “Laura”, una precaria della CRI, dopo sei anni è stato assolto da ogni accusa.
In aula, accanto a Laura, sedeva un’altra donna, la ex compagna di Raccuia, che da tempo aveva chiesto ed ottenuto di allontanare la figlia da un uomo che le dimostrava attenzioni poco paterne.
La giudice che lo ha assolto ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, perché proceda per calunnia nei confronti di Laura, la donna violentata da Raccuia.

La giudice Minucci ha deciso che Laura non è credibile. Non è credibile perché ha detto solo no. “No, Basta”, cercando di allontanare da se l’uomo che la stava stuprando. Per Diamante Minucci e le altre due giudici del collegio, dire “Basta” non è sufficiente. Bisogna gridare, correre a farsi fare un test di gravidanza, farsi lacerare la carne e suon di botte.
Il discrimine per Minucci è il martirio. Se lo stupratore non lascia il segno, se la donna non grida aiuto, allora è chiaro che ci stava.

Raccuia è un dirigente, Laura una precaria, già vittima delle violenze durante l”infanzia. Una storia che somiglia a tante altre: in Italia una donna su tre ha subito molestie o stupri. I violenti giocano sulla paura, sul ricatto del lavoro, dei figli, sulla giusta reticenza delle donne a rivolgersi ai tribunali, dove le loro vite sono frugate ed indagate, dove la loro libertà è sempre sul banco degli accusati.

Per noi, che non amiamo né i giudici, né i tribunali, “no” vuol dire “no”, “basta” vuol dire “basta”.

Uno stupro è uno strupro. La discriminante è il consenso.

La cultura dello stupro si nutre di sentenze come quella emessa dalla giudice Minucci.

Stupratori e giudici ci vorrebbero spaventate e piegate, ma la nostra forza è nella solidarietà, nel mutuo appoggio, nella denuncia di violenze e soprusi sui muri della città, nei posti dove viviamo, dove lavoriamo, dove studiamo, dove camminiamo, dove ci divertiamo.
Impariamo a riconoscerci, per lottare insieme contro chi ci vuole vittime e indifese.
Non lo siamo. Abbiamo imparato ad autodifenderci. Le nostre vite valgono.
Gruppo anarco-femminista “Emma Goldman””

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8 marzo a Torino. Ma quale stato ma quale dio, sul mio corpo decido io!

La marea femminista che ha attraversato il pianeta l’8 marzo ha bloccato il centro di Torino per l’intera giornata.
L’appuntamento del mattino era alle 10 nei pressi del Cine Massimo. In programma contestazioni e blocchi. Tanti gli slogan, tantissimo l’entusiasmo e la voglia di rendere visibili le ragioni di un otto marzo che spezza la ritualità di una festa, dove si vive come ogni giorno, con qualche spesa in più dal fioraio.
In centinaia siamo partit* in corteo, guadagnando via Po in direzione di una delle farmacie che rifiutano di vendere la pillola del giorno dopo. Lunga sosta di fronte alla farmacia, affissione di manifesti e slogan, poi il corteo selvaggio riparte, attuando numerosi lunghi blocchi, che in breve paralizzano la piazza più grande della città. Ma è solo l’inizio.
La Rete Non Una di Meno di Torino decide di accogliere l’invito della sindaca Appendino, che aveva annunciato musei gratis per le donne l’8 marzo. Incomprensibilmente di fronte all’ingresso del prestigioso museo del Cinema alla Mole Antonelliana, le femministe che vogliono entrare in segno di solidarietà con le lavoratrici della Rear, si trovano di fronte la celere schierata. Dopo uno spintonamento con i gentiluomini e gentildonne dell’antisommossa, le porte del museo vengono blindate. Volano calci sull’ingresso chiuso. Evidentemente le donne in nero e fucsia che lottano a fianco delle lavoratrici e dei lavoratori in lotta nei musei cittadini non sono gradite. Appendino preferisce le ragazze supersfruttate che lavorano con la mimosa del fidanzato infilata all’occhiello, le donne delle pulizie, cuoche, baby sitter, stiratrici che lavorano nelle case senza paga, mentre la loro mimosa già appassisce nel vasetto a centro tavola. È la faccia oscura della nuova Torino Smart, superconnessa, trendy, tra movida e grandi eventi, dove precarietà, lavori gratuiti, discriminazioni condite da molestie sono “normali”
Una “normalità” che la piazza torinese dell’8 marzo, una piazza di persone in sciopero, ha cercato di spezzare. La lotta alla violenza contro le donne si articolata intersecando i piani, assumendo il punto vista di chi lotta per la libertà del genere, dal genere con uno sguardo attento alle cesure di classe, di razza, di dominio.

