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L’altro Pride. Contro frontiere e decoro

Giugno è il mese del Pride. La giornata dell’orgoglio delle persone omosessuali, transessuali, queer, bisex, intersex nasce dopo la rivolta di 49 anni fa a a New York. Stanch* di violenze, irrisioni, soprusi della polizia quelli dello Stonewall alzarono la testa e attaccarono la polizia. Il primo Pride fu un riot.

A Torino il Pride è un’imponente sfilata attraversata da decine di migliaia di persone. Ma Stonewall è lontana, lontanissima da Torino.
Il Pride anno dopo anno è diventato un ibrido tra un carnevale, una passerella istituzionale e uno evento commerciale.
C’è sempre meno spazio per le voci critiche, per un approccio intersezionale, per chi vuole che libertà e diritti siano per tutti, anche per gli esclusi dal grande banchetto, per i migranti, i poveri, i rom, i senza casa.
Lo slogan di quest’anno era “Nessun dorma”, una maniera appena accennata di alludere alle componenti omofobe, maschiliste, transfobiche del governo giallo-verde. Senza esagerare, senza permettersi critiche al governo della città e a quello della Regione. In punta di piedi, per non disturbare troppo.
Non poteva essere altrimenti, perché le istituzioni erano in testa al corteo.
La sfilata del 16 giugno è stata organizzata dal Coordinamento Torino Pride con il patrocinio di Comune di Torino, Regione Piemonte, Consiglio regionale del Piemonte, Torino Metropolitana, Provincia di Cuneo, Provincia di Novara. Tra gli sponsor la Coop, la Gtt, Il corpo di polizia municipale della città di Torino.

La sfilata, cui ogni carro entrava solo pagando, è stata tenuta sotto controllo dalla polizia di Stato e dal servizio d’ordine di due compagnie private, i City Angels, noti per la pulizia etnica a San Salvario e l’Hydra Service, i picchiatori prezzolati al servizio del PD, tristemente noti per i loro interventi muscolari contro ogni forma di opposizione sociale. Noi li ricordiamo per il camion dello spezzone anarchico e antimilitarista spaccato il primo maggio 2011, ma i loro bastoni si sono esibiti in molte altre occasioni.

Quest’anno al Torino Pride gli attivist* di “Nessun* Norma!”, il Pride contro frontiere e decoro del 28 giugno hanno distribuito volantini, che sono immediatamente entrati nel mirino della polizia, che li ha circondati pretendendo di sequestrarli, per le immagini satiriche stampate sul retro. Immagini considerate offensive, perché non è lecito burlare ministri e sindaci. Specie se si tratta di Salvini, Fontana e Appendino. Diverse compagn* sono state identificate e minacciate dalla digos. Alla fine gli uomini e le donne della polizia politica si sono accontentat* di sequestrare solo una parte del materiale.
Ma non è finita lì. Più tardi è stato aperto uno striscione in via Po ed acceso qualche fumogeno per attirare l’attenzione. Sullo striscione campeggiava la scritta “Il Pride è rivolta. Contro frontiere, decoro, istituzionalizzazione. Nessun Norma” Lo striscione è stato due volte rimosso dal servizio d’ordine del Pride. Un fumogeno è stato lanciato addosso alle persone.

La repressione al Pride istituzionale ha dato una bella spruzzata di pepe a chi stava organizzando il corteo indecoroso del 28 giugno.

In maggio individui e gruppi diversi, che si erano intrecciati nelle lotte contro le frontiere, gli sgomberi, la repressione hanno cominciato ad incontrarsi per costruire un altro Pride. Una scommessa che ha visto accanto Ah Squeerto e Studenti Indipendenti, Manituana e Federazione Anarchica, Breacktheborder e l’infoshock del Gabrio.
Una scommessa difficile, che si è dovuta scontrare con l’indifferenza e l’ostilità di chi, anche nei movimenti di opposizione sociale, nonostante tutto, preferiva affacciarsi al Pride istituzionale. Non Una di Meno, rete “transfemminista ed intersezionale”, avrebbe potuto portare un contributo importante all’iniziativa, invece si è divisa senza raggiungere una sintesi, ma, nei fatti partecipando attivamente, sia pure in tono minore, solo al Pride istituzionale dove sono stati distribuiti volantini, fatti interventi e portate a spasso le matrioske.
Una brutta scivolata della Rete torinese, preoccupante in un clima politico e culturale sempre più difficile.

Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.
E non può che andare peggio. Se Appendino riuscirà ad aggiudicarsi il carrozzone olimpico del 2026, il restyling della città costerà caro a chi non corrisponde ai criteri di decoro urbano.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria, cedendo alle tentazioni populiste e nazionaliste, rischiando di scivolare sul declivio della guerra tra poveri.

Il governo della città è stato per decenni nelle mani del Partito Democratico.
Da due anni governano i Cinque Stelle. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche e dai padroni.
Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. Appendino fa la guerra ai rom, sguinzaglia i vigili urbani a caccia di mendicanti, lavavetri, spacciatori di accendini, senza casa.

Chi aveva creduto alla retorica della democrazia penta stellata sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. I posti occupati che non hanno accettato la normalizzazione a Cinque Stelle sono stati sgomberati. La baraccopoli rom di corso Tazzoli è stata demolita per la “sicurezza” degli abitanti gettati in strada.
La retorica della “cittadinanza” partecipativa sceglie chi includere e chi escludere, nel gioco feroce delle poltrone, del potere, delle alleanze.
Appendino prepara la vetrina olimpica, cementifica la città, si congratula con la polizia che arresta gli anarchici… sfila in testa al Pride e benedice le famiglie arcobaleno.

Il 28 giugno l’altro Pride ha attraversato il centro cittadino, nonostante il nuovo questore avesse imposto divieti di sapore squisitamente politico. Piazza Palazzo di città, dove ha sede il comune, è stata chiusa e blindata da Digos e poliziotti in assetto antisommossa. Un blocco risibile di fronte alla folla queer che li fronteggiava, irrideva, mimava. Il segno che i timori per “l’ordine pubblico” erano solo paura di corpi ed identità erranti indisponibili a farsi rinchiudere in una gabbia dorata, dove il prezzo della “libertà” è l’accettazione delle linee di cesura che attraversano il nostro spazio sociale.
Cartelli con le “coppie di fatto” danno il segno di una critica intollerabile per la questura e la prefettura, la lunga mano del governo sui territori.
Chiara Appendino e Lorenzo Fontana, la sindaca gay friendly ed il ministro della famiglia omofobo e maschilista. Merkel ed Erdogan, Di Maio e Salvini, le coppie oscene del teatro politico.

Il corteo, cresciuto lungo il percorso, ha sostato in piazza Castello, percorso via Po e via Accademia tra musica, balli, corpi liberi e interventi. In corso Vittorio è dilagato su tutti e quattro i viali sino alla blindatissima stazione di Porta Nuova, vera frontiera invisibile nel cuore di Torino. Ogni giorno, da mesi, i binari da dove partono i treni diretti in Val Susa sono sorvegliati da pattuglie interforze di poliziotti e militari, che selezionano i passeggeri. Se sei nero, anche se hai un documento in tasca ed un biglietto, ti rimandano indietro. La frontiera con la Francia erige i suoi muri nel cuore di Torino.
Le frontiere sono linee su una mappa. Sottili righe scure fatte di nulla che uomini armati in divisa rendono vere.
Le frontiere dividono e uccidono.
Nel Mediterraneo e in montagna. Nei ghetti dei raccoglitori di frutta e pomodori, nei cantieri dove la sicurezza è un lusso.
Nei tanti interventi durante il corteo abbiamo ricordato Blessing e Mamadou, uccisi dalle frontiere chiuse al Montgenevre, Soumaila Sacko ammazzato dalla lupara al servizio dei padroni.
Le frontiere sono in mezzo a noi. Sono le leggi sul decoro che cacciano i poveri dai luoghi pubblici, sono le leggi sulla proprietà che negano una casa a chi non ce l’ha.
Sono le frontiere tra i sessi, che piegano i corpi e le soggettività erranti alle regole della famiglia, nucleo “etico” che ingabbia le relazioni, fissa i ruoli, nega la possibilità di percorsi individuali fuori dal reticolo patriarcale, statale, religioso.
Il corteo si è concluso con una festa al Valentino benefit per il rifugio autogestito Chez Jesus di Claviere.

Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo, hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Questi principi tengono saldamente fuori tanta parte dell’umanità. Poveri, donne, omosessuali, transessuali, bambini, stranieri erano/sono esclusi dall’accesso a questi diritti. La loro universalità, formalmente neutra, è modellata sul maschio adulto, benestante, bianco, eterosessuale. Il resto è margine. Chi non è pienamente umano non può essere “cittadino”, soggetto di diritto.
Chi non è pienamente umano non può aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni. Per chi ne è escluso si tratta di privilegi, per chi vi è inscritto diviene una gabbia normativa.
Come il matrimonio. Un legame sancito dallo Stato (e dalla chiesa) che fissava la diseguaglianza e l’asservimento delle donne, sottomesse al marito alla cui tutela venivano affidate. Eterne minorenni passavano dalla potestà paterna a quella maritale.
Le lotte che hanno segnato le tante vie della libertà femminile hanno in parte cancellato quella servitù. Ma ne hanno pagato il prezzo. Il prezzo dell’emancipazione femminile è l’adeguamento all’universale, che resta saldamente maschile, bianco, benestante ed eterosessuale.
Lo spazio della sperimentazione, della messa in gioco dei percorsi identitari, tanto radicati nella cultura da sembrare «naturali», tende ad estinguersi, polverizzato dalle cazzutissime donne in divisa, dalle manager in carriera, dal femminismo della differenza che inventa le gerarchie femminili per favorire manovre di lobbing. Tutto deve diventare “normale”, vendibile, controllabile.
Le differenze tra le persone non sono iscritte nella natura o nella cultura, ma offrono una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Percorsi possibili solo fuori e contro il reticolo normativo stabilito dallo Stato, che, non per caso, nega diritti e tutele alle persone che scelgono di non sposarsi.
La strada del movimento lgbtqi è stata ed è ancora in netta salita. Fascisti e preti continuano le loro crociate per escludere dall’umanità una sua parte. Le discriminazioni, la violenza statale e culturale sono molto forti.
Chi vorrebbe le stesse possibilità degli eterosessuali – adozioni, pensione di reversibilità, diritto alla cura del partner – deve adeguarsi ad un modello rigido di relazione costruita sulla coppia e sui loro figli, alla legalizzazione dei sentimenti, delle passioni, della tenerezza.
Chi sceglie di starne fuori, di fare altre strade, non può avere questi privilegi anche se eterosessuale.
La normalizzazione delle nostre identità erranti è il prezzo per accedere ad alcune libertà che si ottengono solo con il matrimonio, un legame sancito e regolato dallo Stato. È un prezzo che tanti non sono dispost* a pagare.
Abbiamo attraversato la città con la leggerezza di chi si scioglie da vincoli e lacci. Con la stessa leggerezza attraversiamo le nostre vite.
Senza frontiere, che separino i sommersi dai salvati, i cittadini e gli stranieri.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.

Maria Matteo

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Torino 8 marzo. Se non posso ballare non è la mia rivoluzione!

Torino 8 marzo. Se non posso ballare non è la mia rivoluzione!

Un alito di primavera ha accompagnato un lungo 8 marzo di lotta all’ombra della Mole.
In piazza Castello sin dal mattino è un fiorire di matrioske, cartelli, colori e suoni. In testa lo striscione “Scioperiamo dal lavoro di cura. Lottiamo insieme!”
Lo sciopero femminista contro la violenza maschile sulle donne e le violenze di genere, si è articolato come diserzione dal lavoro retribuito fuori casa, ma anche dal lavoro dentro casa, dai lavori di cura, dai lavori domestici e dai ruoli di genere imposti.
La rinnovata sessualizzazione del lavoro di cura non pagato riduce la conflittualità sociale conseguente alla erosione del welfare.
La riaffermazione di logiche patriarcali offre un puntello al capitale nella guerra a chi lavora.
Lo sciopero femminista scardina questo puntello, rimettendo al centro le lotte delle donne per la propria autonomia.
La prima tappa è al centro della piazza. Lunghi fili vengono tirati tra i pali: con pinze da bucato sono stesi pannolini, grembiuli, strofinacci… Tutti oggetti simbolo del lavoro di cura.
Un camioncino prova senza successo a forzare il blocco, che si allarga sulla piazza. Un nucleo dell’antisommossa, schierato a pochi passi da una carrozzina con un neonat*, chiede a gran voce rinforzi. La digos si affanna al cellulare. Si parte in corteo verso via Po. Per l’intera mattinata si svolgono blocchi con slogan e comizi volanti ai principali incroci.
In corso Regina il corteo viene raggiunto dalle studentesse, che in mattinata avevano bloccato le lezioni al campus. La mattinata si conclude a Palazzo Nuovo, l’altra sede delle facoltà umanistiche.

Nel pomeriggio piazza XVIII dicembre, la piazza che ricorda i martiri della camera del lavoro, si riempie velocemente. Parrucche rosa, fucsia e viola sul nero degli abiti, tanti striscioni, tulle, cartelli. Il corteo si dipana per il centro. Saremo tremila, forse più.
La prima sosta è davanti alla caserma dei carabinieri Cernaia. Viene appeso uno striscione contro la violenza dei tribunali, in solidarietà alle donne stuprate, picchiate e offese che nelle aule di giustizia diventano imputate, chiamate a rispondere della propria vita, dei propri abiti, dei propri gusti, del proprio no alla violenza. Vengono lette alcune delle domande fatte in tribunale alle due studentesse statunitensi stuprate da due carabinieri la scorsa estate a Firenze. Domande di una violenza terribile.
In Italia viene ammazzata una donna ogni due giorni.
Spesso gli assassini usano le pistole d’ordinanza, che hanno il diritto di portare perché fanno parte dell’elite poliziesca e militare, che detiene per conto dello Stato il monopolio legale della violenza.
Gli spazi di autonomia che le donne si sono conquistate hanno incrinato e a volte spezzato le relazioni gerarchiche tra i sessi, rompendo l’ordine simbolico e materiale, che le voleva sottomesse ed ubbidienti. Il moltiplicarsi su scala mondiale dei femminicidi dimostra che la strada della libertà femminile è ancora molto lunga. Il crescere della marea femminista è la risposta ad una violenza che ha i caratteri espliciti di una guerra planetaria alla libertà delle donne, alla libertà dei generi, alla libertà dai generi.
Nelle aule dei tribunali la violenza maschile viene declinata come affare privato, personale, accidentale, nascondendone il carattere disciplinare, punitivo, politico.
Le lotte femministe ne fanno riemergere l’intrinseca politicità affinché divenga parte del discorso pubblico, in tutta la propria deflagrante potenza, mettendo in soffitta il paternalismo ipocrita delle quote rosa, delle pari opportunità, dei parcheggi riservati alle donne.
Tra i temi di questo 8 marzo di sciopero e lotta, la ferma volontà di rompere il silenzio e l’indifferenza, per sostenere un percorso di libertà, mutuo aiuto e autodifesa contro chi ci vorrebbe inchiodare nel ruolo di vittime.
Forte è il rifiuto che la difesa delle donne diventi l’alibi per politiche securitarie, che usino i nostri corpi per giustificare strette disciplinari sull’intera società.

