Categoria: immigrazione

Il seme dell’odio

Hannah Arendt, osservatrice al processo ad Eichmann, il “contabile dello sterminio”, che si atteggiava a grigio burocrate, scrisse di “banalità del male”. Probabilmente, al di là delle polemiche che suscitò all’epoca la sua rappresentazione di uno dei responsabili dello sterminio di milioni di persone, Arendt non poteva sospettare la fortuna che avrebbe avuto nei decenni successivi la sua amara constatazione su quanto conformista, insignificante, convenzionale, incolore fosse il male.
Oggi sappiamo che Eichmann era ben più che un mero “contabile”, bravo nel rendere più veloci, semplici, efficaci le modalità con le quali a ritmi da catena di montaggio, si raccoglievano, selezionavano, spogliavano, uccidevano e bruciavano i corpi di milioni di persone eliminate come polli allevati in batteria. Con la stessa, quieta, indifferenza. Resta il fatto che tanti furono gli esecutori materiali dello sterminio, come tanti vi collaborarono mettendo a frutto le proprie competenze tecniche, giuridiche, mediche, amministrative. Chi non collaborò attivamente sapeva ed approvava. La grandissima parte di queste persone non era né sadica né incline alla violenza.
Tanta cinematografia statunitense degli anni successivi ha confezionato un’immagine della dittatura nazista deformata dalle esigenze di propaganda del momento. La Germania Ovest era un’alleata preziosa durante la guerra fredda con l’Unione Sovietica. Il cinema costruì la narrazione, falsa ma potente, di una Germania schiacciata dal tallone dell’elite hitleriana e dalle SS, dove il popolo e l’esercito erano ignari ostaggi di una macchina feroce.
Sappiamo che non è così. Sappiamo che la “soluzione finale” era narrata nei cinegiornali, sappiamo che la deportazione e l’uccisione degli ebrei europei era approvata e plaudita, sappiamo che tutto venne codificato in un solido apparato legislativo.
Sappiamo che il Terzo Reich godeva dell’appoggio di un’ampia maggioranza della popolazione, perché era quel che era. Punto.
Altrimenti non vi sarebbe stata Auschwitz.
I 12 anni di nazismo venivano ridotti ad una parentesi di follia. Irripetibile.
Nel 1963 Arendt, nello specchio di Eichmann vide riflessa la normalità dello sterminio. Una banale procedura. Così banale che potrebbe ripetersi.
Non allo stesso modo, ma con la stessa ineluttabile semplicità. Semplice come la vita di ogni giorno, come la quotidianità che si nutre di ripetizioni, di piccoli rituali, di procedure consolidate.
Capita di chiedersi se non rischiamo di trovarci presto di fronte al bivio nel quale si separano complici e vittime, perché il tempo delle nuance, delle sfumature, delle gradazioni di grigio sta finendo.
Siamo abituati a pensare che il male sia estraneo alla vita quotidiana, estraneo alla normalità. Siamo convinti che il male non sia mai incolore. Persino quando lo è fingiamo che non lo sia, fingiamo che rappresenti l’eccezione, mai la regola.
La guerra, che pure è divenuta una costante di questi nostri anni, con truppe italiane che combattono su tanti fronti, viene raccontata come “male necessario”, o finanche come “male minore”. L’articolarsi della narrazione bellica intorno ad ossimori come la guerra umanitaria o edulcorazioni come l’operazione di polizia internazionale dimostra la volontà di nascondere la verità sui massacri delle truppe italiane.
Tutti sanno che la polizia picchia e tortura in modo ben più sistematico di quanto non rivelino vicende che solo la tenacia dei parenti delle vittime rende noti. Finché può lo Stato e le sue guardie armate negano l’evidenza, negano che Cucchi, Uva, Aldrovandi e tanti altri siano stati massacrati intenzionalmente. Negano perché temono lo sdegno che certi delitti potrebbero suscitare.
Negano e nascondono perché sono convinti di non avere il sostegno di una maggioranza significativa.
Sino ad oggi. Un giorno di questi potrebbe accadere che smettano di coprire con un tappeto il sangue per rivendicare la violenza sistematica di polizia, carabinieri, militari.
L’attuale ministro dell’interno, Matteo Salvini, ha approvato l’operato delle forze dell’ordine nel caso di Stefano Cucchi. Se il ministro di polizia sostiene che le botte a Cucchi sono giustificate, non sono ancora cambiate le leggi, ma potrebbero essersi modificati i rapporti di forza. Salvini ritiene di avere l’appoggio popolare: numerosi indizi inducono a ritenere che le sue convinzioni non siano prive di fondamento.
Questa lunga estate sembra scivolare via senza troppi contraccolpi, ma il sottile senso di inquietudine che attraversa le piazze dove, sin troppo timidamente, qualcuno prova a mettersi di mezzo, allude alla delicatezza del momento. La lunga storia della guerra ai migranti è come una pietra che rimbalzi a lungo quieta lungo un declivio, facendosi quasi frana, senza tuttavia mai correre all’impazzata. Pare che quest’estate di colpo il pendio sia divenuto più scosceso e la corsa stia accelerando. Non è questione di numeri ma di sostanza.
Le statistiche disegnano grafici inequivocabili: dallo scorso anno gli sbarchi sono nettamente diminuiti. Nell’estate del 2017 il governo Gentiloni inaugurò la stagione di lotta alle ONG impegnate in operazioni di serch and rescue nel Mediterraneo e strinse accordi con le milizie di Zawija e Sabratha, affinché bloccassero il traffico di migranti sotto il loro controllo.
Quest’anno il terreno era già stato sgomberato e reso disponibile a nuove operazioni di guerra non dichiarata. Il nuovo ministro ha solo completato l’opera, inserendo un tassello che né il suo predecessore Minniti, né, a suo tempo il suo camerata Maroni avevano osato portare sino in fondo.
Lo scontro esplicito con l’Europa è il perno su cui ha girato l’operato di Salvini e del ministro dei trasporti, il pentastellato Toninelli.
Impedire lo sbarco di centinaia di persone ripescate in mare da un’unità della Marina Militare Italiana va al di là della guerra alle ONG, criminalizzate come complici dei trafficanti. Negli ultimi mesi di governo già Minniti aveva chiuso i porti ad alcune ONG e, quando diede il via libera agli sbarchi, scattarono inchieste, blocchi delle imbarcazioni, accuse gravissime agli equipaggi.
Nel 2011, dopo un lunghissimo braccio di ferro con l’Europa, un altro ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni, si arrese e, in una sola notte, fece trasportare da Lampedusa alla Sicilia e, di lì, nei campi tenda settemila profughi della guerra per la Libia.
L’attuale governo è in sostanziale continuità con quelli precedenti di centro-sinistra e di centro-destra o siamo di fronte ad una frattura, ad una novità radicale, ad un salto di qualità?
Il dilemma, sebbene appaia autentico, nel dibattito politico estivo assume il sapore agre dell’interrogativo retorico. Rappresentare il governo Salvini-Di Maio nel segno della discontinuità radicale sui temi dell’immigrazione è operazione utile sia a destra che a sinistra del quadro istituzionale. Salvini, in continua campagna promozionale, vuole dimostrare di essere riuscito dove tutti gli altri hanno miseramente fallito, la disastrata opposizione Dem spera di rifarsi il trucco con l’antifascismo e l’antirazzismo.
Entrambi hanno ben poca lana da tessere, muovendosi sul terreno della propaganda.
Per i nazionalsocialisti non sarebbe stato facile promuovere lo sterminio degli ebrei se sin dai tempi della Seconda Internazionale i socialdemocratici non avessero soffiato sul fuoco dell’antisemitismo, equiparando l’ebreo al capitalista. Il che non implica negare la frattura ed l’imponente salto di qualità nazista.