Dopo il parapiglia al Museo del cinema il corteo si è diretto in corso Regina, raggiungendo le universitarie uscite dal Campus Einaudi. Insieme si sono fatti due lunghi blocchi in uno dei principali corsi cittadini.

Dai posti di lavoro arrivavano notizie di scuole chiuse e di quasi quattromila dipendenti pubblici in sciopero, all’ospedale Mauriziano ha chiuso per sciopero l’ufficio prenotazioni.

Nel pomeriggio, in piazza XVIII dicembre, un luogo simbolo delle lotte dei lavoratori anarchici e socialisti, per la lapide che ricorda i martiri della Camera del Lavoro, è subito chiaro che la giornata sarà di quelle da ricordare. A Torino, l’appuntamento è alle 16, perché è giorno di sciopero generale, perché chi la folla vuole inceppare la macchina, vuole dimostrare la propria forza. Uno sciopero politico, uno sciopero che mette in discussione l’ordine. Morale, economico, patriarcale,

Migliaia di persone si incontrano nella piazza dove, musica e canzoni autoprodotte si alternano agli interventi, alle parole che raccontano le vite irrappresentate di tante, che oggi si autorappresentano. Tanti cartelli, pochi striscioni, nessuna bandiera, grande radicalità, espressa in slogan e interventi. Non è una classica piazza di movimento, ma una piazza che si muove intorno a obiettivi e pratiche con una spiccata tensione anticapitalista, antirazzista, antigerarchica, anticlericale.
“Ma quale stato ma quale dio, sul mio corpo decido io!”
“Nello stato fiducia non ne abbiamo, la difesa ce la autogestiamo!”
“Lo stupratore non è malato, è il figlio prediletto del patriarcato”
“Lotta dura contro natura”
“Ma quali leggi? Ma quale protezione? Contro la violenza ci vuole ribellione!!
E si canta “si parte, si torna, insieme, siam tutte puttane, il corpo mi appartiene, il prete e l’obiettore dovran tremare se arrivan le mignotte. Son botte, son botte!”

L’impegno e la forza delle componenti anti istituzionali e rivoluzionarie nella costruzione della giornata è emerso in modo chiaro, segno che esistono enormi spazi di crescita, non facilmente riassorbibili da chi, come la cgil, ha provato ad assumersi la maternità di una marea incontrollabile.

Il corteo sfila per ore attraversando il centro cittadino ed approda in piazza Gran Madre di Dio, nel luogo dove i cattolici hanno costruito una chiesa sulle fondamenta del tempio di Iside. Qui venivano eretti i roghi delle streghe. In un batter d’occhio la piazza cambia nome, diventa “Piazza Donne Libere arse dalla chiesa”.
Poi un grande cerchio. Domani è ancora “l’otto marzo”.

Los Ratos
(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Umanità Nova)

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Otto marzo. Primavera di lotta

8 marzo sciopero generale contro la violenza di genere
Mimose, cene tra donne, retorica istituzionale sono diventate la cifra prevalente di tanti otto marzo. La giornata della libertà femminile si è trasformata in una sorta di San Valentino in rosa, dove fiori gialli si depositano sulle scrivanie, i banconi dei supermercati, al capezzale della nonna malata, sulle tute delle operaie. O magari infilzate tra la verdura nelle sporte delle casalinghe. Una festa innocua, dove si lavora e si vive come ogni altro giorno, dove la violenza quotidiana è rappresentata con scarpe e panchine dipinte di rosso.
Il femminismo si trasforma nel mero retaggio di un’epoca passata, assorbita in una parità formale, emendata dagli “eccessi” di chi a partire da se, voleva sovvertire l’ordine. Morale, economico, gerarchico. Lo stigma dell’ideologia è lo strumento preferito dai nemici della libertà femminile. Uno stigma inappellabile che mira a trasformare un movimento sovversivo in una parentesi breve e folcloristica.
Da qualche tempo tira un’aria diversa. Un’aria che attraversa il pianeta, un’aria che lo scorso 26 novembre ha portato 200.000 persone ad attraversare le strade di Roma.
L’8 marzo è stato promosso uno sciopero generale contro la violenza maschile sulle donne, uno sciopero politico, come politico è il misconoscimento della violenza, declinata in affare privato, personale, accidentale.