“Nello stato fiducia non ne abbiamo, la difesa ce la autogestiamo!”
“Lo stupratore non è malato, è il figlio prediletto del patriarcato”
“Siamo la voce potente e feroce di tutte le donne che più non hanno voce!” Questi slogan riempiono la piazza, deflagrano per il corteo.

Tra i tanti interventi quello di una ragazza curda, che ricorda la lotta delle donne di Afrin contro l’invasione turca e il patriarcato. Una studentessa sviluppa una critica alla scuola, dove lo sguardo femminista è quasi sempre assente.

In piazza Castello su uno dei tanti monumenti militaristi della città, quello dedicato al duca d’Aosta, in braccio ad uno dei soldati raffigurati viene messa una scopa, uno strofinaccio, un pezzo di tulle rosa.
L’azione è accompagnata da un lungo intervento dal camion.
É il momento per parlare delle donne stuprate in guerra, prede e strumento del conflitto. In guerra la logica patriarcale sottesa a torture e stupri è meno dissimulata che in tempi di pace.
Dahira nel 1993 aveva 23 anni. Dahira già conosceva il sapore amaro dell’essere donna in una società patriarcale. Era stata ripudiata dal marito, perché non riusciva a dargli dei figli. Una cosa inutile, priva di valore. Ma per lei il peggio doveva ancora venire. In una notte di maggio di 25 anni fa venne spogliata, legata sul cassone di un camion con le braccia e le gambe immobilizzate e stuprata con un razzo illuminante. I torturatori e violentatori erano paracadutisti della Folgore, in missione umanitaria in Somalia. Con cruda ironia la missione Nato, cui l’Italia partecipò si chiamava “Restore hope – restituire la speranza”.
Gli stessi parà stanno per sbarcare in Niger per una nuova missione. Questa volta l’obiettivo sono i migranti in viaggio verso l’Europa.
Altri militari saranno in Libia, dove le milizie di Sabratha e Zawija, pagate dallo Stato italiano rinchiudono uomini, donne e bambini in prigioni per migranti, dove tutte le donne vengono stuprate. Gli esecutori sono in Libia, i mandanti sono sulle poltrone del governo italiano.

Il corteo imbocca via Po e si ferma davanti alla chiesa della SS Annunziata, legata a Comunione e Liberazione. Lì viene appeso uno striscione con la scritta “Preti ed obiettori tremate. Le streghe son tornate!” Prezzemolo e ferri da calza sono lasciati di fronte all’ingresso, per ricordare i tempi dell’aborto clandestino, quando le donne povere abortivano con decotti e ferri da calza, rischiando di morire.
La chiesa cattolica vorrebbe che le donne che decidono di non avere figli muoiano o vengano trattate da criminali. A quarant’anni dalla legge che ha depenalizzato l’aborto, ma lo ha sottoposto ad una rigida regolamentazione, in molte città italiane abortire è diventato impossibile, perché il 100% dei medici si dichiara obiettore.
Preti ed obiettori vorrebbero inchiodarci al ruolo di madri e mogli. Quest’8 marzo ci trova più agguerrite che mai nella lotta per una maternità libera e consapevole.

Nelle piazze torinesi si è affermato un femminismo capace di obiettivi radicali e pratiche libertarie, vincendo la scommessa non facile dello sciopero femminista, con la buriana elettorale appena dietro le spalle, nel netto rifiuto di essere usate come trampolino per carriere politiche tinte di fucsia.
In quest’8 marzo è emerso l’intreccio potente tra la dominazione patriarcale e la violenza dello Stato, del capitalismo, delle frontiere, delle religioni.
Di questi tempi non è poco. Un sasso nello stagno, che si allarga e moltiplica le pozze.

Il corteo vibra dello slogan urlato da tutte “Ma quale Stato, ma quale dio, sul mio corpo decido io!”

La marea dilaga in piazza Vittorio dove viene disegnata una matrioska gigante al cui interno vengono lasciate scope, detersivi, grembiuli e strofinacci.

Un grido potente riempie la piazza “Se non posso ballare non è la mia rivoluzione!”. Ed è festa.
m. m.

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Turchia. Dal Pride alla marcia per la giustizia

Il Pride in Turchia si fa da 15 anni. Quest’anno, per la seconda volta consecutiva, il governo ha vietato il corteo.
Anche quest’anno il movimento glbti ha sfidato Erdogan scendendo in piazza in barba ai divieti. D’altra parte il primo Pride fu una sommossa, da cui tanti percorsi di libertà presero avvio.

I manifestanti hanno provato ad entrare a Taksim, ma la piazza era chiusa dall’antisommossa, che appena la folla è cresciuta sono entrati in azione.

La polizia ha usato proiettili di gomma e idranti per disperdere il corteo arcobaleno. Diverse decine di attivisti sono stati feriti. 35 le persone, tra cui un giornalista dell’Associated Press, sono state arrestate. Probabilmente potrebbero essere rilasciate nelle prossime ore.

In questi stessi giorni ha preso avvio una marcia per la giustizia e la libertà, diretta a piedi da Ankara a Istanbul.
La marcia è stata promossa dal CHP, il partito socialdemocratico, per protestare per l’arresto di Enis Berberoglu, deputato del partito, arrestato nei giorni scorsi.
Berberoglu è stato rinchiuso in carcere dopo una condanna in primo grado a 25 anni per “rivelazione di segreto di stato”. La sua colpa è aver collaborato all’inchiesta del quotidiano Cumhuriyet che pubblicò un reportage sui tir dei servizi segreti turchi, che, nel 2014, trasportavano armi dirette agli insorti dell’ISIS in Siria.
Con lui salgono a 12 i deputati imprigionati in Turchia nell’ultimo anno. Gli altri 11 fanno parte del Partito Democratico dei Popoli, la formazione che in Turchia ha promosso, dall’interno delle istituzioni, il Confederalismo Democratico, ottenendo sia l’ingresso al Parlamento, sia un buon successo nelle regioni curdofone.
La repressione violentissima scatenata negli ultimi due anni nel sud est del paese, ha portato alla destituzione e all’arresto di numerosi sindaci e cosindaci.

La marcia per la giustizia si sta allargando di tappa in tappa: cresce giorno dopo giorno e raccoglie adesioni ben oltre il bacino di consenso dei socialdemocratici turchi.
Ormai sono migliaia le persone in marcia che hanno affrontato anche il freddo e la neve, attraversando le montagne e poi proseguendo lungo l’autostrada.
Ora è diventata una spina nel fianco di Erdogan, che ha più volte minacciato i partecipanti di passare la parola alla polizia.

Ascolta la diretta di Blackout con Murat Cinar, videomaker, giornalista di origine turca, che vive da molti anni a Torino.

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8 marzo a Torino. Ma quale stato ma quale dio, sul mio corpo decido io!