La legislazione sull’immigrazione nel nostro paese ha delineato una rottura dell’ordine liberale, configurandosi come “diritto penale del nemico”, secondo la definizione coniata dal giurista tedesco Jacobs nel 1985, e articolandosi in termini che definirei di “diritto amministrativo del nemico”. Il mancato accesso ai diritti di cittadinanza finisce con il declinarsi in negazione dei diritti umani.
I governi di centro-sinistra, pur avendo inaugurato questa stagione nel lontano 1998 con la legge Turco-Napolitano che istituì la detenzione amministrativa nel nostro paese, provano a mantenere intatta la patina umanitaria. Una patina sottile. Tragicamente ridicola, ma simbolicamente importante. Per quanto abnormi siano la detenzione e la deportazione, per quanto sia criminale la blindatura delle frontiere, che uccidono chi prova ad attraversarle, per quanto evidenti siano le responsabilità di tutti i governi, le cerimonie del cordoglio mettono in scena la finzione che le stragi siano “disgrazie”, “incidenti” da imputare al mare o ai trafficanti.
Il nuovo governo ha annunciato un pacchetto sicurezza, che, pur annunciando un prolungamento della detenzione amministrativa non rappresenta una significativa rottura con il recente passato.
La novità è altrove. La sottile patina umanitaria, etichettata come “buonismo” è stata stracciata. La gente in viaggio viene etichettata come criminale, portatrice di malattie, pericolosa. Nemica.
Tutti. Sempre. Uomini, donne, bambini. Quest’estate non abbiamo assistito alla messa in scena del lutto istituzionale. Le barche affondate mentre le ONG assistevano impotenti, l’incriminazione di chi si è ribellato al ritorno in Libia sono state ragione di orgoglio.
Salvini è indagato per sequestro di persona, mancata assistenza perché non si è neppure preoccupato di adeguare le norme alle pratiche da lui imposte. Può così, pur essendo al potere, giocare il ruolo del perseguitato. Un gioco che i suoi alleati a cinque stelle hanno fatto con abilità e profitto per anni. Lungo questo declivio il ruzzolar di pietre può divenire frana. Il governo del cambiamento potrebbe chiedere ed ottenere più potere per assolvere il mandato di proteggere la comunità – gli italiani dimentichi del Po e dei riti celti – dal moloch della finanza, dall’immigrazione che mira a spezzare e cancellare l’identità, dalla libertà che nega il nucleo etico familiare.
Tra il 9 e il 12 dicembre del 2013 a Torino migliaia di persone si riversarono in strada imbracciando tricolori, decise a bloccare tutto perché deluse dal cambiamento che non arrivava, spaventate per il futuro che non c’era più. Bloccarono le strade e abbracciarono i poliziotti. Sui loro volantini si auspicava un governo militare, una dittatura. Finì presto. Tutti, delusi tornarono a casa, i media affondarono nel ridicolo quell’avventura e nessuno ci pensò più.
Oggi quella gente ha trovato la propria rappresentanza, un governo che ha promesso di realizzarne il programma.
Mentre scrivo le agenzie hanno appena battuto la notizia di un profugo sedicenne aggredito e ferito a Raffadali. Chi lo ha colpito gli ha gridato “vattene a casa tua”. È l’ultima di tante vicende tutte uguali.
Provate ad immaginare. Un uomo dal balcone vede una donna rom con una neonata in braccio, entra in casa, prende il fucile a pallini e spara alla bambina.
Un altro tizio vede un lavoratore sull’impalcatura. Prende il fucile e lo ferisce. L’operaio è di origine africana. Il ministro dell’Interno si mostra comprensivo con i fucilieri della ringhiera.
Impossibile? È successo quest’estate nel Belpaese. Ci sono case dove il rancore cova da tanto tempo, distillandosi goccia a goccia, corrodendo ogni senso di legame umano. Il seme dell’odio sta producendo i suoi frutti avvelenati.
Nessuno dica che non sapeva, nessuno dica che non aveva capito.

Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista

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L’altro Pride. Contro frontiere e decoro

Giugno è il mese del Pride. La giornata dell’orgoglio delle persone omosessuali, transessuali, queer, bisex, intersex nasce dopo la rivolta di 49 anni fa a a New York. Stanch* di violenze, irrisioni, soprusi della polizia quelli dello Stonewall alzarono la testa e attaccarono la polizia. Il primo Pride fu un riot.

A Torino il Pride è un’imponente sfilata attraversata da decine di migliaia di persone. Ma Stonewall è lontana, lontanissima da Torino.
Il Pride anno dopo anno è diventato un ibrido tra un carnevale, una passerella istituzionale e uno evento commerciale.
C’è sempre meno spazio per le voci critiche, per un approccio intersezionale, per chi vuole che libertà e diritti siano per tutti, anche per gli esclusi dal grande banchetto, per i migranti, i poveri, i rom, i senza casa.
Lo slogan di quest’anno era “Nessun dorma”, una maniera appena accennata di alludere alle componenti omofobe, maschiliste, transfobiche del governo giallo-verde. Senza esagerare, senza permettersi critiche al governo della città e a quello della Regione. In punta di piedi, per non disturbare troppo.
Non poteva essere altrimenti, perché le istituzioni erano in testa al corteo.
La sfilata del 16 giugno è stata organizzata dal Coordinamento Torino Pride con il patrocinio di Comune di Torino, Regione Piemonte, Consiglio regionale del Piemonte, Torino Metropolitana, Provincia di Cuneo, Provincia di Novara. Tra gli sponsor la Coop, la Gtt, Il corpo di polizia municipale della città di Torino.

La sfilata, cui ogni carro entrava solo pagando, è stata tenuta sotto controllo dalla polizia di Stato e dal servizio d’ordine di due compagnie private, i City Angels, noti per la pulizia etnica a San Salvario e l’Hydra Service, i picchiatori prezzolati al servizio del PD, tristemente noti per i loro interventi muscolari contro ogni forma di opposizione sociale. Noi li ricordiamo per il camion dello spezzone anarchico e antimilitarista spaccato il primo maggio 2011, ma i loro bastoni si sono esibiti in molte altre occasioni.

Quest’anno al Torino Pride gli attivist* di “Nessun* Norma!”, il Pride contro frontiere e decoro del 28 giugno hanno distribuito volantini, che sono immediatamente entrati nel mirino della polizia, che li ha circondati pretendendo di sequestrarli, per le immagini satiriche stampate sul retro. Immagini considerate offensive, perché non è lecito burlare ministri e sindaci. Specie se si tratta di Salvini, Fontana e Appendino. Diverse compagn* sono state identificate e minacciate dalla digos. Alla fine gli uomini e le donne della polizia politica si sono accontentat* di sequestrare solo una parte del materiale.
Ma non è finita lì. Più tardi è stato aperto uno striscione in via Po ed acceso qualche fumogeno per attirare l’attenzione. Sullo striscione campeggiava la scritta “Il Pride è rivolta. Contro frontiere, decoro, istituzionalizzazione. Nessun Norma” Lo striscione è stato due volte rimosso dal servizio d’ordine del Pride. Un fumogeno è stato lanciato addosso alle persone.

La repressione al Pride istituzionale ha dato una bella spruzzata di pepe a chi stava organizzando il corteo indecoroso del 28 giugno.