Femminismi e violenza di genere
Il movimento femminista cresciuto negli ultimi anni pone al centro la questione dell’identità, che non è biologica, ma politica e sociale. Questo movimento sta smontando la logica binaria che ha segnato altri percorsi. Una logica che mira al mero enpowerment femminile, con metodo lobbysta, che non spezza l’ordine gerarchico, ma tenta solo di scalarlo.
Oggi quel femminismo, quello della differenza, è ai margini di un movimento che ha fatto propria una prospettiva transfemminista e intersezionale.
Una prospettiva che colloca la lotta al patriarcato nei bivi dove si incrocia con questioni come la classe, la razza, la gerarchia.
Questo movimento sta cercando, tramite il confronto e la ricerca del consenso, di articolare un discorso pubblico sulla violenza contro le donne. Una violenza che ha i caratteri espliciti di una guerra planetaria alla libertà delle donne, alla libertà dei generi, alla libertà dai generi.
Gli spazi di autonomia che le donne si sono conquistate hanno incrinato e a volte spezzato le relazioni gerarchiche tra i sessi, rompendo l’ordine simbolico e materiale, che le voleva sottomesse ed ubbidienti. Il moltiplicarsi su scala mondiale dei femminicidi dimostra che la strada della libertà femminile è ancora molto lunga.
Il carattere disciplinare, punitivo della violenza maschile, nella descrizione tossica proposta dai media scompare. Dietro la supposta empatia con le vittime si cela uno sguardo obliquo, sin troppo consapevole del rischio insito nel riconoscimento del carattere eminentemente politico di gesti, che vengono circoscritti nella sfera delle relazioni, degli “affetti”, della “follia d’amore”. Ti amo da morire, ti amo tanto che decido di farti morire. Un alibi classico, divenuto parte della narrazione prevalente della violenza contro le donne.
Pestaggi, stupri, assassini, molestie finiscono sempre in cronaca nera, con pericolose oscillazioni in quella rosa.
Il dispiegarsi violento della reazione patriarcale viene ridotto ad uno scenario dove le donne recitano la parte delle vittime indifese, gli uomini violenti sono folli. La follia sottrae alla responsabilità, nascondendo l’esplicita intenzione disciplinante e punitiva.
La violenza maschile sulle donne è un fatto quotidiano, che nello specchio distorto dei media diventa una momentanea rottura della normalità. Raptus di follia, eccessi di sentimento nascondono sotto l’ombrello della patologia una violenza che esprime a pieno la tensione diffusa a riaffermare l’ordine patriarcale.
Se il carattere politico della violenza divenisse parte del discorso pubblico, avrebbe una potenza deflagrante, mettendo in soffitta l’ipocrisia delle quote rosa, delle pari opportunità, dei parcheggi riservati alle donne.
Tra i temi di questo 8 marzo di sciopero e lotta, la ferma volontà di rompere il silenzio e l’indifferenza, per sostenere un percorso di libertà, mutuo aiuto e autodifesa contro chi ci inchioda nel ruolo di vittime.
Forte è il rifiuto che la difesa delle donne diventi l’alibi per politiche securitarie, che usano i nostri corpi per giustificare strette disciplinari sull’intera società.

Il lavoro rende libere?
La critica femminista mostra le aporie di un discorso sull’eguaglianza, che si infrange nella materialità del vivere quotidiano, nei licenziamenti firmati in bianco, nel lavoro di cura non retribuito, nei ricatti e nelle molestie sessuali.
La crescita di precarietà e disoccupazione e la necessità di un reddito autonomo, nel dibattito in vista dell’8 marzo ha prodotto una nuova declinazione del “reddito di cittadinanza” traslato in “reddito di autodeterminazione”, da cui emerge con termini innovativi una trama logora. E pericolosa. Affidare alla tutela statale la propria autonomia è un ossimoro, figlio di una perdurante illusione statalista. Più interessante la tensione a liberarsi dalla condanna ai lavori di cura non retribuiti, che non trasferisca la servitù sulle donne più povere, spesso immigrate, sottoposte alla pressione familiare ed al ricatto delle leggi sul soggiorno.
L’intersezione tra la critica al lavoro salariato e alla società di classe e la lotta al patriarcato è un nodo da sciogliere.
Una riflessione seria sulla crescita di ambiti pubblici non statalizzati, né mercificati potrebbe aprire percorsi di sperimentazione che sciolgano le donne dal lavoro di cura, liberando dalle gabbie istituzionali bambini, anziani, disabili. Smontare il concetto di famiglia, per dar spazio ad una dimensione sociale più ampia, includente, libera, è un obiettivo che apre alla possibilità libera le donne dal lavoro di cura, in una prospettiva autogestionaria.