La marea femminista che ha attraversato il pianeta l’8 marzo ha bloccato il centro di Torino per l’intera giornata.
L’appuntamento del mattino era alle 10 nei pressi del Cine Massimo. In programma contestazioni e blocchi. Tanti gli slogan, tantissimo l’entusiasmo e la voglia di rendere visibili le ragioni di un otto marzo che spezza la ritualità di una festa, dove si vive come ogni giorno, con qualche spesa in più dal fioraio.
In centinaia siamo partit* in corteo, guadagnando via Po in direzione di una delle farmacie che rifiutano di vendere la pillola del giorno dopo. Lunga sosta di fronte alla farmacia, affissione di manifesti e slogan, poi il corteo selvaggio riparte, attuando numerosi lunghi blocchi, che in breve paralizzano la piazza più grande della città. Ma è solo l’inizio.
La Rete Non Una di Meno di Torino decide di accogliere l’invito della sindaca Appendino, che aveva annunciato musei gratis per le donne l’8 marzo. Incomprensibilmente di fronte all’ingresso del prestigioso museo del Cinema alla Mole Antonelliana, le femministe che vogliono entrare in segno di solidarietà con le lavoratrici della Rear, si trovano di fronte la celere schierata. Dopo uno spintonamento con i gentiluomini e gentildonne dell’antisommossa, le porte del museo vengono blindate. Volano calci sull’ingresso chiuso. Evidentemente le donne in nero e fucsia che lottano a fianco delle lavoratrici e dei lavoratori in lotta nei musei cittadini non sono gradite. Appendino preferisce le ragazze supersfruttate che lavorano con la mimosa del fidanzato infilata all’occhiello, le donne delle pulizie, cuoche, baby sitter, stiratrici che lavorano nelle case senza paga, mentre la loro mimosa già appassisce nel vasetto a centro tavola. È la faccia oscura della nuova Torino Smart, superconnessa, trendy, tra movida e grandi eventi, dove precarietà, lavori gratuiti, discriminazioni condite da molestie sono “normali”
Una “normalità” che la piazza torinese dell’8 marzo, una piazza di persone in sciopero, ha cercato di spezzare. La lotta alla violenza contro le donne si articolata intersecando i piani, assumendo il punto vista di chi lotta per la libertà del genere, dal genere con uno sguardo attento alle cesure di classe, di razza, di dominio.

Dopo il parapiglia al Museo del cinema il corteo si è diretto in corso Regina, raggiungendo le universitarie uscite dal Campus Einaudi. Insieme si sono fatti due lunghi blocchi in uno dei principali corsi cittadini.

Dai posti di lavoro arrivavano notizie di scuole chiuse e di quasi quattromila dipendenti pubblici in sciopero, all’ospedale Mauriziano ha chiuso per sciopero l’ufficio prenotazioni.

Nel pomeriggio, in piazza XVIII dicembre, un luogo simbolo delle lotte dei lavoratori anarchici e socialisti, per la lapide che ricorda i martiri della Camera del Lavoro, è subito chiaro che la giornata sarà di quelle da ricordare. A Torino, l’appuntamento è alle 16, perché è giorno di sciopero generale, perché chi la folla vuole inceppare la macchina, vuole dimostrare la propria forza. Uno sciopero politico, uno sciopero che mette in discussione l’ordine. Morale, economico, patriarcale,

Migliaia di persone si incontrano nella piazza dove, musica e canzoni autoprodotte si alternano agli interventi, alle parole che raccontano le vite irrappresentate di tante, che oggi si autorappresentano. Tanti cartelli, pochi striscioni, nessuna bandiera, grande radicalità, espressa in slogan e interventi. Non è una classica piazza di movimento, ma una piazza che si muove intorno a obiettivi e pratiche con una spiccata tensione anticapitalista, antirazzista, antigerarchica, anticlericale.
“Ma quale stato ma quale dio, sul mio corpo decido io!”
“Nello stato fiducia non ne abbiamo, la difesa ce la autogestiamo!”
“Lo stupratore non è malato, è il figlio prediletto del patriarcato”
“Lotta dura contro natura”
“Ma quali leggi? Ma quale protezione? Contro la violenza ci vuole ribellione!!
E si canta “si parte, si torna, insieme, siam tutte puttane, il corpo mi appartiene, il prete e l’obiettore dovran tremare se arrivan le mignotte. Son botte, son botte!”

L’impegno e la forza delle componenti anti istituzionali e rivoluzionarie nella costruzione della giornata è emerso in modo chiaro, segno che esistono enormi spazi di crescita, non facilmente riassorbibili da chi, come la cgil, ha provato ad assumersi la maternità di una marea incontrollabile.

Il corteo sfila per ore attraversando il centro cittadino ed approda in piazza Gran Madre di Dio, nel luogo dove i cattolici hanno costruito una chiesa sulle fondamenta del tempio di Iside. Qui venivano eretti i roghi delle streghe. In un batter d’occhio la piazza cambia nome, diventa “Piazza Donne Libere arse dalla chiesa”.
Poi un grande cerchio. Domani è ancora “l’otto marzo”.

Los Ratos
(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Umanità Nova)

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La marea sale ancora

Non era scontato. Non era scontato che, dopo l’imponente manifestazione femminista del 26 novembre 2016 e la grande assemblea del giorno successivo, il nuovo appuntamento della rete femminista “Non una di meno” lanciato per il 5 e il 6 febbraio a Bologna fosse colto da tanta gente. La marea continua a salire: 1500 persone hanno partecipato agli otto tavoli di lavoro e alla plenaria conclusiva nei locali della facoltà di giurisprudenza del capoluogo emiliano. Tanti i luoghi, gli accenti, le storie, le vite, i percorsi politici e sociali che si sono incrociati in due giorni di confronto, quasi sempre pacato, mai semplice.
Negli ultimi anni è nato un movimento femminista capace di porre al centro la questione dell’identità, che non è biologica, ma politica e sociale. Questo movimento sta smontando la logica binaria che ha segnato altri percorsi. A “Non una di meno” partecipano donne e uomini, le cui identità sono difformi, spurie, fuori dagli schemi.
È un femminismo che colloca la lotta al patriarcato agli incroci dove si interseca con questioni come la classe, la razza, la gerarchia. Non accetta che la libertà e la sicurezza delle donne possa divenire alibi per moltiplicare la pressione disciplinare, i dispositivi securitari e repressivi.
Il movimento nasce sulla spinta di quelli sudamericani contro la violenza maschile sulle donne e fa parte di una rete transnazionale in rapida crescita. È un movimento di lotta che sta cercando, tramite il confronto e la ricerca del consenso, di articolare un discorso pubblico, un “piano femminista” contro la violenza di genere.
Un discorso che si sta definendo nei tavoli di discussione, che si sono costituiti a Roma il 27 novembre, e che, tramite mailing list nazionali e svariate articolazioni territoriali si sono sviluppati in ogni dove.

A Bologna l’intersezione dei linguaggi mostrava la trama sottesa alle tele intessute da ciascun*. In molt* invece era forte la tensione a condividere i vissuti, per dare parola politica a quanto viene relegato ai margini, rinchiuso nel privato. Privato in tutta la profonda ambiguità di un termine che è gabbia normativa e indice di sottrazione da una sfera pubblica ancora declinata al maschile, universale, bianco, eterosessuale.
Anche nei luoghi di “movimento”. Un’inchiesta realizzata a Roma in alcuni posti autogestiti ha rivelato che un terzo delle compagne ha subito violenze e molestie in spazi di aggregazione politica e sociale, in cui l’antisessismo è formalmente un valore condiviso. Le statistiche ci dicono che la percentuale nazionale è identica. I “nostri” posti sono autogestiti, crocevia di lotte ed esperienze, luoghi dove si prefigura il mondo che vorremmo, ma non sono esenti dal sessismo, dalla violenza di genere. Fare i conti con questa realtà, individuare strategie per riconoscerla, raccontarla, affrontarla e combatterla è l’obiettivo del tavolo sul sessismo nei movimenti, cui ho partecipato con altr* compagn* dell’assemblea antisessista di Torino.