In maggio individui e gruppi diversi, che si erano intrecciati nelle lotte contro le frontiere, gli sgomberi, la repressione hanno cominciato ad incontrarsi per costruire un altro Pride. Una scommessa che ha visto accanto Ah Squeerto e Studenti Indipendenti, Manituana e Federazione Anarchica, Breacktheborder e l’infoshock del Gabrio.
Una scommessa difficile, che si è dovuta scontrare con l’indifferenza e l’ostilità di chi, anche nei movimenti di opposizione sociale, nonostante tutto, preferiva affacciarsi al Pride istituzionale. Non Una di Meno, rete “transfemminista ed intersezionale”, avrebbe potuto portare un contributo importante all’iniziativa, invece si è divisa senza raggiungere una sintesi, ma, nei fatti partecipando attivamente, sia pure in tono minore, solo al Pride istituzionale dove sono stati distribuiti volantini, fatti interventi e portate a spasso le matrioske.
Una brutta scivolata della Rete torinese, preoccupante in un clima politico e culturale sempre più difficile.

Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.
E non può che andare peggio. Se Appendino riuscirà ad aggiudicarsi il carrozzone olimpico del 2026, il restyling della città costerà caro a chi non corrisponde ai criteri di decoro urbano.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria, cedendo alle tentazioni populiste e nazionaliste, rischiando di scivolare sul declivio della guerra tra poveri.

Il governo della città è stato per decenni nelle mani del Partito Democratico.
Da due anni governano i Cinque Stelle. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche e dai padroni.
Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. Appendino fa la guerra ai rom, sguinzaglia i vigili urbani a caccia di mendicanti, lavavetri, spacciatori di accendini, senza casa.

Chi aveva creduto alla retorica della democrazia penta stellata sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. I posti occupati che non hanno accettato la normalizzazione a Cinque Stelle sono stati sgomberati. La baraccopoli rom di corso Tazzoli è stata demolita per la “sicurezza” degli abitanti gettati in strada.
La retorica della “cittadinanza” partecipativa sceglie chi includere e chi escludere, nel gioco feroce delle poltrone, del potere, delle alleanze.
Appendino prepara la vetrina olimpica, cementifica la città, si congratula con la polizia che arresta gli anarchici… sfila in testa al Pride e benedice le famiglie arcobaleno.

Il 28 giugno l’altro Pride ha attraversato il centro cittadino, nonostante il nuovo questore avesse imposto divieti di sapore squisitamente politico. Piazza Palazzo di città, dove ha sede il comune, è stata chiusa e blindata da Digos e poliziotti in assetto antisommossa. Un blocco risibile di fronte alla folla queer che li fronteggiava, irrideva, mimava. Il segno che i timori per “l’ordine pubblico” erano solo paura di corpi ed identità erranti indisponibili a farsi rinchiudere in una gabbia dorata, dove il prezzo della “libertà” è l’accettazione delle linee di cesura che attraversano il nostro spazio sociale.
Cartelli con le “coppie di fatto” danno il segno di una critica intollerabile per la questura e la prefettura, la lunga mano del governo sui territori.
Chiara Appendino e Lorenzo Fontana, la sindaca gay friendly ed il ministro della famiglia omofobo e maschilista. Merkel ed Erdogan, Di Maio e Salvini, le coppie oscene del teatro politico.

Il corteo, cresciuto lungo il percorso, ha sostato in piazza Castello, percorso via Po e via Accademia tra musica, balli, corpi liberi e interventi. In corso Vittorio è dilagato su tutti e quattro i viali sino alla blindatissima stazione di Porta Nuova, vera frontiera invisibile nel cuore di Torino. Ogni giorno, da mesi, i binari da dove partono i treni diretti in Val Susa sono sorvegliati da pattuglie interforze di poliziotti e militari, che selezionano i passeggeri. Se sei nero, anche se hai un documento in tasca ed un biglietto, ti rimandano indietro. La frontiera con la Francia erige i suoi muri nel cuore di Torino.
Le frontiere sono linee su una mappa. Sottili righe scure fatte di nulla che uomini armati in divisa rendono vere.
Le frontiere dividono e uccidono.
Nel Mediterraneo e in montagna. Nei ghetti dei raccoglitori di frutta e pomodori, nei cantieri dove la sicurezza è un lusso.
Nei tanti interventi durante il corteo abbiamo ricordato Blessing e Mamadou, uccisi dalle frontiere chiuse al Montgenevre, Soumaila Sacko ammazzato dalla lupara al servizio dei padroni.
Le frontiere sono in mezzo a noi. Sono le leggi sul decoro che cacciano i poveri dai luoghi pubblici, sono le leggi sulla proprietà che negano una casa a chi non ce l’ha.
Sono le frontiere tra i sessi, che piegano i corpi e le soggettività erranti alle regole della famiglia, nucleo “etico” che ingabbia le relazioni, fissa i ruoli, nega la possibilità di percorsi individuali fuori dal reticolo patriarcale, statale, religioso.
Il corteo si è concluso con una festa al Valentino benefit per il rifugio autogestito Chez Jesus di Claviere.

Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo, hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Questi principi tengono saldamente fuori tanta parte dell’umanità. Poveri, donne, omosessuali, transessuali, bambini, stranieri erano/sono esclusi dall’accesso a questi diritti. La loro universalità, formalmente neutra, è modellata sul maschio adulto, benestante, bianco, eterosessuale. Il resto è margine. Chi non è pienamente umano non può essere “cittadino”, soggetto di diritto.
Chi non è pienamente umano non può aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni. Per chi ne è escluso si tratta di privilegi, per chi vi è inscritto diviene una gabbia normativa.
Come il matrimonio. Un legame sancito dallo Stato (e dalla chiesa) che fissava la diseguaglianza e l’asservimento delle donne, sottomesse al marito alla cui tutela venivano affidate. Eterne minorenni passavano dalla potestà paterna a quella maritale.
Le lotte che hanno segnato le tante vie della libertà femminile hanno in parte cancellato quella servitù. Ma ne hanno pagato il prezzo. Il prezzo dell’emancipazione femminile è l’adeguamento all’universale, che resta saldamente maschile, bianco, benestante ed eterosessuale.
Lo spazio della sperimentazione, della messa in gioco dei percorsi identitari, tanto radicati nella cultura da sembrare «naturali», tende ad estinguersi, polverizzato dalle cazzutissime donne in divisa, dalle manager in carriera, dal femminismo della differenza che inventa le gerarchie femminili per favorire manovre di lobbing. Tutto deve diventare “normale”, vendibile, controllabile.
Le differenze tra le persone non sono iscritte nella natura o nella cultura, ma offrono una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Percorsi possibili solo fuori e contro il reticolo normativo stabilito dallo Stato, che, non per caso, nega diritti e tutele alle persone che scelgono di non sposarsi.
La strada del movimento lgbtqi è stata ed è ancora in netta salita. Fascisti e preti continuano le loro crociate per escludere dall’umanità una sua parte. Le discriminazioni, la violenza statale e culturale sono molto forti.
Chi vorrebbe le stesse possibilità degli eterosessuali – adozioni, pensione di reversibilità, diritto alla cura del partner – deve adeguarsi ad un modello rigido di relazione costruita sulla coppia e sui loro figli, alla legalizzazione dei sentimenti, delle passioni, della tenerezza.
Chi sceglie di starne fuori, di fare altre strade, non può avere questi privilegi anche se eterosessuale.
La normalizzazione delle nostre identità erranti è il prezzo per accedere ad alcune libertà che si ottengono solo con il matrimonio, un legame sancito e regolato dallo Stato. È un prezzo che tanti non sono dispost* a pagare.
Abbiamo attraversato la città con la leggerezza di chi si scioglie da vincoli e lacci. Con la stessa leggerezza attraversiamo le nostre vite.
Senza frontiere, che separino i sommersi dai salvati, i cittadini e gli stranieri.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.

Maria Matteo

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Aquarius. La stretta finale sulle ONG

La nave Aquarius della ONG SOS Mediterranee con a bordo 629 naufraghi provenienti dalla Libia, dopo due giorni di stallo in acque internazionali, trasborderà parte dei migranti su unità militari italiane, per dirigersi verso il porto spagnolo di Valencia.

Sembrava un’operazione come tante altre. L’Aquarius si è mossa in base alle indicazioni ricevute dal coordinamento della guardia costiera di Roma. Dopo aver salvato i passeggeri di due gommoni, uno già affondato, l’altro in grave difficoltà, ha accolto a bordo altre persone ripescate da unità della marina italiana.
In un primo tempo la guardia costiera aveva indicato Messina come approdo sicuro. L’Aquarius era in viaggio verso quel porto, quando è arrivato lo stop del governo.

La chiusura dei porti italiani è stata decisa dal responsabile della guardia costiera, il ministro dei trasporti e infrastrutture, Danilo Toninelli.
La situazione di stallo seguita alla mossa di Toninelli e Salvini si è sbloccata grazie alla decisione presa dal nuovo governo spagnolo, guidato dal socialista Sanchez.

La partita apertasi lo scorso anno con l’attacco del ministro dell’Interno Minniti alle ONG, che ha portato al sequestro di navi e all’incriminazione dei membri dell’equipaggio, da Jugend Rettet a Proactiva Open Arms, è tutt’altro che chiusa. I porti sono interdetti solo alle ONG. La nave della marina militare Diciotti, con a bordo 800 persone, approderà nelle prossime ore a Catania.

Salvini aveva disertato la riunione dei ministri degli Interni dell’Unione Europea, che la scorsa settimana si sono riuniti per discutere la bozza di riforma del regolamento di Dublino voluta soprattutto da Francia, Germania e paesi nordici ma fortemente contrastata dai paesi dell’est del cosiddetto gruppo di Visegrad, capeggiato dall’Ungheria di Orban.
Salvini, che si è detto molto vicino alle posizioni di chiusura totale delle frontiere caldeggiata e praticata dal gruppo di Visegrad, sulla riforma del regolamento di Dublino è su posizioni opposte. In perfetta continuità con il governo Gentiloni, che, con toni diversi, ma uguale sostanza, aveva contestato la bozza di riforma, perché lascia intatto il principio dell’accoglienza nel primo paese di approdo. Solo dopo 8 anni, se ha ottenuto lo status di rifugiat*, chi è arrivato in uno dei paesi della sponda sud dell’Europa, potrebbe spostarsi in uno degli altri paesi europei.