Salute e libertà
Le donne muoiono di parto e di aborto, perché la chiesa cattolica sta estendendo il proprio potere negli ospedali pubblici.
Discutere sul diritto all’obiezione di coscienza è una trappola, in cui è sin troppo facile cadere. Sull’Avvenire, giornale di qualche settimana fa, in risposta all’assunzione di due medici non obiettori al San Camillo di Roma, è comparso un editoriale in cui l’obiezione è indicata come strada maestra per rendere impossibile scegliere di abortire. Il vero nodo è la legge 194, la legge che, dopo la depenalizzazione dell’aborto, pose dei limiti alla libertà di scelta delle donne.
La 194 è una gabbia normativa, che i nemici della libertà femminile hanno imparato a usare. Viene confermato il principio che le leggi sono la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società. Tante leggi, a posteriori definite “conquiste” sono state limitate concessioni a movimenti che miravano a ben di più.
Tra i punti dello sciopero dell’8 marzo c’è l’abolizione dell’obiezione di coscienza. Pur comprendendo e condividendo le ragioni di questa rivendicazione ritengo che si debba lavorare in altra direzione, perché la chiesa cattolica non ha alcun primato morale e sarebbe poco saggio regalargliene uno.
La questione non è la libertà dei medici di rifiutare di agire contro la propria coscienza, ma che si diano le condizioni perché nessuno limiti la libertà di scelta delle donne, perché nessuno ne metta repentaglio le vite, perché nessuno possa ricattarci, umiliarci, piegarci. Eravamo fuorilegge, siamo state messe sotto l’ombrello della legge, è tempo che si lotti per essere davvero libere, senza legge.

I sindacati e lo sciopero dell’8 marzo
I sindacati, cui era stato fatto l’appello per l’indizione dello sciopero, hanno giocato la loro partita di immagine, senza tuttavia contribuire realmente a costruirlo.
Alcuni sindacati di base, USB, USI-AIT, SLAI Cobas, Cobas, hanno indetto lo sciopero generale, offrendo copertura alla giornata. Altri, come la Cub, lo hanno indetto solo in alcuni settori, come sanità e trasporti. Chi aveva indetto sciopero nella scuola per il 17 marzo ha respinto la richiesta di convergere sull’8, nel timore che le rivendicazioni di quello sciopero, venissero oscurate da quelle emerse dalle assemblee femministe. Una evidente miopia, visto il netto schieramento di Non Una di Meno contro la Buona Scuola varata dal governo Renzi.
Ambigua, ma molto corteggiata, la Cgil, facendo leva sulla diffusa ignoranza sulla libertà di sciopero, ha boicottato lo sciopero indicendo assemblee sindacali durante l’orario di lavoro. In corner la Cgil ha indetto sciopero nella scuola, mettendo a segno un doppio risultato, catalizzare la categoria sull’8, mettendo in difficoltà il sindacato di base ormai attestato sul 17, e recuperando parte dei consensi perduti non proclamando lo sciopero generale per l’8.
Ciascuno ha fatto il proprio gioco delle tre carte in una sfida che nessuno ha voluto cogliere sino in fondo.

La scommessa del femminismo libertario
“Non una di meno” è un impegno che ciascuna si è presa con quelle che non ci sono più, nella consapevolezza che formulare un discorso politico ed un percorso di lotta sulla violenza è il primo passo per disarticolarla.
Lo sciopero, lanciato dalla rete delle argentine di Ni Una Menos, si è esteso a decine di altri paesi, tra cui l’Italia, dove in pochi mesi è nata e si sta sviluppando la Rete Non Una di Meno. È un percorso in crescita veloce, ma non sempre facile.
Il grande successo di questo movimento lo pone sul ciglio di un pendio scosceso, dove si intersecano modalità libertarie e tentazioni accentratrici, seduzioni stataliste e spinte autogestionarie, giochi istituzionali e radicalità politica. Il tutto condito da grande partecipazione, entusiasmo, voglia di fare e di mettersi in gioco. Non Una di Meno potrebbe essere importante laboratorio oppure normalizzarsi presto in strutture permanenti, incarichi rigidi, tutele politiche.
La partita è ancora aperta. Dipenderà anche dall’impegno dei libertari se la natura fluida, eccentrica, plurale di questo movimento riuscirà a durare e a costruire nel tempo spazi aperti di confronto e lotta.
Le assemblee locali sono i luoghi dove questa partita si può giocare meglio, perché più diretto è il rapporto con il territorio, più semplice la partecipazione, più chiare le partite di potere delle componenti autoritarie e riformiste.

