Categoria: anticlericale

Torino 8 marzo. Se non posso ballare non è la mia rivoluzione!

Torino 8 marzo. Se non posso ballare non è la mia rivoluzione!

Un alito di primavera ha accompagnato un lungo 8 marzo di lotta all’ombra della Mole.
In piazza Castello sin dal mattino è un fiorire di matrioske, cartelli, colori e suoni. In testa lo striscione “Scioperiamo dal lavoro di cura. Lottiamo insieme!”
Lo sciopero femminista contro la violenza maschile sulle donne e le violenze di genere, si è articolato come diserzione dal lavoro retribuito fuori casa, ma anche dal lavoro dentro casa, dai lavori di cura, dai lavori domestici e dai ruoli di genere imposti.
La rinnovata sessualizzazione del lavoro di cura non pagato riduce la conflittualità sociale conseguente alla erosione del welfare.
La riaffermazione di logiche patriarcali offre un puntello al capitale nella guerra a chi lavora.
Lo sciopero femminista scardina questo puntello, rimettendo al centro le lotte delle donne per la propria autonomia.
La prima tappa è al centro della piazza. Lunghi fili vengono tirati tra i pali: con pinze da bucato sono stesi pannolini, grembiuli, strofinacci… Tutti oggetti simbolo del lavoro di cura.
Un camioncino prova senza successo a forzare il blocco, che si allarga sulla piazza. Un nucleo dell’antisommossa, schierato a pochi passi da una carrozzina con un neonat*, chiede a gran voce rinforzi. La digos si affanna al cellulare. Si parte in corteo verso via Po. Per l’intera mattinata si svolgono blocchi con slogan e comizi volanti ai principali incroci.
In corso Regina il corteo viene raggiunto dalle studentesse, che in mattinata avevano bloccato le lezioni al campus. La mattinata si conclude a Palazzo Nuovo, l’altra sede delle facoltà umanistiche.

Nel pomeriggio piazza XVIII dicembre, la piazza che ricorda i martiri della camera del lavoro, si riempie velocemente. Parrucche rosa, fucsia e viola sul nero degli abiti, tanti striscioni, tulle, cartelli. Il corteo si dipana per il centro. Saremo tremila, forse più.
La prima sosta è davanti alla caserma dei carabinieri Cernaia. Viene appeso uno striscione contro la violenza dei tribunali, in solidarietà alle donne stuprate, picchiate e offese che nelle aule di giustizia diventano imputate, chiamate a rispondere della propria vita, dei propri abiti, dei propri gusti, del proprio no alla violenza. Vengono lette alcune delle domande fatte in tribunale alle due studentesse statunitensi stuprate da due carabinieri la scorsa estate a Firenze. Domande di una violenza terribile.
In Italia viene ammazzata una donna ogni due giorni.
Spesso gli assassini usano le pistole d’ordinanza, che hanno il diritto di portare perché fanno parte dell’elite poliziesca e militare, che detiene per conto dello Stato il monopolio legale della violenza.
Gli spazi di autonomia che le donne si sono conquistate hanno incrinato e a volte spezzato le relazioni gerarchiche tra i sessi, rompendo l’ordine simbolico e materiale, che le voleva sottomesse ed ubbidienti. Il moltiplicarsi su scala mondiale dei femminicidi dimostra che la strada della libertà femminile è ancora molto lunga. Il crescere della marea femminista è la risposta ad una violenza che ha i caratteri espliciti di una guerra planetaria alla libertà delle donne, alla libertà dei generi, alla libertà dai generi.
Nelle aule dei tribunali la violenza maschile viene declinata come affare privato, personale, accidentale, nascondendone il carattere disciplinare, punitivo, politico.
Le lotte femministe ne fanno riemergere l’intrinseca politicità affinché divenga parte del discorso pubblico, in tutta la propria deflagrante potenza, mettendo in soffitta il paternalismo ipocrita delle quote rosa, delle pari opportunità, dei parcheggi riservati alle donne.
Tra i temi di questo 8 marzo di sciopero e lotta, la ferma volontà di rompere il silenzio e l’indifferenza, per sostenere un percorso di libertà, mutuo aiuto e autodifesa contro chi ci vorrebbe inchiodare nel ruolo di vittime.
Forte è il rifiuto che la difesa delle donne diventi l’alibi per politiche securitarie, che usino i nostri corpi per giustificare strette disciplinari sull’intera società.

“Nello stato fiducia non ne abbiamo, la difesa ce la autogestiamo!”
“Lo stupratore non è malato, è il figlio prediletto del patriarcato”
“Siamo la voce potente e feroce di tutte le donne che più non hanno voce!” Questi slogan riempiono la piazza, deflagrano per il corteo.

Tra i tanti interventi quello di una ragazza curda, che ricorda la lotta delle donne di Afrin contro l’invasione turca e il patriarcato. Una studentessa sviluppa una critica alla scuola, dove lo sguardo femminista è quasi sempre assente.

In piazza Castello su uno dei tanti monumenti militaristi della città, quello dedicato al duca d’Aosta, in braccio ad uno dei soldati raffigurati viene messa una scopa, uno strofinaccio, un pezzo di tulle rosa.
L’azione è accompagnata da un lungo intervento dal camion.
É il momento per parlare delle donne stuprate in guerra, prede e strumento del conflitto. In guerra la logica patriarcale sottesa a torture e stupri è meno dissimulata che in tempi di pace.
Dahira nel 1993 aveva 23 anni. Dahira già conosceva il sapore amaro dell’essere donna in una società patriarcale. Era stata ripudiata dal marito, perché non riusciva a dargli dei figli. Una cosa inutile, priva di valore. Ma per lei il peggio doveva ancora venire. In una notte di maggio di 25 anni fa venne spogliata, legata sul cassone di un camion con le braccia e le gambe immobilizzate e stuprata con un razzo illuminante. I torturatori e violentatori erano paracadutisti della Folgore, in missione umanitaria in Somalia. Con cruda ironia la missione Nato, cui l’Italia partecipò si chiamava “Restore hope – restituire la speranza”.
Gli stessi parà stanno per sbarcare in Niger per una nuova missione. Questa volta l’obiettivo sono i migranti in viaggio verso l’Europa.
Altri militari saranno in Libia, dove le milizie di Sabratha e Zawija, pagate dallo Stato italiano rinchiudono uomini, donne e bambini in prigioni per migranti, dove tutte le donne vengono stuprate. Gli esecutori sono in Libia, i mandanti sono sulle poltrone del governo italiano.

Il corteo imbocca via Po e si ferma davanti alla chiesa della SS Annunziata, legata a Comunione e Liberazione. Lì viene appeso uno striscione con la scritta “Preti ed obiettori tremate. Le streghe son tornate!” Prezzemolo e ferri da calza sono lasciati di fronte all’ingresso, per ricordare i tempi dell’aborto clandestino, quando le donne povere abortivano con decotti e ferri da calza, rischiando di morire.
La chiesa cattolica vorrebbe che le donne che decidono di non avere figli muoiano o vengano trattate da criminali. A quarant’anni dalla legge che ha depenalizzato l’aborto, ma lo ha sottoposto ad una rigida regolamentazione, in molte città italiane abortire è diventato impossibile, perché il 100% dei medici si dichiara obiettore.
Preti ed obiettori vorrebbero inchiodarci al ruolo di madri e mogli. Quest’8 marzo ci trova più agguerrite che mai nella lotta per una maternità libera e consapevole.