Oltre a quello sul sessismo nei movimenti c’erano altri sette tavoli tematici: legislativo e giuridico; lavoro e welfare; educazione alle differenze; femminismo migrante; salute sessuale e riproduttiva; narrazione della violenza attraverso i media; percorsi di fuoriuscita dalla violenza.
L’obiettivo dichiarato della due giorni era, oltre al dibattito sul piano femminista contro la violenza di genere, la definizione degli obiettivi dello sciopero globale delle donne di mercoledì 8 marzo.
Questi tavoli hanno lavorato in contemporanea, in un’alternanza tra momenti collettivi e approfondimenti di gruppo, con una pratica orizzontale, libertaria, inclusiva.
I grandi numeri e il grande entusiasmo mostrano un movimento in crescita, ancora aurorale, che si trova in bilico tra la ricerca dell’interlocuzione istituzionale e la tensione a costruire autogestione e conflitto fuori dalle gabbie normative imposte dallo Stato, fuori dalle relazioni di sfruttamento cui ci costringe la società di classe.
Molti i nodi rimasti aperti. In alcuni tavoli sono prevalse, non senza un aspro dibattito, tentazioni stataliste. Nel tavolo “lavoro” la spinta ad ottenere basi materiali per sottrarsi ai rapporti violenti ha prodotto una nuova declinazione del “reddito di cittadinanza” traslato in “reddito di autodeterminazione”, da cui emerge con termini innovativi una trama usurata. E pericolosa. Affidare alla tutela statale la propria autonomia è un ossimoro, figlio di una perdurante illusione statalista. Tuttavia il dibattito è stato molto più ampio, articolato, complesso, aperto, nel ricercare una fuoriuscita dalla condanna ai lavori di cura non retribuiti, che non poggiasse sulle mani e sulle spalle delle donne migranti.
Il tavolo giuridico, ma forse era inscritto nel suo DNA politico, si è chiuso nel gioco delle convenzioni e dei diritti formali, quelli, che in altri ambiti, servono ad emettere severe condanne postume.

Decisamente più interessante l’esito del tavolo “educare alle differenze”, che, contro la logica delle “pari opportunità” vuole “coltivare un sapere critico verso le relazioni di potere fra i generi e verso i modelli stereotipati di femminilità e maschilità”.
Al tavolo sulla fuoriuscita dalla violenza, cui hanno partecipato soprattutto le donne dei centri antiviolenza, è stato affermato il netto rifiuto dell’istituzionalizzazione dei centri antiviolenza, la rivendicazione del ruolo politico di chi ci lavora, che nega la logica assistenzialista, dando spazio alle donne, non più vittime ma protagoniste.

Molto concreto, mirato al contrasto del racconto mediatico prevalente e alla costruzione di percorsi comunicativi femministi il lavoro del tavolo comunicazione.

Il tavolo sul femminismo migrante, pur scontando l’aporia della scarsa partecipazione delle donne straniere, ha formulato l’obiettivo di cancellare le leggi razziste, i cie, le deportazioni.
Il dibattito si è concentrato sulle gabbie che stringono d’assedio le vite migranti, strangolate da leggi razziste, che tengono sotto costante ricatto chi, per mantenere il permesso, non può perdere il lavoro.
Molte donne senza lavoro eccetto quello non retribuito tra le mura democratiche, sono vincolate al permesso del marito e quindi sotto doppio ricatto.

Al tavolo sulla salute si è parlato di riconquista dei consultori, di rendere liberi e sicuri l’aborto, la contraccezione, l’accesso agli esami.

Intorno a questi temi è stato costruito lo sciopero dell’8 marzo, senza fare sconti alla CGIL, che non aveva proclamato lo sciopero ma pretendeva di essere parte del percorso. Nessuno sconto neppure a quei settori del sindacalismo di base, che pur proclamando sciopero l’8 marzo, non hanno accettato di far convergere sull’8 lo sciopero convocato il 17 febbraio contro la buona scuola.
A Bologna nella plenaria finale il comunicato inviato dalla CGIL è stato sommerso dai fischi, mentre fragorosa è stata l’approvazione verso le proposte più radicali.
I prossimi mesi ci diranno se le tele che stiamo tessendo sono robuste, capaci di contrastare il riformismo, le seduzioni welfariste, le illusioni sui “diritti”, che pure hanno fatto capolino nei vari tavoli.

Sono già molti gli avvoltoi che si aggirano con in tasca una proposta normalizzante, una struttura permanente, una tutela politica.
Non penso che avranno vita facile. La misura è colma. “Non una di meno” è una promessa che ciascuna fa a quelle che mancano. Ma anche una promessa che ciascuna fa a se stessa, Il patriarcato si (ri)afferma mettendo sotto ricatto quotidiano le nostre vite. Le donne uccise, stuprate, picchiate, umiliate, perseguitate, derise sono un monito per tutte le altre. La servitù volontaria è una tentazione forte, specie se sei sola. I movimenti, le reti femministe, i luoghi sottratti al sessismo ci danno la forza collettiva per attaccare, per strapparci di dosso il ruolo di vittime, per costruire la strada che va dal genere all’individuo. Non mera astrazione giuridica ma mutevole e concreto approdo per tutte, per tutti, per tuttu.
Maria Matteo

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Cacerolata femminista tra la movida

caceSabato 5 novembre, lungo le vie di San Salvario nonostante la pioggia, sono sfilate diverse realtà, gruppi individualità che insieme stanno tracciando le tappe di avvicinamento alla manifestazione del 26 novembre a Roma. NonUnaDiMeno si batte contro la violenza i genere. Una Casserolata rumorosa, l’affissione di strisce con i contenuti della lotta, la narrazione delle storie che segnano il nostro quotidiano, ha caratterizzato il passaggio per le vie del quartiere della movida, per rompere il silenzio e l’indifferenza, per sostenere un percorso di libertà, mutuo aiuto e autodifesa fuori e contro chi vuole le donne inchiodate nello stereotipo della vittima.
Chi si è ritrovat* in Piazza Madama Cristina lo ha fatto con lo stesso spirito delle donne argentine, spagnole, polacche, kurde, di tutte le donne in lotta provenienti da tutto il mondo, e che quotidianamente sopravvivono alla violenza misogina, lesbofobica, razzista e transfobica costruendo così percorsi di autonomia autodifesa, lotta.
L’8 novembre si è svolta un’assemblea alla Cavallerizza Reale

Di seguito uno dei volantini distribuiti in piazza

Sentieri di libertà

Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo con la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Tanta parte dell’umanità resta(va) fuori dal loro ombrello protettivo: poveri, donne, omosessuali, bambini. L’universalità di questi principi, formalmente neutra, era modellata sul maschio adulto, benestante, eterosessuale. Il resto era margine. Chi non era pienamente umano non poteva certo aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà soggetta a norma, regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni.
Le nonne delle ragazze di oggi passavano dalla potestà paterna a quella maritale: le regole del matrimonio le mantenevano minorenni a vita.
Le donne stuprate, sino al 5 settembre del 1981, potevano sottrarsi alla vergogna ed essere riammesse nel consesso sociale, se accettavano di sposare il proprio stupratore. Una violenza più feroce di quella già subita. Se una donna era uccisa per motivi di “onore”, questa era una potente attenuante. Uccidere per punire le donne infedeli era considerato giusto.