Il governo Conte sa bene che la partita europea ha tempi lunghi e possibilità limitate, preferisce quindi sferrare l’attacco finale alle ONG che operano nel Mediterraneo. Un colpo ad effetto per accontentare il proprio elettorato. Una partita nella quale oggi Salvini sostiene di aver segnato un punto, fingendo di aver obbligato un altro paese europeo ad aprire i propri porti. Un gioco che probabilmente durerà poco.
Innegabile l’abilità con cui il governo ha condotto l’operazione: grande durezza verbale, ma estrema prudenza.
Il richiamo alla solidarietà europea mette a nudo uno dei nodi irrisolti dal 2011. Allora Maroni giocò la carta del ricatto, concentrando migliaia di profughi della guerra per la Libia a Lampedusa in condizioni terribili in un clima di tensione crescente, ma dovette arrendersi di fronte ai secchi dinieghi dell’UE.
In una notte settemila profughi furono imbarcati e trasferiti in campi tende colabrodo, da dove si riversarono verso le frontiere, che, per un po’ furono molto permeabili.
I tentativi di instaurare un principio di solidarietà di fronte all’esodo dalla Siria devastata dalla guerra civile, si infransero contro i muri che sorsero sempre più fitti, in un’Europa dove rispuntarono i confini.
Oggi il debole tentativo di riforma del trattato di Dublino si infrange contro quei muri.

Ora Salvini prova a giocare di anticipo convocando a Roma una conferenza sulla Libia, cui ha invitato la Francia, la Tunisia, Al Sarraj, “presidente libico” con limitato controllo sulla Tripolitania e Haftar, il militare vicino ad Egitto e Russia, padrone della Cirenaica.
Lo scopo dell’incontro, che precederebbe di pochi giorni il vertice europeo su Dublino 3, è chiudere la rotta libica, pagando per il servizio. A fine mese il ministro dell’Interno volerebbe in Libia per distribuire le mazzette necessarie ad oliare chi controlla le rotte dei migranti, scafisti e gestori dei lager.
Salvini ricalca le orme del suo predecessore, che si recò in Libia a pochi giorni dal proprio insediamento, promise navi, addestratori e soldi ad Al Sarraj. In agosto pagò direttamente le milizie che controllano il traffico degli esseri umani.

Secondo indiscrezioni pubblicate da El Pais ma non confermate dalla Commissione, il governo italiano avrebbe intenzione di bloccare il finanziamento di 3 miliardi di euro che l’Unione europea si è impegnata a destinare alla Turchia, con l’accordo con Ankara del 2016, per fermare l’arrivo dei migranti sulle coste europee. Il governo italiano intenderebbe chiedere che la somma venga destinata alla Libia. Una megatangente per i predoni che controllano l’ex colonia italiana.
Una mossa ardita, ma abile, anche se si esaurisse nell’effetto annuncio, perché potrebbe dar fiato alle pulsioni antieuropeiste, che attraversano il DNA di questo governo.

Sullo sfondo, invisibili, restano 629 uomini, donne e bambini della Aquarius diretti a Valencia. E i tanti altri che si giocano la vita sui sentieri montani, nelle gallerie ferroviarie, in mare e nel deserto, tra mercanti d’uomini e scafisti in abito da ministro. Come Salvini e Toninelli, che per propaganda, li usano come pedine di una scacchiera.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Riccardo Gatti dell’ONG Proactiva Open Arms.

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2 giugno a Torino. Lo sberleffo degli antimilitaristi

Tanto tuonò che non piovve. Doveva essere il 2 giugno della riscossa democratica contro la coalizione giallo-verde. I pentastellati avevano chiesto la destituzione di Mattarella per alto tradimento, il PD aveva fatto una chiamata alle armi a favore del presidente della Repubblica.
Poi i giochi si sono chiusi con un compromesso. Il professor Savona non è andato al Tesoro, ma si è preso una poltrona da Ministro è tutto è rientrato nei binari.
Evitato l’economista blasonato ma antieuro all’economia, Mattarella ha dato il via al governo. Il presidente del consiglio con i titoli taroccati e la sua allegra banda di razzisti, omofobi, misogini hanno avuto la benedizione del presidente, che ha firmato senza batter ciglio.

A Torino, il 2 giugno, il presidente Dem della Regione, Chiamparino, e la sindaca a 5 Stelle della città, si sono trovati fianco a fianco alla cerimonia militarista di piazza Castello.
Nel capoluogo subalpino, come in tutt’Italia la Repubblica ha celebrato se stessa con esibizioni militari, parate e commemorazioni.
Lo Stato ha il monopolio legale della violenza. Guerre, stupri, occupazioni di terre, bombardamenti, torture, l’intero campionario degli orrori umani, se fatto da uomini e donne in divisa, diventa legittimo, necessario, opportuno, eroico.
Le divise da parata, le bandiere, le medaglie non sono solo retaggio di un passato più retorico e magniloquente del nostro presente da supermercato, ma la rappresentazione sempre attuale che lo Stato da di se stesso.
La democrazia reale, strumento duttile di ricambio delle elite, non può fare a meno della forza militare e poliziesca, modulandone l’impiego in base ai rapporti di forza che attraversano la società.
Da qualche anno la funzione di polizia e quella militare si intrecciano e si intersecano sempre più. Gli interventi bellici oltre confine e sui confini sono diventati operazioni di polizia, mentre è diventato “normale” l’impiego dei militari con funzioni di ordine pubblico: la distanza tra guerra interna e guerra esterna è assottigliata.