Nelle piazze torinesi si è affermato un femminismo capace di obiettivi radicali e pratiche libertarie, vincendo la scommessa non facile dello sciopero femminista, con la buriana elettorale appena dietro le spalle, nel netto rifiuto di essere usate come trampolino per carriere politiche tinte di fucsia.
In quest’8 marzo è emerso l’intreccio potente tra la dominazione patriarcale e la violenza dello Stato, del capitalismo, delle frontiere, delle religioni.
Di questi tempi non è poco. Un sasso nello stagno, che si allarga e moltiplica le pozze.

Il corteo vibra dello slogan urlato da tutte “Ma quale Stato, ma quale dio, sul mio corpo decido io!”

La marea dilaga in piazza Vittorio dove viene disegnata una matrioska gigante al cui interno vengono lasciate scope, detersivi, grembiuli e strofinacci.

Un grido potente riempie la piazza “Se non posso ballare non è la mia rivoluzione!”. Ed è festa.
m. m.

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Da Roma a Torino. Erdogan assassino!

Lunedì 5 febbraio. A Roma si è tenuto un presidio di protesta per la visita di Erdogan in Vaticano e al Quirinale. Al sit in hanno partecipato circa 500 manifestanti.
In città era stato predisposto un imponente dispositivo di sicurezza.
Il presidio si è svolto in largo Triboniano vicino Castel S.Angelo, a poche centinaia di metri da S.Pietro. I manifestanti, nonostante polizia a cavallo, finanza e sommozzatori sotto al fiume Tevere, hanno provato a muoversi in corteo fino alla basilica di S. Pietro. La polizia ha caricato, un attivista è stato portato in questura, altri tre sono stati feriti.
La polizia ha circondato i manifestanti, impedendo loro di lasciare la piazza sino a metà pomeriggio. Un sequestro di polizia, per prevenire altri tentativi di protesta.
Ramazan, l’uomo fermato durante la carica, è stato rilasciato con denuncia qualche ora più tardi.
Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Norma del Comitato di solidarietà.

Lunedì 5 febbraio. Il presidio indetto a Torino in occasione della visita di Erdogan al papa-re dello Stato Vaticano e ai capi di stato e di governo italiano si è trasformato in un corteo che è terminato di fronte alla sede Rai.
Il giorno precedente un gruppo di attivist* era entrato nella chiesa di via San Tommaso, chiedendo di leggere un comunicato. Al diniego del prete hanno srotolato uno striscione e letto il comunicato.
Alcuni partecipanti alla messa hanno aggredito i manifestanti.
La polizia, allertata dal prete, ha intercettato alcuni solidali a qualche centinaio di metri dalla chiesa e li ha trattenuti in questura sino al pomeriggio, quando sono stati rilasciati con l’accusa di “interruzione di cerimonia religiosa”.
Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Paolo – Pachino – Andolina, ex combattente dell’Antifa Tabur

Da oltre 10 giorni il potentissimo esercito turco bombarda il cantone di Afrin in Siria. L’operazione “Ramoscello d’ulivo” mira a distruggere la rivoluzione libertaria e femminista della Siria del nord, dove si sperimenta il confederalismo democratico.
Gli uomini e le donne di questa rivoluzione hanno sconfitto l’Isis, protetta e sponsorizzata dagli islamisti turchi di Recep Erdogan.
L’Europa, l’Italia in prima fila, ha pagato la Turchia perché fermasse i profughi siriani.
Gli interessi italiani in Turchia sono enormi. Nel pomeriggio del 5 febbraio, dopo le visite a Bergoglio, Gentiloni e Mattarella, Erdogan ha incontrato gli AD delle maggiori industrie italiane.
Il bagno di sangue ad Afrin è merito anche di armi made in Italy.
I governi europei, la Russia e gli Stati Uniti, dopo aver usato le milizie del Rojava per sconfiggere l’Isis, ora appoggiano o giustificano l’attacco al confederalismo democratico in Rojava.
Il governo turco ha massacrato i resistenti delle città insorte nelle aree curdofone, ha raso al suolo città e quartieri, obbligando la popolazione a prendere la via dell’esilio, allargando la grande diaspora curda.
Migliaia di oppositori politici sono in galera, migliaia di insegnanti e dipendenti pubblici hanno perso il posto. Decine di giornali sono stati chiusi e i giornalisti arrestati.
La Turchia è una dittatura democratica e confessionale che bussa alle porte dell’Europa, mentre massacra la gente di Afrin.

Ascolta l’approfondimento dell’info di radio Blackout con Stefano Capello sugli interessi che legano l’Italia alla Turchia. Interessi al centro dell’incontro tra la delegazione turca e i rappresentanti delle maggiori imprese italiane, non ultime quelle armiere, che riforniscono di elicotteri e aerei da guerra l’aviazione di Erdogan, impiegati contro la popolazione della Siria del nord.

Prossimo appuntamento a Torino:

Domenica 11 febbraio
corteo defendAfrin a Torino
ore 14 piazza Carlo Felice – Porta Nuova

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Milano. Per la libertà dei prigionieri politici in Turchia

Se ne parla poco. Pochissimo. La Turchia si è trasformata in una dittatura democratica ma in Italia il silenzio è di tomba. La Turchia, ben pagata per il lavoro sporco, impedisce il passaggio di migranti e profughi di guerra in Europa.
Un servizio prezioso per tutti i governi europei, che sul controllo delle frontiere giocano le proprie fortune elettorali.
Solo pochi organi di stampa e la rete testimoniano la durissima repressione, le carcerazioni di massa, le torture contro gli oppositori politici nel regno di Erdogan.

Le città e i quartieri rasi al suolo dai bombardamenti dell’esercito turco durante l’insurrezione di due anni fa, sono ora in mano ai cementificatori, che ricostruiscono le case per nuovi abitanti, mentre quelli vecchi vengono spinti ad emigrare, ad ingrossare le fila della grande diaspora curda.

Il corteo, che ha attraversato il centro cittadino lo scorso sabato è stato un tentativo di stracciare la coltre di silenzio che avvolge la durissima repressione in Turchia.

Convocato dall’Ufficio informazioni sul Kurdistan in Italia e dalla rete Kurdistan è stato caratterizzato da una forte partecipazione della comunità curda milanese e di varie altre città.

Meno significativa la partecipazione dei movimenti di opposizione sociale, che sin dall’assedio di Kobane avevano fornito appoggio materiale e politico alla rivoluzione democratica e confederale in Rojava. La scelta delle organizzazioni curde di spostare l’asse delle loro alleanze sulla sinistra istituzionale, complice delle politiche di sostegno al governo turco, ha fatto sì che sia le adesioni formali sia la partecipazione diretta fossero inferiori a quelle degli anni precedenti.

Evidentemente la durezza del momento ha indotto la leadeship curda nel nostro paese ad una realpolitik che paga poco in piazza.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Massimo, un compagno milanese, tra quelli che, pur non aderendo al corteo, vi ha preso parte in sostegno alla lotta per la liberazione dei prigionieri politici in Turchia.

http://radioblackout.org/2017/10/milano-per-la-liberta-dei-prigionieri-politici-in-turchia/

Di seguito il volantino distribuito in piazza dai compagni della Federazione Anarchica di Milano.

NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO che l’esordio della dittatura a viso aperto in Turchia fu l’elezione di un guappo del Fondo Monetario Internazionale – Recep Tayyip Erdoğan – che promise e realizzò riforme lacrime e sangue, cancellando con un colpo di spugna i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, per accontentare la finanza internazionale, nel nome dell’Austerity.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO che la protesta popolare e spontanea aggregatasi nel 2013 in piazza Taksim e presso Gezi Park fu stroncata dalla più feroce e brutale repressione, annegata nel sangue del compagno quindicenne Berkin Elvan e nelle migliaia di anni di prigione comminati a quanti avevano osato alzare la testa davanti al tiranno, bollati da giudici e giornali di regime – in perfetta aderenza col linguaggio politichese giuridico ormai di moda anche in Italia – come terroristi.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO la pronta adesione di Erdogan al programma d’espansione dell’imperialismo saudita, spalleggiato dagli USA e dall’Unione Europea con consistenti invii di armi, molte delle quali prodotte in Italia, con grande soddisfazione dell’imprenditoria della morte nostrana.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO il sostegno di Erdogan al Daesh, lo Stato islamico, la punta di diamante della penetrazione saudita in Iraq e Siria. Non abbiamo dimenticato le lunghe colonne di camion cisterna che dalla Siria e dall’Iraq portavano in Turchia il petrolio venduto dalle milizie del terrore al loro protettore di Istanbul; il petrolio sporco del sangue di decine di migliaia di donne Ezide assassinate, vendute come schiave, stuprate e torturate dai miliziani di Daesh; il petrolio che passando per la Turchia e per Israele veniva ricettato da “eroi del nostro tempo” (o imprenditori, se preferite) italiani ed europei.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO che nella corsa all’islamizzazione in salsa capitalistica del suo disgraziato paese, Erdogan non rinunciò a strumentalizzare gli attentati di Cizre, di Ankara e di Suruç, costati la vita a decine di compagni (e tra questi i libertari Alper Sapan e Evrim Deniz Erol), per appiattire qualunque opposizione nella comoda definizione di ‘terrorismo’. Non abbiamo dimenticato i giornali soppressi, i militanti arrestati, la libertà di pensiero azzerata.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO la cieca violenza dei bombardamenti turchi del 2015 e del 2016 su Cizre, Nusaybin, Mardin, Amed; non abbiamo dimenticato i civili assediati, i bambini affamati, uomini e donne massacrati dai cannoni e dai cecchini, colpevoli di avere osato ribellarsi al tiranno proclamando la propria autonomia nel nome del Confederalismo democratico e di un modo autenticamente rivoluzionario di pensare il governo: esercitato dal basso da tutte e tutti coloro che vivono il territorio e nel territorio.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO che le città Kurde distrutte furono oggetto, poco dopo la fine della repressione, di una lucrosa speculazione edilizia, una vera e propria pulizia etnica che cacciava la componente Kurda dal territorio e garantiva ingenti profitti al dittatore ed ai suoi amici imprenditori.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO che tutto ciò avvenne e tuttora avviene col consenso, vergognoso quanto incondizionato, dell’Unione Europea e dei governi d’Europa, incluso quello italiano, timorosi dell’arrivo in Europa dei profughi in fuga dalla guerra suscitata in Siria dall’appetito degli imperialismi e del capitalismo internazionale. NO! NON ABBIAMO DIMENTICATO i miliardi di euro versati dalla UE nelle casse di Ankara per compiacere la gretta xenofobia europea e finanziare orridi campi di concentramento al confine turco-siriano, dove le famiglie profughe sono imprigionate in condizioni disumane, gli uomini sfruttati quale manodopera a basso costo, i bambini prostituiti. Una degna pietra di paragone per i lager oggi aperti anche in Libia grazie all’infame accordo del governo italiano con i ‘colleghi’ di Tripoli.
Ci limiteremo a piangere le vittime degli attentati, o comprenderemo finalmente che è la nostra stessa apatia a consentire a governi e Capitale di promuovere e finanziare guerre sanguinose per procura nel nome del profitto? Guerre iniziate dai ricchi e per i ricchi, dai potenti per i potenti, ma nelle quali moriranno sempre e solo poveri, di qualunque colore, lingua o religione.
Noi crediamo e affermiamo che il silenzio è il più viscido complice dell’oppressore. Noi crediamo e affermiamo che l’individuo ha dei diritti sino a che è in grado di difenderli, non solo per sé e non solo dove vive, ma per chiunque e in ogni parte del mondo. Noi crediamo e affermiamo che l’unica forza capace di tutelare la dignità di ogni essere umano è quella che proviene dall’unità delle sfruttate e degli sfruttati, delle oppresse e degli oppressi, emancipati da ogni servitù e liberi di autogovernarsi secondo i principi dell’uguaglianza e della solidarietà libertaria. Per questo il 7 ottobre intendiamo portare in piazza la nostra solidarietà internazionalista ai Compagni detenuti nelle carceri turche e a tutti i gruppi che oggi proseguono in Turchia e in Siria la Lotta per la liberazione di genere, la Lotta armata contro l’islamo-fascismo, la Lotta per una società laica e pluralista, la Lotta anti-razzista e anti-nazionalista, la Lotta di classe contro il Capitale, percorsi irrinunciabili e non negoziabili verso l’Avvenire Libertario.

Viva la Rivoluzione Sociale! Viva l’Anarchia!

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8 marzo a Torino. Ma quale stato ma quale dio, sul mio corpo decido io!

La marea femminista che ha attraversato il pianeta l’8 marzo ha bloccato il centro di Torino per l’intera giornata.
L’appuntamento del mattino era alle 10 nei pressi del Cine Massimo. In programma contestazioni e blocchi. Tanti gli slogan, tantissimo l’entusiasmo e la voglia di rendere visibili le ragioni di un otto marzo che spezza la ritualità di una festa, dove si vive come ogni giorno, con qualche spesa in più dal fioraio.
In centinaia siamo partit* in corteo, guadagnando via Po in direzione di una delle farmacie che rifiutano di vendere la pillola del giorno dopo. Lunga sosta di fronte alla farmacia, affissione di manifesti e slogan, poi il corteo selvaggio riparte, attuando numerosi lunghi blocchi, che in breve paralizzano la piazza più grande della città. Ma è solo l’inizio.
La Rete Non Una di Meno di Torino decide di accogliere l’invito della sindaca Appendino, che aveva annunciato musei gratis per le donne l’8 marzo. Incomprensibilmente di fronte all’ingresso del prestigioso museo del Cinema alla Mole Antonelliana, le femministe che vogliono entrare in segno di solidarietà con le lavoratrici della Rear, si trovano di fronte la celere schierata. Dopo uno spintonamento con i gentiluomini e gentildonne dell’antisommossa, le porte del museo vengono blindate. Volano calci sull’ingresso chiuso. Evidentemente le donne in nero e fucsia che lottano a fianco delle lavoratrici e dei lavoratori in lotta nei musei cittadini non sono gradite. Appendino preferisce le ragazze supersfruttate che lavorano con la mimosa del fidanzato infilata all’occhiello, le donne delle pulizie, cuoche, baby sitter, stiratrici che lavorano nelle case senza paga, mentre la loro mimosa già appassisce nel vasetto a centro tavola. È la faccia oscura della nuova Torino Smart, superconnessa, trendy, tra movida e grandi eventi, dove precarietà, lavori gratuiti, discriminazioni condite da molestie sono “normali”
Una “normalità” che la piazza torinese dell’8 marzo, una piazza di persone in sciopero, ha cercato di spezzare. La lotta alla violenza contro le donne si articolata intersecando i piani, assumendo il punto vista di chi lotta per la libertà del genere, dal genere con uno sguardo attento alle cesure di classe, di razza, di dominio.