Buon Otto Marzo!

maria matteo

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Olga e le altre. Dalla violenza in casa alla violenza di Stato

Tante, troppe, le donne che faticano a liberarsi da una relazione violenta. Il ricatto dei figli, la mancanza di un reddito proprio, le minacce di morte rendono difficile riprendersi la propria vita. I tribunali che indagano le vite delle vittime, gli assistenti sociali che scrutano la quotidianità di chi dice no alle botte, agli stupri, alle umiliazioni condiscono il tutto del sapore acre dell’aceto.
Per le migranti senza documenti la strada è una salita ancor più ripida. Per molte il permesso di soggiorno è legato al quello del marito, per tutte le altre, se perdi il lavoro perdi il permesso.
É successo anche ad Olga, badante ucraina, che non è riuscita a trovare un nuovo impiego, dopo la morte della donna anziana di cui si occupava.
Olga non è il suo nome vero, ma la sua storia è lo specchio di quella di tante altre donne, che un giorno bussano alla polizia per denunciare la violenza di quello che per un po’ è stato il proprio compagno. La polizia le ha chiesto i documenti, il permesso, e l’ha subito spedita al CIE di Ponte Galeria a Roma, uno dei quattro rimasti aperti dopo anni di rivolte ed evasioni.
Di oggi la notizia che il governo ha stanziato i soldi per finanziare l’apertura di altri 15 CIE, ora ribattezzati CPR – centri per l’espulsione e per coprire le spese per le deportazioni.
Olga sarebbe dovuta partire oggi: la polizia italiana le aveva prenotato un posto in un volo di sola andata per l’Ucraina. All’ultimo è stata presa la decisione di lasciarla al CIE. Forse l’eco mediatica della sua vicenda ha indotto il ministero dell’Interno a una maggiore prudenza. Forse. Forse è stato solo uno dei tanti inghippi burocratici che ingarbugliano la vita dei migranti.
Olga è una delle tante donne che restano impigliate nella rete delle espulsioni. Una delle tante donne che, oltre ai controlli e agli abusi che investono tutti i senza documenti durante controlli e retate, subiscono violenze in quanto donne. Molestie e stupri nei centri di detenzione sono stati raccontati dalle donne che hanno corso il rischio di raccontare la propria storia. Donne che hanno lottato ed hanno avuto la fortuna di incrociare chi era disposto ed ascoltare e far circolare le loro voci.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Sonia, una delle attiviste che stanno seguendo la vicenda di Olga

Di seguito la trascrizione di una telefonata con Olga detenuta nel CIE di Ponte Galeria.
A causa di difficoltà di comprensione dell’audio, alcune parti sono mancanti e alcune sono state integrate tra parentesi per facilitare la lettura.

Prima cosa: siccome io sto qui già [per] la seconda volta, no?

[La] prima volta com’è successo?

Io [sono] stata fermata, come tutti. Una ragazza ha accoltellato un ragazzo – non lo so con che cosa, non lo so. Sono venuti i carabinieri e hanno chiesto chi ha visto quello che è successo – perché subito è venuta l’ambulanza che ha preso quel ragazzo, perché lui [era] svenuto, e l’ha portato via.

[Dunque] sono venuti i carabinieri [e hanno chiesto] ‘chi ha visto?’ [alle] persone [presenti se qualcuno aveva visto qualcosa]. Hanno chiesto a tutti ‘puoi dare il numero di telefono, può darsi che serve’, e pure io ho dato [il] mio numero.

[Dopo] una settimana o non so quanti giorni, [sono stata chiamata] dai carabinieri e mi hanno chiesto “[parte mancante] e io ho detto “si” “puoi venire qui con un documento?”. Mi hanno detto che quel ragazzo ha fatto l’intervento e [che lei] con le forbici gli ha fatto un buco nei polmoni – e dunque se potevo andare lì. Io [ho detto] “come? non lo so, non ho documenti, ho solo il passaporto”, [e loro] “va bene, non fa niente”.

Io ho preso il passaporto e sono andata lì ho fatto vedere il passaporto, loro hanno guardato il computer e hanno visto che ho espulsione. Espulsione. Espulsione per cosa io ce l’ho? Espulsione io ce l’ho perché non [parte mancante] il permesso di soggiorno, quando mi è venuto il permesso di soggiorno io sono stata in Ucraina. Sono stata in Ucraina [parte mancante] perché è morto mio padre. E quindi io non [parte mancante] permesso di soggiorno

Quando sono tornata la signora era morta e io non sapevo [????] il permesso di soggiorno e quindi quello di espulsione io avevo.

E allora mi hanno portato qui al CIE, però io sono stata venerdì, sabato e domenica. Lunedì avevo l’udienza io uscita e lunedì mi hanno fatto uscire. Questo è successo due anni fa.

Quindi io avevo il foglio per andare via. Trenta giorni avevo per andare via.

E adesso cos’è successo? Mi ha menato il mio ragazzo, quello che ti ho raccontato sono tornata al mio lavoro e ha cominciato a menarmi il mio ragazzo.