Le guerre che si combattono altrove, sebbene vedano soldati italiani in prima fila, non suscitano indignazione. Forse neppure attenzione: sono diventate “normali”. Necessarie.

La guerra interna contro migranti, oppositori politici e sociali è più tangibile e gode di ampi consensi. Gli impenditori politici della paura sono riusciti a piazzare bene il proprio prodotto, fornendo un nemico “interno” da combattere. L’estraneo, l’intruso, il mangiapane a tradimento.

I tempi sono grami, inutile nasconderselo. Una buona ragione per darsi da fare, nella consapevolezza che il vento può cambiare solo se si da una mano a remare per intercettare la brezza che segna la fine della bonaccia.

Il 2 giugno anche gli antimilitaristi sono scesi in piazza, per contrastare le cerimonia armata per la festa delle Repubblica.
La polizia ha chiuso l’ingresso di piazza Castello, blindandolo con camionette, furgoni e uomini dell’antisommossa.
Il presidio convocato all’angolo con la piazza si è dovuto spostare una decina di metri più indietro. Lì è stato montato un binario e una mostra, che racconta di controlli etnici alla stazione di Porta Nuova, per impedire la partenza dei migranti diretti in alta val Susa e, di lì, in Francia.
Numerosi interventi, musica e volantinaggio per circa un’ora, finché, aperto lo striscione dell’assemblea antimilitarista “contro tutti gli eserciti, per un mondo senza frontiere” ci si è mossi verso la polizia, che dopo qualche minuto si è ritirata. Il piccolo corteo ha guadagnato piazza Castello, dove si era appena conclusa la cerimonia militarista.

La gente in piazza ha ascoltato e plaudito gli interventi finali della manifestazione. Un segnale che qua e là il vento soffia nella direzione giusta.

Nella notte ignoti antimilitaristi hanno appeso uno striscione “militari assassini” al monumento ai bersaglieri in corso Galileo Ferraris e ai sei bersaglieri di ferro hanno messo sul capo mutandine colorate.
Una beffa per smontare la retorica militarista, per “fare la festa” alla Repubblica. Un passante ci ha inviato alcune foto che volentieri pubblichiamo.

Di seguito il volantino che l’assemblea antimilitarista ha distribuito in piazza nel pomeriggio.

“L’Italia è in guerra. A pochi passi dalle nostre case si producono e si testano le armi impiegate nelle guerre di ogni dove.

Le usano le truppe italiane nelle missioni di “pace” all’estero, le vendono le industrie italiane ai paesi in guerra. Queste armi hanno ucciso milioni di persone, distrutto città e villaggi, avvelenato irrimediabilmente interi territori.
L’Italia è in guerra. Ma il silenzio è assordante.
La retorica sulla sicurezza alimenta l’identificazione del nemico con il povero, mira a spezzare la solidarietà tra gli oppressi, perché non si alleino contro chi li opprime.

Chi promuove guerre in nome dell’umanità paga il governo libico e quello turco perché i profughi vengano respinti e deportati.

Ogni giorno dalla stazione di Torino partono treni diretti in alta Val Susa. Polizia e militari selezionano le persone in base al colore della pelle.
In Piemonte i migranti prendono le rotte alpine al confine con la Francia.
Il confine è una linea sottile sulle mappe. Tra boschi e valichi, tra le acque del Mare di Mezzo, non ci sono frontiere: solo uomini in armi che le rendono vere.
Le frontiere tra i sommersi e i salvati sono ovunque, ben oltre i confini di Stato e le dogane.
Ogni strada è una frontiera, da attraversare con circospezione. I senza carte ogni giorno rischiano di incappare in una pattuglia, di essere rinchiusi nel CPR o deportati a migliaia di chilometri di distanza.
Pochi giorni fa una giovane donna per sfuggire ai gendarmi è scappata da sola, di notte nei boschi. L’hanno trovata morta nella Durance. Il corpo di un migrante sconosciuto è riaffiorato nella neve,

I militari che vedete a Porta Nuova e al confine sono gli stessi che fanno la guerra in Afganistan, Iraq, Libia…
Anche qui fanno la guerra. La guerra ai poveri, la guerra a chi fugge dalle bombe e dall’occupazione militare.
Guerra interna e guerra esterna sono due facce della stessa medaglia. Oggi i militari fanno la guerra ai poveri senza documenti, domani faranno la guerra a tutti.

Il silenzio è assordante. Il pensiero sulla sicurezza – lo stesso a destra come a sinistra – sembra aver paralizzato l’opposizione alla guerra, al militarismo, alla solidarietà a chi fugge persecuzioni e bombe.