Dopo il parapiglia al Museo del cinema il corteo si è diretto in corso Regina, raggiungendo le universitarie uscite dal Campus Einaudi. Insieme si sono fatti due lunghi blocchi in uno dei principali corsi cittadini.

Dai posti di lavoro arrivavano notizie di scuole chiuse e di quasi quattromila dipendenti pubblici in sciopero, all’ospedale Mauriziano ha chiuso per sciopero l’ufficio prenotazioni.

Nel pomeriggio, in piazza XVIII dicembre, un luogo simbolo delle lotte dei lavoratori anarchici e socialisti, per la lapide che ricorda i martiri della Camera del Lavoro, è subito chiaro che la giornata sarà di quelle da ricordare. A Torino, l’appuntamento è alle 16, perché è giorno di sciopero generale, perché chi la folla vuole inceppare la macchina, vuole dimostrare la propria forza. Uno sciopero politico, uno sciopero che mette in discussione l’ordine. Morale, economico, patriarcale,

Migliaia di persone si incontrano nella piazza dove, musica e canzoni autoprodotte si alternano agli interventi, alle parole che raccontano le vite irrappresentate di tante, che oggi si autorappresentano. Tanti cartelli, pochi striscioni, nessuna bandiera, grande radicalità, espressa in slogan e interventi. Non è una classica piazza di movimento, ma una piazza che si muove intorno a obiettivi e pratiche con una spiccata tensione anticapitalista, antirazzista, antigerarchica, anticlericale.
“Ma quale stato ma quale dio, sul mio corpo decido io!”
“Nello stato fiducia non ne abbiamo, la difesa ce la autogestiamo!”
“Lo stupratore non è malato, è il figlio prediletto del patriarcato”
“Lotta dura contro natura”
“Ma quali leggi? Ma quale protezione? Contro la violenza ci vuole ribellione!!
E si canta “si parte, si torna, insieme, siam tutte puttane, il corpo mi appartiene, il prete e l’obiettore dovran tremare se arrivan le mignotte. Son botte, son botte!”

L’impegno e la forza delle componenti anti istituzionali e rivoluzionarie nella costruzione della giornata è emerso in modo chiaro, segno che esistono enormi spazi di crescita, non facilmente riassorbibili da chi, come la cgil, ha provato ad assumersi la maternità di una marea incontrollabile.

Il corteo sfila per ore attraversando il centro cittadino ed approda in piazza Gran Madre di Dio, nel luogo dove i cattolici hanno costruito una chiesa sulle fondamenta del tempio di Iside. Qui venivano eretti i roghi delle streghe. In un batter d’occhio la piazza cambia nome, diventa “Piazza Donne Libere arse dalla chiesa”.
Poi un grande cerchio. Domani è ancora “l’otto marzo”.

Los Ratos
(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Umanità Nova)

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Pride di Istanbul: cariche, gas e cannoni ad acqua

La polizia turca ha caricato violentemente il corteo del Gay Pride.

Gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma contro i manifestanti del Gay Pride ad Istanbul. La marcia, in programma per le 17 di sabato 28 febbraio, non ha fatto in tempo ad iniziare. La polizia in assetto antisommossa ha immediatamente bloccato le entrate di Istiklal, via icona della Istanbul turistica, aggredendo i manifestati dalle vie laterali. Le persone si sono rifugiate dentro negozi e bar, cercando di sfuggire alla repressione della polizia. Diverse ambulanze hanno portato via alcuni feriti. Quella di sabato doveva essere la tredicesima edizione della marcia dell’orgoglio Lgbtq in Turchia.
I manifestanti si erano dati appuntamento in piazza Taksim, storico luogo delle manifestazioni vietate e duramente represse in occasione del Primo Maggio e teatro dell’opposizione popolare al governo Erdogan ai tempi di Gezi Park. L’attacco poliziesco è stato giustificato con pretesti risibili, come la presenza nel corteo di “terroristi”, dai quali occorreva difendere i manifestanti a suon di gas e manganellate.

La Turchia non è un paese ufficialmente omofobo: non ci sono leggi che perseguitino le persone che eccedono la norma etrosessuale. Tuttavia la Turchia è al primo posto in Europa per attacchi anche mortali contro persone glibtq. Da quando al governo c’é il partito di Erdogan situazione è ulteriormente peggiorata.

La prima edizione del Pride è stata nel 2003: quell’anno la partecipazione fu molto bassa, ma pian piano il numero dei partecipanti è aumentato: nel 2011 10.000 persone hanno aderito all’iniziativa. Dopo Gezi Park, dove la presenza di attivisti lgbtq fu molto ampia, al Pride del 2013 partecipano 100.000 persone.

La festa si trasforma in guerriglia: molti manifestanti si rifugiano nei bar e nelle terrazze, da dove provocano la polizia gridando “scappa, scappa Erdogan, arrivano i gay!” oppure “basta, ne abbiamo abbastanza!” ma anche “noi siamo gay, noi esistiamo!” per finire con “Tutti insieme contro il fascismo!”

Gli attacchi contro il Gay Pride vanno messi nel conto di un governo che ha perso la maggioranza assoluta in parlamento dopo le ultime elezioni e si trova a dover dimostrare in primo luogo a se stesso di avere ancora in mano il bastone del comando.

Non solo.

La repressione di un corteo GLBTQ in pieno Ramadan è anche un messaggio rassicurante per l’elettorato islamista dell’AKP, la dimostrazione che il partito intende continuare a colpire duramente gli oppositori al progetto di una Turchia tradizionalista ed autoritaria.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Murat Cinar, giornalista indipendente e attento osservatore delle dinamiche che attraversano la società turca.

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Pride. A Torino e a Palermo

Oggi a Torino, Milano, Palermo c’é stato il Pride.
Vi proponiamo due testi, uno diffuso al Pride di Torino, l’altro a quello di Palermo.