Sono passati 34 anni da quando quelle norme vennero cancellate dal codice penale. Poco prima era stato legalizzato il divorzio e depenalizzato l’aborto.
Sulla strada della libertà femminile e – con essa – quella di tutt* sono stati fatti tanti passi. Purtroppo non tutti in avanti.

Le lotte delle donne hanno cancellato tante servitù. Ma ne paghiamo, ogni giorno, il prezzo.

La violenza maschile sulle donne è un fatto quotidiano, che i media ci raccontano come rottura momentanea della normalità. Raptus di follia, eccessi di sentimento nascondono sotto l’ombrello della patologia una violenza che esprime a pieno la tensione diffusa a riaffermare l’ordine patriarcale. La casa, il “privato”, è il luogo dove si consumano la maggior parte delle violenze e delle uccisioni. Le donne libere vengono picchiate, stuprate e ammazzate per affermare il potere maschile, per riprendere con la forza il controllo sui loro corpi e sulle loro menti.

La narrazione prevalente sui media è falsa, perché nasconde la realtà cruda della violenza maschile sulle donne. Non solo. Trasforma le donne in vittime da tutelare, ottenendo l’effetto paradossale ma non tanto, di rinforzare l’opinione che le donne siano intrinsecamente deboli.
La violenza esplicita è solo la punta dell’iceberg. Il patriarcato, sconfitto ma non in rotta, riemerge in maniere più subdole.

Il prezzo dell’emancipazione femminile è stato anche l’adeguamento all’universale, che resta saldamente maschile ed eterosessuale. Lo scarto, la differenza femminile, in tutta l’ambiguità di un percorso identitario segnato da una schiavitù anche volontaria, finisce frantumata, dispersa, illeggibile, se non nel ri-adeguamento ad un ruolo di cura, sostitutivo dei servizi negati e cancellati negli anni.
Lo spazio della sperimentazione, della messa in gioco dei percorsi identitari, tanto radicati nella cultura, da parere quasi «naturali», spesso si estingue, polverizzato dalle tante cazzutissime donne in divisa, dalle manager in carriera, dalle femministe che inventano le gerarchie femminili per favorire operazioni di lobbing.
Lo scarto femminile non è iscritto nella natura ma nemmeno nella cultura, è solo una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Contro la normalizzazione delle nostre identità erranti il femminismo libertario si svincola dalla mera rivendicazione paritaria, per mettere in gioco una scommessa dalla posta molto alta.
Miliardi di percorsi individuali, che attraversano i generi, costituiscono l’unico universale che ci contenga tutt*, quello delle differenze.
Vogliamo vivere, solcare le nostre strade, con la forza di chi sta intrecciando una rete robusta, capace di combattere la violenza di chi vuole affermare la dominazione patriarcale.
Non abbiamo bisogno di tutele né di tutori, con o senza divisa. La nostra forza è nella solidarietà e nel mutuo appoggio.
Il percorso di autonomia individuale lo costruiamo nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo.
Siamo qui per spezzare l’ordine. Morale, sociale, economico.
Siamo qui per frantumare la gerarchia, per esserci, ciascun* a proprio modo.

Anarchiche contro la violenza di genere

Ci trovate ogni giovedì alle 19 presso la FAT in corso Palermo 46

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Queer/Libertine Pride a Torino

Al decimo Torino Pride – un nome che rivela quello che nasconde – i soggetti che manifestano il proprio orgoglio di essere e di esserci, c’è stata una frattura tra il Pride delle istituzioni e delle discoteche e le tante persone che attraversano la propria vita come un’avventura in cui le identità si pronunciano al singolare plurale.
L’assemblea Queer di Torino e le case occupate, in netto dissenso con la narrazione normalizzante sui “diritti”, ha lanciato un proprio appuntamento plurale e dissonante, il “Queer Pride” ed il “Libertine Pride” che hanno raccolto l’eredità dei tanti spezzoni critici che hanno attraversato il Pride.
La rottura di orizzonti fisici e simbolici si è concretizzata in un appuntamento diverso da quello del Pride istituzionale, nell’attraversamento del Pride per un pezzo, nel diverso percorso e conclusione.

Lo spezzone Queer/Libertine si è ritrovato in piazza Arbarello con due carri ed un cazzone squirtante, tanti cartelli densi di irridente critica al mondo in cui siamo forzati a vivere, ma di cui in tanti provano a forzare i limiti e le categorie.

Al passaggio dello spezzone delle istituzioni la neosindaca ha dovuto incassare la prima contestazione dopo il proprio insediamento: tra slogan e battute il pinkwashing della sindaca pentastellata ha mostrato le prime crepe. Contestato anche il suo predecessore Fassino.

Dopo l’ingresso pirata nel Pride ufficiale, in piazza Castello il corteo Queer/Libertine, ha imboccato via Po, trascinando con se tanta gente.

Secca la divaricazione di percorsi e prospettive, che si è rappresentata nella piazza torinese del 9 luglio.
Una piazza in cui lo spirito della rivolta di Stonewell si è fatto sentire forte e chiaro.

Qui puoi leggere il volantino distribuito in piazza dalla Federazione Anarchica Torinese:

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Senza famiglia, senza stato. Liber*

Il Torino Pride, grande contenitore in cui la comunità lgbtq si rappresenta da 10 anni, quest’anno registra la prima frattura.
L’assemblea Queer di Torino, in netto dissenso con la narrazione normalizzante sui “diritti”, ha lanciato un proprio appuntamento il “Queer Pride”, che nei fatti raccoglie l’eredità dei tanti spezzoni critici che hanno attraversato il Pride.
Per capirne di più potete leggere i documenti politici del Torino Pride e il Manifesto Queer Pride Torino 2016.