Lui [frase poco comprensibile].

A lui l’hanno fatto uscire, e a me mi hanno chiuso qui.

Questo è tutto.

Io non l’ho denunciato, però loro sono venuti lì. Io ho chiamato da sola, hanno visto tutto, mi hanno portato qui, perché hanno visto che io ho il foglio di via e mi hanno portato qui.

Ora sto qui già dal 18 [gennaio] – un mese. E mi hanno detto che mi rimandano al [mio] Paese.

Mi hanno detto che mi mandano via perché io non devo stare in Italia 5 anni.

Io ho detto, perché, io tutta la mia vita – io ho già quarant’anni, ho passato tutta la mia vita, da quando sono in Italia, ho lavorato. Ho anche aiutato una signora anche senza soldi e senza niente, perché aveva bisogno di me, perché non aveva soldi. Non li aveva e mi ha detto: “ti do l’alloggio e ti do da mangiare perché io non ti posso pagare lo stipendio”. Io ho lavorato da lei e l’ho aiutata.

Prima lavoravo con una signora che ora è morta – perché io sto qui da 11 anni

[parte mancante]

Io ho detto: ma perché una donna che viene qui per lavorare, per aiutare persone. Ma scusa, anzi, e poi quello che prendo di stipendio io lo lascio qui in Italia, perché io pago l’affitto.

Ma perché è così la legge? Perché?

[frase poco chiara]

Io ho detto: meglio morta che qui [nel CIE] – però non voglio andare in Ucraina – io non ho nessuno, non ho casa, non ho niente. Ho detto: datemi [almeno] la possibilità che esco, prendo i miei vestiti, dalla signora lo stipendio. Perché io sto adesso con una signora che sta malata con il cancro.

Ieri io ho chiamato e lei [è stata portata] all’ospedale sant’Andrea, perché ha sentito ‘Ponte Galeria’ [e si è chiesta] che cos’è questo posto?

Io non ho manco preso lo stipendio e non c’è nessuno che mi porta i soldi e che mi porta i miei vestiti.

Io ho chiesto, ho detto ‘ma io così parto?’ e mi hanno risposto ‘parti cosi’. Mi hanno detto ‘cerca qualcuno che ti porta i vestiti’ ma io gli ho detto ‘chi mi porta i vestiti? Nessuno!’

Adesso che c’è io sono stata alla prima udienza, il giudice è stato bravissimo, e voleva che io vado fuori, che io esco però quelli che stanno seduti vicino a lei, quelli dell’ufficio immigrazione. Uno sta seduto vicino al giudice, non so chi è quello, io penso che è dell’ufficio di immigrazione.

Io ho chiesto che vado da sola, e il giudice ha detto che va bene, ma loro hanno detto ‘no, e perché da sola? Noi ti compriamo il biglietto e tu vai’.

Non mi hanno [dato nessuna spiegazione], non mi hanno detto niente, soltanto mi hanno detto “noi ti compriamo il biglietto, perché devi andare da sola?”

In quei giorni tanta gente è stata rimandata al [proprio] Paese [d’origine].

Io assolutamente posso raccontare basta che vado via [dal CIE] perché io non ce la faccio, non ce la faccio proprio e anzi, ho anche paura, non è soltanto che… Perché io non lo so, il giorno [del rimpatrio] è vicino, e io non ci voglio pensare perché ho ancora la pressione alta. E lo zucchero [=glicemia] oggi è a duecentoventi.

Non so, speriamo.

[frase mancante]

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La marea sale ancora

Non era scontato. Non era scontato che, dopo l’imponente manifestazione femminista del 26 novembre 2016 e la grande assemblea del giorno successivo, il nuovo appuntamento della rete femminista “Non una di meno” lanciato per il 5 e il 6 febbraio a Bologna fosse colto da tanta gente. La marea continua a salire: 1500 persone hanno partecipato agli otto tavoli di lavoro e alla plenaria conclusiva nei locali della facoltà di giurisprudenza del capoluogo emiliano. Tanti i luoghi, gli accenti, le storie, le vite, i percorsi politici e sociali che si sono incrociati in due giorni di confronto, quasi sempre pacato, mai semplice.
Negli ultimi anni è nato un movimento femminista capace di porre al centro la questione dell’identità, che non è biologica, ma politica e sociale. Questo movimento sta smontando la logica binaria che ha segnato altri percorsi. A “Non una di meno” partecipano donne e uomini, le cui identità sono difformi, spurie, fuori dagli schemi.
È un femminismo che colloca la lotta al patriarcato agli incroci dove si interseca con questioni come la classe, la razza, la gerarchia. Non accetta che la libertà e la sicurezza delle donne possa divenire alibi per moltiplicare la pressione disciplinare, i dispositivi securitari e repressivi.
Il movimento nasce sulla spinta di quelli sudamericani contro la violenza maschile sulle donne e fa parte di una rete transnazionale in rapida crescita. È un movimento di lotta che sta cercando, tramite il confronto e la ricerca del consenso, di articolare un discorso pubblico, un “piano femminista” contro la violenza di genere.
Un discorso che si sta definendo nei tavoli di discussione, che si sono costituiti a Roma il 27 novembre, e che, tramite mailing list nazionali e svariate articolazioni territoriali si sono sviluppati in ogni dove.