Spazi privati, spazi di regime
Il Pride 2015 vogliamo godercelo, con i suoi colori, la sua allegria, la voglia di mostrare l’orgoglio Lgbqti e difendere, più in generale, i diritti di tutte e tutti.
Ce lo vogliamo godere nel modo che ci riesce meglio, e cioè riflettendo sugli spunti politici di questo appuntamento e sul contesto in cui si svolge.
Ribadiamo la nostra solidarietà a Vincenzo Rao​, condannato da un tribunale perché ha osato criticare le posizioni conservatrici e maschiliste di un magistrato. La sua vicenda conferma l’irriducibile incompatibilità tra libertà e potere: il recinto in cui vengono confinati i diritti – compreso quello di espressione – resta sempre un recinto, anche se ammantato di democrazia.
Adesso il recinto della legalità si fa sempre più stretto e violento. Ai problemi di sempre si aggiunge l’ipocrisia di chi governa Palermo per renderla «normale». Retate poliziesche nei quartieri popolari; ordinanze contro gli ambulanti (per lo più immigrati) per tutelare il presunto decoro del salotto buono della città; distruzione del verde pubblico; privatizzazione degli spazi e assalto della borghesia al centro storico.
Il sindaco Orlando stringe volentieri la mano ai curdi che lottano per la libertà, agli omosessuali che lottano per i diritti, ai palestinesi che lottano per la sopravvivenza; parla di spazi pubblici e spazi di rivolta; sostiene persino l’abolizione delle frontiere e del permesso di soggiorno sventolando la “Carta di Palermo”.
Nel frattempo, però, fa la guerra ai poveri e ai migranti, mantenendo inalterati gli equilibri (fondati sulla disuguaglianza) che da sempre reggono le sorti di questa città.
Il sindaco Orlando ama ripetere che Palermo è sempre stata una città multiculturale dove ognuno è una tessera di un mosaico.
Vero – aggiungiamo noi: purché ognuno resti al suo posto.
Libert’Aria

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Fuori i preti dalle mutande!

Per due mesi e mezzo Torino è stata ostaggio della chiesa cattolica. La città è stata militarizzata, i giardini reali e piazza Castello sono stati requisiti per i pellegrini. La kermesse clericale è stata occasione per infittire i dispositivi disciplinari, mettendo sotto sorveglianza un’intera città.
Sebbene le favole delle religioni prestino il fianco alla satira ed al guizzo salace, purtroppo la chiesa cattolica non fa affatto ridere.
Tutti i governi degli ultimi 20 anni si sono inginocchiati al soglio di Pietro, ed hanno garantito il finanziamento della chiesa cattolica con l’otto per mille, il pagamento degli stipendi degli insegnanti di religione cattolica nelle scuole di ogni ordine e grado, soldi per ospedali e scuole confessionali, sostegno all’edilizia vaticana.
La pervasività della chiesa nelle vite delle persone va ben al dì là delle pecore felici con il loro pastore, per investire, tramite tante leggi dello Stato, la vita di tutti.
La straordinaria plasticità culturale che ha consentito ad una monarchia assoluta di attraversare duemila anni di potere e più di duecento anni di secolarizzazione, oggi è mirabilmente rappresentata dal gesuita venuto dall’Argentina a dare una ripulita all’immagine della chiesa, offuscata da infinite vicende di pedofilia, per non dire degli arresti eccellenti di alti prelati con le mani in pasta nelle stanze della finanza vaticana.
Dopo le dimissioni di Ratzinger, Bergoglio era l’uomo giusto nel momento giusto.
Occorreva un cambiamento di stile, per garantire che tutto potesse filare come sempre.
Bergoglio l’ha detto in modo chiaro che la costruzione del gender, la culturalità dei generi, l’attraversamento di identità sessuali, per non dire del radicalismo queer sono scelte ed approcci in contrasto con la dottrina. Ha tuttavia compreso che indicare la via della redenzione attraverso il perdono, poteva essere un buon modo per sedurre e riportare nel recinto le pecore nere e smarrite.
La chiesa di Francesco è misogina, omofobica e transfobica come quella di Benedetto XVI, ma nasconde la spada sotto la tonaca.
Una spada affilatissima nel cercare di spezzare la schiena a chi sceglie la libertà. Libertà come scommessa per ognuno e per l’intera società.
Chi crede che la chiesa di Francesco e quella delle sentinelle in piedi o del Family day siano diverse cade in in pericoloso errore prospettico. La Chiesa si adatta alle latitudini ed ai governi per restare in sella ed imporre la sottomissione a dio.
Bergoglio si è fatto le ossa negli anni della dittatura di Videla, quando era capo dei gesuiti argentini. Il suo ruolo è a dir poco ambiguo in una chiesa pesantemente collusa con i militari, che hanno torturato ed ucciso, facendone sparire i cadaveri, oltre trentamila uomini e donne, colpevoli di lottare per la libertà e la giustizia sociale.
Bergoglio chiede perdono per i roghi e le torture inflitte ai Valdesi ma si guarda bene dal chiedere perdono per il sostegno della chiesa cattolica ai criminali in divisa argentini.
Chi sa? Domani chiederà perdono per i roghi degli omosessuali Ma quale sarà il prezzo? Castità e senso di colpa?
Bergoglio è il cavallo di Troia che la chiesa cattolica usa per espugnare e devastare quel che resta della cultura laica e per chiudere i conti con chi aspira a relazioni sociali tra liberi ed eguali. Lo ha detto in modo chiaro: per evitare il conflitto sociale servono ammortizzatori.
Un tempo sulle ceneri degli omosessuali arsi vivi venivano sparsi odorosi semi di finocchio.
Semi che sono germinati in quella cenere ed oggi lanciano la propria sfida in ogni angolo del pianeta.
Sarebbe tuttavia un vero “peccato” che la norma eterosessuale finisse con l’imporre il proprio modello anche tra chi ha sviluppato una critica e una pratica radicale, dove l’identità diviene percorso e scommessa per tutti e per tutte. Fuori da ogni norma, fuori da ogni imposizione.
Non ci servono famiglie e lacci coniugali, né in chiesa né in comune.Liberiamoci dallo Stato e dalla Chiesa!
Federazione Anarchica Torinese

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Crist Parade!

Lo Spirito Santo è calato su Torino il 21 giugno. Vagina gigante e super fallo rosa per “l’amore più glande” sul carro di apertura della Crist Parade, la manifestazione dei senzadio che dal castello del Valentino ha attraversato le vie di San Salvario. Da alcuni balconi campeggiavano lenzuoli con sindoni multicolor.

Non potevano mancare famiglie de-generi e vescovi in parata, la drag Chiara-oche e la Clown Army che ha tallonato carabinieri e digos e ha mettendo in atto una critica divertente e corrosiva del militarismo.
All’arrivo in piazza Madama performance applauditissima di Chiara-oche, asta delle reliquie, caccia al tesoro blasfema e dj set.

Nel giorno dell’invasione clericale della città, offerta a Jorge Bergoglio come palcoscenico per una performance nazional-popolare, tanti anticlericali hanno portato in piazza le ragioni di chi non si inginocchia, di chi pensa che ciascuno debba costruire la propria identità individuale, al di là e contro le imposizioni delle religioni sui ruoli imposti da dio a uomini e donne. Il dato biologico non è un destino ma una possibilità che si può interpretare in molti modi. A ciascun* il proprio.

Molti, anche nell’impalpabile “sinistra laica”, sono entusiasti dello stile popolare, familiare, affabile di Bergoglio, molto diverso dalla rigidezza teologica di Joseph Ratzinger, del suo predecessore.

L’uomo giusto al momento giusto, il gesuita che indossa i panni di Francesco, è un buon esempio della grande plasticità culturale della chiesa cattolica, un’istituzione che dura, perché sa cogliere a tempo l’aria che tira, rimanendo se stessa pur nel mutare della sua attitudine narrativa.