Di seguito il volantino della Federazione Anarchica Torinese

Senza famiglia, senza stato. Liber*

Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo con la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Principi cardine che alle origini mantenevano saldamente fuori tanta parte dell’umanità. Poveri, donne, omosessuali, bambini erano esclusi dall’accesso a questi diritti. La loro universalità, formalmente neutra, era modellata sul maschio adulto, benestante, eterosessuale. Il resto era margine. Chi non era pienamente umano non poteva certo aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà soggetta a norma, regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni. Per chi ne è escluso si tratta di privilegi, per chi vi è incasellato diviene una gabbia normativa.
Il matrimonio è stato a lungo un legame sancito dallo Stato (e dalla chiesa) che fissava la diseguaglianza e l’asservimento delle donne, sottomesse al marito alla cui tutela venivano affidate. Eterne minorenni passavano dalla potestà paterna a quella maritale.
Le lotte che hanno segnato le tante vie della libertà femminile hanno in buona parte cancellato quella servitù. Ma ne hanno pagato il prezzo. Il prezzo dell’emancipazione femminile è stato l’adeguamento all’universale, che resta saldamente maschile ed eterosessuale. Lo scarto, la differenza femminile, in tutta l’ambiguità di un percorso identitario segnato da una schiavitù anche volontaria, finisce frantumata, dispersa, illeggibile, se non nel ri-adeguamento ad un ruolo di cura, sostitutivo dei servizi negati e cancellati negli anni.
Lo spazio della sperimentazione, della messa in gioco dei percorsi identitari, tanto radicati nella cultura, da parere quasi «naturali», tende ad estinguersi, polverizzato dalle tante cazzutissime donne in divisa, dalle manager in carriera, dalle femministe che inventano le gerarchie femminili per favorire operazioni di lobbing.
Lo scarto femminile non è iscritto nella natura ma nemmeno nella cultura, è solo una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Percorsi possibili solo fuori e contro il reticolo normativo stabilito dallo Stato, che, non per caso, nega diritti e tutele alle persone che scelgono di non sposarsi.
La strada del movimento glbtq è stata ed è ancora in netta salita. Le discriminazioni, la violenza statale e culturale pongono pesanti limiti alle persone glbtq. Facile capire il desiderio di accedere alle stesse possibilità degli eterosessuali: adozioni, pensione di reversibilità, diritto alla cura del partner…
Tutto questo però passa dalle forche caudine del matrimonio, della legalizzazione dei sentimenti, delle passioni, della tenerezza. Dall’imposizione di un modello rigido di relazione, costruita sulla coppia e sui loro figli.
Chi sceglie di starne fuori, di fare altre strade, non può accedere a queste possibilità anche se eterosessuale.
Possibile che la strada della liberazione debba passare dal riconoscimento dello Stato? Non si finisce con lo scambiare la libertà con un pizzico di sicurezza in più?
Ne vale la pena?
Ben vengano per chi li desidera i matrimoni omosessuali: lasciamo a fascisti e preti le loro vergognose crociate per escludere dall’umanità una sua parte.
La lotta per l’accesso ad alcune libertà avrebbe potuto evitare di infilarsi nella cruna dell’ago imposta dallo stato, separando l’accesso a queste libertà dal matrimonio.
Se la normalizzazione delle nostre identità erranti è il prezzo per accedere ad alcuni diritti che si ottengono solo con il matrimonio, un legame sancito e regolato dallo Stato, allora questo prezzo non siamo disposti a pagarlo.
Vogliamo continuare ad attraversare le nostre vite con la leggerezza di chi si scioglie da vincoli e lacci.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.

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Omofobia. La strage di Orlando, le religioni, la paura della libertà

La strage di Orlando è probabilmente la più grave mai avvenuta negli Stati Uniti. 59 morti ed altrettanti feriti all’interno di un locale gay sono un bilancio pesante, il prezzo della reazione agli scampoli di libertà che le persone lgbtq si sono prese in lunghi anni di lotte. Un luogo dove la gente andava a divertirsi era anche punto di riferimento organizzativo per la comunità lgbtq della zona., si trasforma in mattatoio, luogo di paura, affinché nessuno possa più sentirsi al sicuro.
Ma Orlando non è Parigi o Bruxelles, il Pulse non è il Bataclan.
I commenti di queste ore lo dimostrano sin troppo bene. Alla rivendicazione dell’Isis – poco importa se reale o meno – non segue la condanna unanime. Qualche chiesa evangelica ha esaltato il massacro. Le prime pagine dei nostri quotidiani non urlavano con immagini e grandi titoli, ma mostravano un’indignazione decisamente più sobria. Il genere di indignazione che si conviene quando le vittime non sono del tutto degne. Non per tutti. Il padre dell’assassino parla in un modo ai media statunitensi, in un altro su facebook dove usa il Dari, la lingua dei pashun, per affidare a dio il compito di punire i gay.
I quotidiani hanno riportato, come se fosse un’attenuante, che Omar Mateen era stato turbato dalla vista di due ragazzi che si baciavano. Già. L’omosessualità resta un orientamento che i più preferirebbero restasse nascosto, velato da sobrietà, senza irrompere nella quotidianità, spezzandone il mai sopito perbenismo.
L’omofobia e la transfobia si alimentano del retaggio delle religioni patriarcali, i cui fasti rinverdiscono da decenni. L’irrompere della diversità che orgogliosamente si mostra, si ribella a leggi, divieti, violenze ha incrinato l’illusione identitaria che segna i corpi e le relazioni, modellandoli, spesso a forza, entro schemi rigidi, ma rassicuranti.
L’intersezione tra omofobia e razzismo produce effetti paradossali, come il Paperone poco compassionevole che si giocherà il prossimo 8 novembre la poltrona di presidente degli Stati Uniti, che difende i gay dagli immigrati che provengono da paesi prevalentemente musulmani. E’ lo stesso uomo che ha più volte fatto dichiarazioni omofobe e sessiste, lo stesso che si è espresso contro gli immigrati messicani, centro e sudamericani, come tanti dei ragazzi ammazzati al Pulse.
La strage di Orlando è in se un fatto atroce, ma semplice: un uomo armato sino ai denti fa irruzione in un locale cercando di ammazzare più omosessuali possibile. Omofobo e islamico, ma avrebbe potuto essere omofobo ed israelita, omofobo e cristiano, omofobo e nazista. L’aggettivo, nella narrazione dei media e nei commenti dei politici assume maggiore importanza del nome cui si riferisce. Un nome che rimette al centro il fatto che l’identità di genere, il suo attraversamento, il suo rimodellarsi su percorsi individuali, come la scelta esplicita di mostrare un orientamento sessuale diverso da quello preteso dall’eteronormatività dominante, resti una grossa pietra di inciampo nell’immaginario sociale prevalente anche nelle nostre società.
La strage di Orlando ci dice molto della violenza reattiva che la libertà lgbtq suscita in chi, in nome di dio o della “natura”, vorrebbe cancellarla. La narrazione della strage di Orlando ci dice molto di quanto lunga sia la strada che conduce ad una libertà che non ha confini di genere o di orientamento sessuale, perché l’attraversamento, la sperimentazione, la molteplicità di prospettive sono diventate del tutto “normali”.
Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Maurizio del circolo lgbtq “Maurice” di Torino
La facilità con la quale negli Stati Uniti è possibile acquistare un’arma è uno dei temi che anche questa volta hanno caratterizzato i commenti sulla strage di Orlando, compiuta da una guardia privata che lavorava in una prigione minorile della Florida. Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Robertino, un compagno che da molti anni si occupa di questi temi.

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Pride di Istanbul: cariche, gas e cannoni ad acqua

La polizia turca ha caricato violentemente il corteo del Gay Pride.

Gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma contro i manifestanti del Gay Pride ad Istanbul. La marcia, in programma per le 17 di sabato 28 febbraio, non ha fatto in tempo ad iniziare. La polizia in assetto antisommossa ha immediatamente bloccato le entrate di Istiklal, via icona della Istanbul turistica, aggredendo i manifestati dalle vie laterali. Le persone si sono rifugiate dentro negozi e bar, cercando di sfuggire alla repressione della polizia. Diverse ambulanze hanno portato via alcuni feriti. Quella di sabato doveva essere la tredicesima edizione della marcia dell’orgoglio Lgbtq in Turchia.
I manifestanti si erano dati appuntamento in piazza Taksim, storico luogo delle manifestazioni vietate e duramente represse in occasione del Primo Maggio e teatro dell’opposizione popolare al governo Erdogan ai tempi di Gezi Park. L’attacco poliziesco è stato giustificato con pretesti risibili, come la presenza nel corteo di “terroristi”, dai quali occorreva difendere i manifestanti a suon di gas e manganellate.

La Turchia non è un paese ufficialmente omofobo: non ci sono leggi che perseguitino le persone che eccedono la norma etrosessuale. Tuttavia la Turchia è al primo posto in Europa per attacchi anche mortali contro persone glibtq. Da quando al governo c’é il partito di Erdogan situazione è ulteriormente peggiorata.

La prima edizione del Pride è stata nel 2003: quell’anno la partecipazione fu molto bassa, ma pian piano il numero dei partecipanti è aumentato: nel 2011 10.000 persone hanno aderito all’iniziativa. Dopo Gezi Park, dove la presenza di attivisti lgbtq fu molto ampia, al Pride del 2013 partecipano 100.000 persone.