A Bologna l’intersezione dei linguaggi mostrava la trama sottesa alle tele intessute da ciascun*. In molt* invece era forte la tensione a condividere i vissuti, per dare parola politica a quanto viene relegato ai margini, rinchiuso nel privato. Privato in tutta la profonda ambiguità di un termine che è gabbia normativa e indice di sottrazione da una sfera pubblica ancora declinata al maschile, universale, bianco, eterosessuale.
Anche nei luoghi di “movimento”. Un’inchiesta realizzata a Roma in alcuni posti autogestiti ha rivelato che un terzo delle compagne ha subito violenze e molestie in spazi di aggregazione politica e sociale, in cui l’antisessismo è formalmente un valore condiviso. Le statistiche ci dicono che la percentuale nazionale è identica. I “nostri” posti sono autogestiti, crocevia di lotte ed esperienze, luoghi dove si prefigura il mondo che vorremmo, ma non sono esenti dal sessismo, dalla violenza di genere. Fare i conti con questa realtà, individuare strategie per riconoscerla, raccontarla, affrontarla e combatterla è l’obiettivo del tavolo sul sessismo nei movimenti, cui ho partecipato con altr* compagn* dell’assemblea antisessista di Torino.

Oltre a quello sul sessismo nei movimenti c’erano altri sette tavoli tematici: legislativo e giuridico; lavoro e welfare; educazione alle differenze; femminismo migrante; salute sessuale e riproduttiva; narrazione della violenza attraverso i media; percorsi di fuoriuscita dalla violenza.
L’obiettivo dichiarato della due giorni era, oltre al dibattito sul piano femminista contro la violenza di genere, la definizione degli obiettivi dello sciopero globale delle donne di mercoledì 8 marzo.
Questi tavoli hanno lavorato in contemporanea, in un’alternanza tra momenti collettivi e approfondimenti di gruppo, con una pratica orizzontale, libertaria, inclusiva.
I grandi numeri e il grande entusiasmo mostrano un movimento in crescita, ancora aurorale, che si trova in bilico tra la ricerca dell’interlocuzione istituzionale e la tensione a costruire autogestione e conflitto fuori dalle gabbie normative imposte dallo Stato, fuori dalle relazioni di sfruttamento cui ci costringe la società di classe.
Molti i nodi rimasti aperti. In alcuni tavoli sono prevalse, non senza un aspro dibattito, tentazioni stataliste. Nel tavolo “lavoro” la spinta ad ottenere basi materiali per sottrarsi ai rapporti violenti ha prodotto una nuova declinazione del “reddito di cittadinanza” traslato in “reddito di autodeterminazione”, da cui emerge con termini innovativi una trama usurata. E pericolosa. Affidare alla tutela statale la propria autonomia è un ossimoro, figlio di una perdurante illusione statalista. Tuttavia il dibattito è stato molto più ampio, articolato, complesso, aperto, nel ricercare una fuoriuscita dalla condanna ai lavori di cura non retribuiti, che non poggiasse sulle mani e sulle spalle delle donne migranti.
Il tavolo giuridico, ma forse era inscritto nel suo DNA politico, si è chiuso nel gioco delle convenzioni e dei diritti formali, quelli, che in altri ambiti, servono ad emettere severe condanne postume.

Decisamente più interessante l’esito del tavolo “educare alle differenze”, che, contro la logica delle “pari opportunità” vuole “coltivare un sapere critico verso le relazioni di potere fra i generi e verso i modelli stereotipati di femminilità e maschilità”.
Al tavolo sulla fuoriuscita dalla violenza, cui hanno partecipato soprattutto le donne dei centri antiviolenza, è stato affermato il netto rifiuto dell’istituzionalizzazione dei centri antiviolenza, la rivendicazione del ruolo politico di chi ci lavora, che nega la logica assistenzialista, dando spazio alle donne, non più vittime ma protagoniste.