Una chiesa più accogliente, sebbene chiusa nella pretesa di normare le vite di tutti, compresi quelli che non vi appartengono, serviva a contrastare l’assalto delle chiese evangeliche in America Latina ed Africa, per superare la normale anomalia dei preti pedofili, per alleggerire l’impatto dell’allegra finanza vaticana dello IOR, che ha fatto dello Stato dei preti un impenetrabile paradiso fiscale.

I consensi della chiesa cattolica sono in calo, anche in paesi dove è insediata da molti secoli: le dichiarazioni ecologiste, e di giustizia sociale sono un abile mossa per riprendere quota dove l’ha persa. Rischia un calo di popolarità a destra, ma deve recuperare consensi tra i tanti cattolici, che vivono la loro vita senza troppa attenzione ai diktat papali.

La destra più retriva, quella che ha riempito Roma il 20 giugno per il family day, non apprezza troppo l’attitudine caritatevole di Bergoglio verso chi ha una pratica sessuale non conforme ai dettami della chiesa e mostra i muscoli, ma non ha reale motivo di preoccuparsi, perché proprio a Torino Bergoglio ha fatto l’elogio della castità e stretto la mano a Marchionne.
Bergoglio è abile nel cogliere che lo stile è tutto, che maggiore apertura nei modi è la miglior chiave per tutte le porte.
Occorreva che in Vaticano tutto cambiasse perché tutto potesse ancora essere come prima.

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Sotto il lenzuolo niente

Non ci possono essere dubbi. Dio si è certamente adirato per l’iniziativa “Preliminari per l’ostensione” promossa dalla Rete NoSindone in occasione della nuova esposizione pubblica del lino conservato nel Duomo di Torino. Dio non ce la poteva fare da solo ed ha chiamato in soccorso Zeus, che ha preparato per la serata del 18 aprile fulmini, saette, pioggia torrenziale e, con l’aiuto di Eolo, anche un bel vento ghiacciato che ha spezzato per qualche ora una calda primavera.

Gli sforzi dei tre sono serviti a poco. Gli anticlericali della Rete No Sindone hanno guadagnato i portici all’angolo tra via Roma e piazza Castello e hanno piazzato banchetti, striscioni, cibarie e sindoni e, tra prefiche, cristi imparruccati, sindoni, frati e drag queen hanno dato il via ad una serata irridente e beffarda.

Piazza Castello – surreale tra plasticoni dei gazebo per i pellegrini, giardini ir-reali inaccessibili, alpini con il mitra e poliziotti dell’antisommossa – era attraversata da plotoni di Digos armati di macchine fotografiche, che scattavano freneticamente. Il momento clou è stata l’apparizione di Saturnia Galattica, bionda drag in tacconi e fantascientifiche tette argento.

Poi è partita la rassegna video, tra film autoprodotti e d’autore, tra Bunuel, Torino Ribelle e Badhole.

Questo è solo il primo degli appuntamenti di questa primavera anticlericale che culminerà il 21 giugno con una street che attraverserà Torino in occasione della visita di Jorge Bergoglio.

Qui potete leggere l’appello della Rete NoSindone, sotto il lenzuolo niente.

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Sotto la sindone… Preliminari per l’ostensione

papanero_bicolorDal 19 aprile c’è una nuova ostensione della Sindone a Torino. La kermesse clericale all’ombra della Mole culminerà il 21 giugno con la visita di Jorge Bergoglio.

Il lenzuolo custodito nel Duomo verrà esposto al pubblico: poco importa che sia un buon manufatto di qualche tessitura medievale, il miracolo, sostengono i preti, è la fede. In fondo costa meno degli psicofarmaci anche se è altrettanto dannosa. A seconda dei tempi e delle latitudini fa l’effetto dell’oppio, sopendo il desiderio di rivolta, oppure quello della cocaina, spronando alla guerra.

La città è stata militarizzata, i giardini reali e parte di piazza Castello sono stati requisiti per i pellegrini. Poliziotti e carabinieri hanno moltiplicato i posti di blocco, rinforzando la stretta poliziesca. Ogni grande evento è occasione per infittire i dispositivi disciplinari, mettendo sotto sorveglianza un’intera città.

In questa primavera la rete di controllo si estende da Torino a Milano.

A Milano l’Expo mette in scena l’Italia ai tempi di Renzi, tra cantieri miliardari e morti di lavoro, agro business e green economy, lavoro gratuito e servitù volontaria, sfratti e polizia, gentrification e colate di cemento.

Tra un panino trans-genico e un lenzuolo taroccato, buongustai e pellegrini potranno nutrire il corpo e l’anima con una sola gita tutto compreso. Peccato che le esposizioni universali dei preti, come quelle dei padroni, le pagano tutti, anche chi preferisce altri giochi sotto il lenzuolo.

Bergoglio benedirà i contadini che nutrono la terra, cui ogni giorno il mondo di Expo ruba il futuro, offrendo un ombrello a chi non regge i ritmi di produci-consuma-crepa ormai trionfanti in un paese, dove ogni tutela è stata bruciata sull’altare del nuovismo.

Renzi e Bergoglio sono complementari, l’uno è il puntello dell’altro. L’immagine di un uomo torturato ed ucciso, sebbene falsa, esprime la verità della condizione di tanti troppi uomini e donne cui la religione vuole imporre una morale di dolore e sopportazione.

La Rete NoSindone, che cinque anni fa diede vita a numerose iniziative in occasione dell’ultima esposizione del lenzuolo e della visita di Ratzinger, si prepara a scendere in pista con la propria critica irridente e corrosiva.

Sebbene le favole delle religioni prestino il fianco alla satira ed al guizzo salace, purtroppo la chiesa cattolica non fa affatto ridere. La pervasività della chiesa nelle vite delle persone va ben al dì là di chi volontariamente si riconosce nella metafora servile della pecora e del suo pastore, per investire, tramite tante leggi dello Stato, la vita di tutti.

La straordinaria plasticità culturale che ha consentito ad una monarchia assoluta di attraversare duemila anni di potere e più di duecento anni di secolarizzazione, oggi è mirabilmente rappresentata dal gesuita venuto dall’Argentina a dare una ripulita all’immagine della chiesa, offuscata da infinite vicende di pedofilia, per non dire degli arresti eccellenti di alti prelati con le mani in pasta nelle stanze della finanza vaticana.

La successione tra Ratzinger e Bergoglio si è imposta quando il teologo tedesco, implacabile fustigatore della teologia della liberazione, inflessibile restauratore della morale cattolica nelle sue punte più aguzze, non si è sentito più in grado di fronteggiare il proprio potente segretario di Stato, Tarcisio Bertone, l’uomo che più di ogni altro si era battuto per mantenere lo IOR, la banca vaticana, nella nube di ovattato silenzio e mistero in cui ha sempre prosperato.

Bergoglio era l’uomo giusto nel momento giusto.

Occorreva un cambiamento di stile, per garantire che tutto potesse filare come sempre.

Bergoglio l’ha detto in modo chiaro che la costruzione del gender, la culturalità dei generi, l’attraversamento di identità sessuali, per non dire del radicalismo queer sono scelte ed approcci in contrasto con la dottrina. Ha tuttavia compreso che indicare la via della redenzione attraverso il perdono, poteva essere un buon modo per sedurre e riportare nel recinto le pecore nere e smarrite.

La chiesa di Francesco è misogina, omofobica e trans fobica come quella di Benedetto XVI, ma nasconde la spada sotto la tonaca.