La festa si trasforma in guerriglia: molti manifestanti si rifugiano nei bar e nelle terrazze, da dove provocano la polizia gridando “scappa, scappa Erdogan, arrivano i gay!” oppure “basta, ne abbiamo abbastanza!” ma anche “noi siamo gay, noi esistiamo!” per finire con “Tutti insieme contro il fascismo!”

Gli attacchi contro il Gay Pride vanno messi nel conto di un governo che ha perso la maggioranza assoluta in parlamento dopo le ultime elezioni e si trova a dover dimostrare in primo luogo a se stesso di avere ancora in mano il bastone del comando.

Non solo.

La repressione di un corteo GLBTQ in pieno Ramadan è anche un messaggio rassicurante per l’elettorato islamista dell’AKP, la dimostrazione che il partito intende continuare a colpire duramente gli oppositori al progetto di una Turchia tradizionalista ed autoritaria.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Murat Cinar, giornalista indipendente e attento osservatore delle dinamiche che attraversano la società turca.

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Pride. A Torino e a Palermo

Oggi a Torino, Milano, Palermo c’é stato il Pride.
Vi proponiamo due testi, uno diffuso al Pride di Torino, l’altro a quello di Palermo.

Spazi privati, spazi di regime
Il Pride 2015 vogliamo godercelo, con i suoi colori, la sua allegria, la voglia di mostrare l’orgoglio Lgbqti e difendere, più in generale, i diritti di tutte e tutti.
Ce lo vogliamo godere nel modo che ci riesce meglio, e cioè riflettendo sugli spunti politici di questo appuntamento e sul contesto in cui si svolge.
Ribadiamo la nostra solidarietà a Vincenzo Rao​, condannato da un tribunale perché ha osato criticare le posizioni conservatrici e maschiliste di un magistrato. La sua vicenda conferma l’irriducibile incompatibilità tra libertà e potere: il recinto in cui vengono confinati i diritti – compreso quello di espressione – resta sempre un recinto, anche se ammantato di democrazia.
Adesso il recinto della legalità si fa sempre più stretto e violento. Ai problemi di sempre si aggiunge l’ipocrisia di chi governa Palermo per renderla «normale». Retate poliziesche nei quartieri popolari; ordinanze contro gli ambulanti (per lo più immigrati) per tutelare il presunto decoro del salotto buono della città; distruzione del verde pubblico; privatizzazione degli spazi e assalto della borghesia al centro storico.
Il sindaco Orlando stringe volentieri la mano ai curdi che lottano per la libertà, agli omosessuali che lottano per i diritti, ai palestinesi che lottano per la sopravvivenza; parla di spazi pubblici e spazi di rivolta; sostiene persino l’abolizione delle frontiere e del permesso di soggiorno sventolando la “Carta di Palermo”.
Nel frattempo, però, fa la guerra ai poveri e ai migranti, mantenendo inalterati gli equilibri (fondati sulla disuguaglianza) che da sempre reggono le sorti di questa città.
Il sindaco Orlando ama ripetere che Palermo è sempre stata una città multiculturale dove ognuno è una tessera di un mosaico.
Vero – aggiungiamo noi: purché ognuno resti al suo posto.
Libert’Aria

°°°°°
Fuori i preti dalle mutande!

Per due mesi e mezzo Torino è stata ostaggio della chiesa cattolica. La città è stata militarizzata, i giardini reali e piazza Castello sono stati requisiti per i pellegrini. La kermesse clericale è stata occasione per infittire i dispositivi disciplinari, mettendo sotto sorveglianza un’intera città.
Sebbene le favole delle religioni prestino il fianco alla satira ed al guizzo salace, purtroppo la chiesa cattolica non fa affatto ridere.
Tutti i governi degli ultimi 20 anni si sono inginocchiati al soglio di Pietro, ed hanno garantito il finanziamento della chiesa cattolica con l’otto per mille, il pagamento degli stipendi degli insegnanti di religione cattolica nelle scuole di ogni ordine e grado, soldi per ospedali e scuole confessionali, sostegno all’edilizia vaticana.
La pervasività della chiesa nelle vite delle persone va ben al dì là delle pecore felici con il loro pastore, per investire, tramite tante leggi dello Stato, la vita di tutti.
La straordinaria plasticità culturale che ha consentito ad una monarchia assoluta di attraversare duemila anni di potere e più di duecento anni di secolarizzazione, oggi è mirabilmente rappresentata dal gesuita venuto dall’Argentina a dare una ripulita all’immagine della chiesa, offuscata da infinite vicende di pedofilia, per non dire degli arresti eccellenti di alti prelati con le mani in pasta nelle stanze della finanza vaticana.
Dopo le dimissioni di Ratzinger, Bergoglio era l’uomo giusto nel momento giusto.
Occorreva un cambiamento di stile, per garantire che tutto potesse filare come sempre.
Bergoglio l’ha detto in modo chiaro che la costruzione del gender, la culturalità dei generi, l’attraversamento di identità sessuali, per non dire del radicalismo queer sono scelte ed approcci in contrasto con la dottrina. Ha tuttavia compreso che indicare la via della redenzione attraverso il perdono, poteva essere un buon modo per sedurre e riportare nel recinto le pecore nere e smarrite.
La chiesa di Francesco è misogina, omofobica e transfobica come quella di Benedetto XVI, ma nasconde la spada sotto la tonaca.
Una spada affilatissima nel cercare di spezzare la schiena a chi sceglie la libertà. Libertà come scommessa per ognuno e per l’intera società.
Chi crede che la chiesa di Francesco e quella delle sentinelle in piedi o del Family day siano diverse cade in in pericoloso errore prospettico. La Chiesa si adatta alle latitudini ed ai governi per restare in sella ed imporre la sottomissione a dio.
Bergoglio si è fatto le ossa negli anni della dittatura di Videla, quando era capo dei gesuiti argentini. Il suo ruolo è a dir poco ambiguo in una chiesa pesantemente collusa con i militari, che hanno torturato ed ucciso, facendone sparire i cadaveri, oltre trentamila uomini e donne, colpevoli di lottare per la libertà e la giustizia sociale.
Bergoglio chiede perdono per i roghi e le torture inflitte ai Valdesi ma si guarda bene dal chiedere perdono per il sostegno della chiesa cattolica ai criminali in divisa argentini.
Chi sa? Domani chiederà perdono per i roghi degli omosessuali Ma quale sarà il prezzo? Castità e senso di colpa?
Bergoglio è il cavallo di Troia che la chiesa cattolica usa per espugnare e devastare quel che resta della cultura laica e per chiudere i conti con chi aspira a relazioni sociali tra liberi ed eguali. Lo ha detto in modo chiaro: per evitare il conflitto sociale servono ammortizzatori.
Un tempo sulle ceneri degli omosessuali arsi vivi venivano sparsi odorosi semi di finocchio.
Semi che sono germinati in quella cenere ed oggi lanciano la propria sfida in ogni angolo del pianeta.
Sarebbe tuttavia un vero “peccato” che la norma eterosessuale finisse con l’imporre il proprio modello anche tra chi ha sviluppato una critica e una pratica radicale, dove l’identità diviene percorso e scommessa per tutti e per tutte. Fuori da ogni norma, fuori da ogni imposizione.
Non ci servono famiglie e lacci coniugali, né in chiesa né in comune.Liberiamoci dallo Stato e dalla Chiesa!
Federazione Anarchica Torinese

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