Molto concreto, mirato al contrasto del racconto mediatico prevalente e alla costruzione di percorsi comunicativi femministi il lavoro del tavolo comunicazione.

Il tavolo sul femminismo migrante, pur scontando l’aporia della scarsa partecipazione delle donne straniere, ha formulato l’obiettivo di cancellare le leggi razziste, i cie, le deportazioni.
Il dibattito si è concentrato sulle gabbie che stringono d’assedio le vite migranti, strangolate da leggi razziste, che tengono sotto costante ricatto chi, per mantenere il permesso, non può perdere il lavoro.
Molte donne senza lavoro eccetto quello non retribuito tra le mura democratiche, sono vincolate al permesso del marito e quindi sotto doppio ricatto.

Al tavolo sulla salute si è parlato di riconquista dei consultori, di rendere liberi e sicuri l’aborto, la contraccezione, l’accesso agli esami.

Intorno a questi temi è stato costruito lo sciopero dell’8 marzo, senza fare sconti alla CGIL, che non aveva proclamato lo sciopero ma pretendeva di essere parte del percorso. Nessuno sconto neppure a quei settori del sindacalismo di base, che pur proclamando sciopero l’8 marzo, non hanno accettato di far convergere sull’8 lo sciopero convocato il 17 febbraio contro la buona scuola.
A Bologna nella plenaria finale il comunicato inviato dalla CGIL è stato sommerso dai fischi, mentre fragorosa è stata l’approvazione verso le proposte più radicali.
I prossimi mesi ci diranno se le tele che stiamo tessendo sono robuste, capaci di contrastare il riformismo, le seduzioni welfariste, le illusioni sui “diritti”, che pure hanno fatto capolino nei vari tavoli.

Sono già molti gli avvoltoi che si aggirano con in tasca una proposta normalizzante, una struttura permanente, una tutela politica.
Non penso che avranno vita facile. La misura è colma. “Non una di meno” è una promessa che ciascuna fa a quelle che mancano. Ma anche una promessa che ciascuna fa a se stessa, Il patriarcato si (ri)afferma mettendo sotto ricatto quotidiano le nostre vite. Le donne uccise, stuprate, picchiate, umiliate, perseguitate, derise sono un monito per tutte le altre. La servitù volontaria è una tentazione forte, specie se sei sola. I movimenti, le reti femministe, i luoghi sottratti al sessismo ci danno la forza collettiva per attaccare, per strapparci di dosso il ruolo di vittime, per costruire la strada che va dal genere all’individuo. Non mera astrazione giuridica ma mutevole e concreto approdo per tutte, per tutti, per tuttu.
Maria Matteo

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L’onda rosa. Il grande corteo delle donne a Roma

Quando la marea sale nei paesi affacciati sull’Oceano, comincia piano, piano, piano. Poi diventa impetuosa e in breve copre tutto.

In questi mesi prima del corteo del 26 novembre abbiamo visto la marea salire. Sembrava una quieta marea mediterranea, destinata ad allontanare di qualche metro il bagnasciuga. Poi, passo dopo passo, assemblea dopo assemblea chi ha attraversato il percorso di “non una di meno” ha visto crescere una marea forte, di quelle che mutano il profilo della costa, assediando le roccaforti del potere ancorate a terra.

A Roma è dilagata come solo l’Oceano sa fare. Centomila, duecentomila donne sono scese in piazza riempiendola con i loro corpi indocili, con la forza di chi non accetta il ruolo di vittima predestinata, di chi non vuole “essere difesa” da uomini (e donne) in divisa, di chi sa che la propria libertà cresce, quanto più libera è la donna che marcia accanto.

In tante si sono incontrate e ri-conosciute per le strade di Roma, dove tanti percorsi diversi si sono intrecciati, come gomitoli di una lana che tesse una trama di saperi, pratiche, intersezioni, che torneranno a maturare nei tanti luoghi da cui si è partite e poi tornate.

L’assemblea della domenica, un’assemblea eccessiva, debordante, enorme è iniziata in perfetto orario, perché la tensione del momento non si poteva né doveva esaurire nello spazio del corteo, ma si doveva proiettare nei mesi futuri, germinando nuove lotte, nuovi incontri, nuovi spazi liberi.

I tanti tavoli tematici in cui si è articolata l’assemblea hanno raccolto proposte che dovranno essere ridiscusse e ri-articolate nei vari territori.

L’idea di uno sciopero delle donne per il prossimo 8 marzo è stata condivisa da tutte nella plenaria finale.

A Torino la prossima assembea è fissata per il 7 dicembre in via Millio 34 alle 19,30.

Ascolta la diretta di Blackout con Barbara dell’assemblea “Non una di meno” di Torino.

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