Bergoglio si fa le ossa negli anni della dittatura di Videla, quando è capo dei gesuiti argentini. Il suo ruolo è a dir poco ambiguo in una chiesa pesantemente collusa con i militari, che hanno torturato ed ucciso, facendone sparire i cadaveri, oltre trentamila uomini e donne, colpevoli di lottare contro la dittatura.

Uno tra tutti, il nunzio apostolico Pio Laghi, consigliava ai torturatori di dare l’estrema unzione alle loro vittime.

Bergoglio sceglie di chiamarsi Francesco, imponendo da subito un’immagine opposta a quella di Joseph Ratzinger, un’attitudine più caritatevole verso chi non rispetta la morale cattolica. Nessuna reale modifica dottrinaria ma uno stile più affabile decretano la fortuna mediatica del nuovo papa. Per Francesco, Francy 2.0, resta valida la celebre massima di Tomasi da Lampedusa “Occorre che tutto cambi, perché tutto resti come prima”. Una formula che vale anche per i governi che si succedono in Italia dopo la diaspora democristiana, dopo la fine del partito dei cattolici e un’epoca che vede cattolici in tutti gli schieramenti, pronti a garantire il finanziamento della chiesa cattolica con l’otto per mille, il pagamento degli stipendi degli insegnanti di religione cattolica nelle scuole di ogni ordine e grado, soldi pubblici per ospedali e scuole confessionali, sostegno all’edilizia vaticana.

La Rete NoSindone sarà nelle piazze e nelle strade di Torino per esserci ed essere come vogliamo, uscendo dal cono d’ombra di un lenzuolo che si stende come sudario di morte sulla libertà di ciascuno di noi.

rete NoSindone – sotto il lenzuolo niente

ascolta la diretta di radio Blackout con Maurizio del circolo CLBTQ “Maurice” ed esponente della rete NoSindone, che presenta la campagna e la prima iniziativa in calendario per sabato 18 aprile “Sotto la sindone… Preliminari per l’ostensione”

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Charlie[3].Il nemico del nostro nemico è nostro amico?

La strage nella redazione di Charlie Hebdo ha suscitato un ampio confronto che continua e si estende viralmente tra la rete, i giornali, i bar.
Vi proponiamo un pezzo di Cosimo Scarinzi. Qui potete ascoltare l’intervista realizzata dall’info di Blackout.

In un famoso romanzo di Graham Greene, Il nostro agente all’Avana, ambientato nella Cuba precastrista alla fine degli anni ’50, in un colloquio fra il Capitano Segura, capo della polizia politica del dittatore Batista e Mr Wormold, il personaggio principale, lo stesso Segura afferma:
“Una delle ragioni per cui l’Occidente odia i grandi Stati comunisti sta nel fatto che essi non riconoscono le distinzioni di classe. A volte torturano persone che non dovrebbero essere torturate.
Altrettanto fece Hitler, naturalmente, e scandalizzò il mondo. Nessuno si preoccupa di ciò che accade nelle nostre carceri, o nelle carceri di Lisbona o di Caracas, ma Hitler era troppo promiscuo. Era un poco come se, nel suo Paese, un autista avesse dormito con una nobildonna.»
«Cose del genere non ci scandalizzano più»
«Corrono tutti gravi pericoli quando mutano le cose che scandalizzano»”
A mio avviso la distinzione fra “torturabili” e “non torturabili” proposta da Segura può essere tranquillamente estesa a quella fra assassinabili e non assassinabili.
Mentre stendo queste note i media continuano a discutere, analizzare, enfatizzare i fatti di Parigi.
Credo si debba fare uno sforzo per lasciare da parte la repulsione per una strage non perché non meriti repulsione ma perché l’assassinio di innocenti, realizzato in forme diverse, non è l’eccezione ma la regola nell’universo nel quale viviamo e non è accettabile che vi siano crimini che meritano la condanna e crimini che si possono tacere.
Alle porte stesse dell’Occidente laico, democratico, civile ogni giorno muoiono migranti costretti, per entrare in Europa, ad affrontare situazioni di gravissimo rischio, ogni giorno le guerre che si svolgono nelle periferie del mondo, guerre alle quali le grandi democrazie occidentali non sono certe estranee, producono, direttamente ed indirettamente, la morte, ferite e mutilazioni, malattie, sofferenze per migliaia di persone.

Con la strage di Parigi la guerra, quella guerra che, quando si svolge in Africa o nel Vicino Oriente, non impressiona più che tanto le popolazioni dell’occidente sviluppato, viene portata, con la strage dei giornalisti di Charlie Hebdo, sul territorio metropolitano, cosa peraltro già avvenuta negli USA, come l’attacco alle due torri, in Gran Bretagna, in Spagna ecc..,
Leggo, a questo proposito, diverse raffinate analisi di carattere dietrologico sulla strage di Parigi.
Sembra che a molti, negli ambienti della sinistra vintage, paia impossibile accettare il fatto che è perfettamente plausibile che un gruppo di giovanotti possa aver fatto tutto da sé e che esista, alle loro spalle e come loro riferimento, una corrente politico/religiosa non “occidentale” che è seriamente intenzionata ad occupare uno spazio nell’attuale equilibrio dei poteri.
Semplicemente c’è chi non vuole capire che siamo, ed è assolutamente normale che sia così, in un mondo multipolare dove, per dirla in parole semplici, operano diversi attori politici, economici e sociali in concorrenza fra di loro e che non tutto può essere spiegato con manovre del Grande Satana statunitense o, è una variante diffusa, con la congiura ebraica.
Per di più, ai terzomondisti d’envergure ripugna l’attribuire la parte del vilain a qualcuno che non sia la CIA o il Mossad.
Sembra impossibile che molti, troppi, che si vogliono nemici dell’attuale ordine del mondo non ritengano evidente che una società superiore, una società di liberi e di eguali, non può affermarsi riducendo le libertà attuali e assumendo modelli oscenamente regressivi e che, anzi, abbia come suo obiettivo proprio l’estensione delle libertà e il conseguente passaggio dall’eguaglianza politico/formale a quella sociale/reale ma, con ogni evidenza, è così.
Si tratta, a mio avviso e in primo luogo, di prendere atto che un ordine del mondo unipolare, quello che sembrava in procinto di affermarsi dopo il crollo del blocco sovietico, semplicemente non esiste e non può esistere.
A petto dell’innegabile egemonia militare statunitense, si sono sviluppate importanti potenze regionali, Cina, Russia, Brasile, India ecc. alcune delle quali, in particolare la Cina, hanno sviluppato una concorrenza sul piano economico con l’imperialismo statunitense assolutamente efficace.
Lo stesso rapporto tra USA ed Europa, in particolare ma non solo, con la Germania è tutt’altro che armonico visto che scontri di interesse sono presenti e rilevanti.
E’ in questo scenario che la stessa idea di un’onnipotenza statunitense nel complicato scenario del vicino oriente non ha alcun serio fondamento.
Certamente, infatti, gli USA hanno usato l’islamismo in funzione antisovietica in occasione della guerra in Afghanistan e non solo ma è bene ricordare che prima la caduta dello Scia in Iran, poi la vittoria di un partito islamico in Turchia e la conseguente fine di due importanti alleati in quell’area, dimostrano che quanto avviene non è riconducibile a schemi semplici e rassicuranti con gli USA, e magari la lobby ebraica, nella parte dei cattivi.
Esistono soggetti politici importanti, veri, radicati che non sono riconducibili all’egemonia statunitense. Esistono, soprattutto, culture, modelli sociali, potenze economiche, in primo luogo l’Islam, diversi, radicalmente diversi, da quello egemone nelle metropoli capitalistiche occidentali.
Ciò pone problemi nuovi e importanti alla teoria politica, la religione che molti di noi avevano considerato come un fattore politico tendenzialmente residuale riprende un peso inimmaginabile sino a qualche decennio addietro.
Morte le due principali religioni laiche della modernità, il nazionalismo/fascismo europeo classico e il comunismo, le grandi religioni tradizionali, in particolare islam, cattolicesimo, cristianesimo ortodosso e induismo ma anche, in funzione anticattolica e in questo caso sul serio con finanziamenti statunitensi, un protestantesimo ateologico che si diffonde massicciamente in particolare nell’America latina, riprendono un ruolo importante come fattori di tenuta della società contro l’impatto distruttivo del mercato e del nichilismo individualista dell’occidente.
E’ fra l’altro interessante rilevare che proprio il fascismo, che sembrava destinato alle fogne della storia, riprende un ruolo nelle diverse forme che assume dall’islamofascismo al razzismo dei difensori della Fortezza Europa passando per tutte le varianti del caso, peraltro i fascismi, proprio per il loro carattere nazionale, razziale e religioso, sono per loro stessa natura plurali e spesso in conflitto fra dio loro. Senza andare al troppo citato Roman Bandera che, da coerente leader nazionafascista ucraino di batté, nel corso della seconda guerra mondiale, contemporaneamente contro sovietici, tedeschi e partigiani polacchi, basta guardare a ciò che avviene in Ucraina oggi dove gruppi di volontari fascisti si battono l’uno contro l’altro alcuni a sostegno degli ucraini e altri a sostegno dei filorussi.
E’, ad esempio, evidente che l’iniziativa politica e culturale della chiesa cattolica oggi è straordinariamente superiore a quella di qualche decennio addietro e che soprattutto si pone come alternativa al modello occidentale così come si è determinato.
Da ciò derivano due conseguenze:
– in primo luogo la necessità di tenere ritta la barra, di evitare di schierarsi in un ruolo subalterno nei due partiti che oggi si disegnano in Europa, quello maggioritario che chiama all’unità contro i barbari nelle sue versioni di destra, fascista/leghista, e di sinistra progressista e quello, minoritario, terzomondista, antiamericano fascistoide se non fascista.
– nello stesso tempo ripensare la nostra teoria e la nostra pratica in una prospettiva meno eurocentrica, provinciale, occidentale misurandoci con le trasformazioni in atto e con le correnti politiche che si vanno affermando in questa fase.

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Charlie[1]. Io non mi dissocio

La strage nella redazione di Charlie Hebdo ha suscitato un ampio confronto che continua e si estende viralmente tra la rete, i giornali, i bar.
Vi proponiamo un pezzo di Karim Metref. Qui potete ascoltare l’intervista realizzata dall’info di Blackout.
Il pezzo di Karim è la risposta ad un articolo di Igiaba Scego uscito sull’Internazionale:

Cara Igiaba,
in questi giorni saremo messi sotto torchio e le prossime campagne elettorali saranno fatte sulla nostra schiena. Gli xenofobi di tutta Europa vanno in brodo di giuggiole per la gioia e anche gli establishment europei che non hanno risposte da dare per la crisi saranno contenti di resuscitare il vecchio spauracchio per far rientrare le pecore spaventate nel recinto.
Da ogni parte ci viene chiesto di dissociarci, di scrivere che noi stiamo con Charlie, di condannare, di provare che siamo bravi immigrati, ben integrati, degni di vivere su questa terra di pace e di libertà.
Ebbene, anche se ovviamente condanno questo atto come condanno ogni violenza, non mi dissocio da niente. Non sono integrato e non chiedo scusa a nessuno. Io non ho ucciso nessuno e non c’entro niente con questa gente. Altrettanto non possono dire quelli che domani dichiareranno guerra a qualcuno in nome di questo crimine.
Tu dici: “Oggi mi hanno dichiarato guerra. Decimando militarmente la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo mi hanno dichiarato guerra. Hanno usato il nome di dio e del profeta per giustificare l’ingiustificabile. Da afroeuropea e da musulmana io non ci sto”.
Io con questa gente sono in guerra da trent’anni. Li affrontavo con i pugni all’epoca dell’università e con le parole e con le azioni da allora e fino a oggi. Sono trent’anni che li combatto e sono trent’anni che il sistema della Nato e i suoi alleati li sostengono regolarmente ogni dieci anni per fomentare una guerra di qua o di là.
Anche io sono afroeuropeo, sono originario di un paese a maggioranza musulmana ma non mi considero un musulmano: non sono praticante, non sono credente. Ma anche io non ci sto. Non ci sto con questi folli, non ci sto quando lo fanno a Parigi ma non ci sto nemmeno quando lo fanno a Tripoli, Malula o a Qaraqush.
Non sto con loro e non sto con chi li arma un giorno e poi li bombarda il giorno dopo. Non ci sto in questa storia nel suo insieme e non solo quando colpisce il cuore di questa Europa costruita su “valori di convivenza e pace”. Perché dico che questa Europa deve essere costruita su valori di pace e convivenza anche altrove, non solo internamente (ammesso che internamente lo sia).
Tu dici che questo non è islam. Io dico che anche questo è islam. L’islam è di tutti. Buoni o cattivi che siano. E come succede con ogni religione ognuno ne fa un po’ quello che vuole. La adatta alle proprie convinzioni, paure, speranze e interessi. Nelle prossime ore, i comunicati di moschee e centri islamici arriveranno in massa, non ti preoccupare. Tutti (o quasi) giustamente si dissoceranno da questo atto criminale. Qualche altro Abu Omar sparirà dalla circolazione per non creare imbarazzo a nessuno. La Lega e altri avvoltoi si ciberanno di questa storia per mesi, forse per anni. E noi ci faremo di nuovo piccoli piccoli, in attesa della fine della tempesta. Come stiamo facendo dopo questi attentati (forse) commessi da quella stessa rete che la Nato aveva creato per combattere una sua sporca guerra.
Loro creano mostri e poi, quando gli si rivoltano contro, noi dobbiamo chiedere scusa, dissociarci e farci piccoli. A me questo giochino non interessa più. Non chiedo scusa a nessuno e non mi dissocio da niente. Io devo pretendere delle scuse. Io devo chiedere a questi signori di dissociarsi, definitivamente, non ad alternanza, da questa gente: amici in Afghanistan e poi nemici, amici in Algeria e poi nemici, amici in Libia e poi… non ancora nemici lì ma nemici nel vicino Mali, amici in Siria poi ora metà amici e metà nemici… Io non ho più pazienza per questi macabri giochini. Mando allo stesso inferno sia questi mostri sia gli stregoni della Nato e dei paesi del Golfo che li hanno creati e li tengono in vita da decenni. Mando tutti all’inferno e vado a farmi una passeggiata in questa notte invernale che sa di primavera… Speriamo non araba.

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