In Val Susa, nel brianzonese e a Torino c’è chi ha deciso di non stare a guardare la gente che crepa, i ragazzi cui amputano i piedi perché non hanno le scarpe adatte, che si perdono nella neve, che dormono in strada.
Mettersi in mezzo è possibile. Dipende da ciascuno di noi.”

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Frontiere. Binario 17

Stazione di Porta Nuova a Torino, una sera come tante in un gennaio tiepido. L’aria è quella dei luoghi di transito, dove la gente passa e va. Vite sospese tra i propri luoghi d’elezione, minuti di un fluire che non si interrompe, anelli di congiunzione.
Per i profughi l’intervallo è la vita. Lunghe soste nel viaggio verso un futuro che non arriva. Il loro tempo è fatto di attese.
Siamo al binario 17. Da lì parte il treno per Bardonecchia, alta Valle Susa. Quando si aprono le porte dei vagoni, arriva la pattuglia. Due poliziotti e due militari con il mitra in braccio si piazzano all’imbocco della banchina. La gente va e viene. Arriva un ragazzo di origine africana: lo fermano, gli chiedono i documenti e lo fanno passare. Si avvicinano altri due africani, ma si allontanano subito. Quando il treno parte, gli uomini in divisa si dirigono verso di loro per controllarne i documenti. Poi, sino al prossimo treno per la Valle, si spostano verso gli ingressi.
É così ogni giorno da molti mesi. Uomini in divisa a caccia di ragazzi africani.
La stazione è una delle tante frontiere che tagliano in due le nostre città. Frontiere invisibili ed impalpabili per chi gode della cittadinanza, diventano barriere difficili da valicare per chi, a prima vista, potrebbe non avere in tasca le carte giuste.

Chi arriva Italia e vuole proseguire viene imbrigliato in gabbie fisiche e normative. I trattati europei impongono di fare richiesta d’asilo nel paese d’arrivo. A tanti, dopo anni di attesa, viene negata l’accoglienza e diventano clandestini. Le nuove leggi, emanate dal governo in primavera ma divenute operative in estate, rendono ancora più difficile far valere le proprie ragioni ed ottenere il pezzo di carta, che permette di restare in Italia.
Molti, forse i più, vorrebbero proseguire il viaggio, perché la loro meta è più a nord.
La frontiera con la Francia è aperta per la libera circolazione delle merci ma è chiusa per i migranti.
Le persone, mercanzia di nessun valore, restano impigliate nelle reti messe lungo il cammino.
La strada che porta nel cuore dell’Europa è disseminata di insidie. Il governo paga i trafficanti, invia truppe per fermare la gente in viaggio. Gli esecutori sono in Africa, i mandanti siedono in Parlamento.

Le frontiere uccidono
I muri della fortezza Europa uccidono uomini, donne e bambini che fuggono guerre, miseria, persecuzioni e dittature.
Quelli che partono lo sanno, ma ogni giorno, nel cuore dell’Africa, qualcuno si mette comunque in viaggio. Per arrivare servono soldi per pagare i trafficanti.
In Libia la guardia costiera e gli uomini delle milizie gestiscono prigioni per migranti. La Libia è un inferno per la gente in viaggio: sequestri, ricatti, torture, stupri per ottenere un riscatto dalle famiglie. Dai campi libici molti non escono vivi. Chi sopravvive alle violenze, chi riesce a farsi mandare altri soldi da casa, si imbarca sui gommoni.
Il governo Gentiloni si vanta di aver ridotto gli sbarchi negli ultimi mesi. Il prezzo pagato è stato altissimo. In soldi e in vite umane.

Nel febbraio del 2017 il ministro Minniti ha stretto un accordo con il governo della Tripolitania per i respingimenti in mare, offrendo denaro, pattugliatori e uomini in armi per l’addestramento.
In estate il governo ha obbligato buona parte delle ONG che soccorrevano la gente dei gommoni ad andarsene dal Mediterraneo, accusandole di collaborare con gli scafisti.
In agosto ha pagato le milizie libiche di Zawiya e Sabratha, che gestiscono il traffico dei migranti, affinché bloccassero le partenze.
A gennaio il parlamento ha ratificato la decisione governativa di potenziare la missione militare in Libia. In aride cifre: 400 uomini e poco meno di 35 milioni di euro.
L’ambizione del governo italiano è il blocco delle partenze in Africa. Per questa ragione Gentiloni ha messo in campo una nuova missione militare in Niger, che potrebbe porre le basi per la costruzione di campi di prigionia nel cuore del Sahel, lungo le rotte verso la Libia.
Ma in Africa, terra di conquista post-coloniale, lo scontro tra le potenze europee, gli Stati Uniti e la Cina per il controllo delle risorse è sempre più aspro. L’avventura italiana in Niger potrebbe non essere gradita al governo francese e subire una seconda battuta d’arresto in due anni, ma il governo di turno difficilmente mollerà la presa.
In questo mese sono ripresi gli sbarchi. Sono cambiate le rotte: si parte da Turchia e Tunisia. Il governo turco, impegnato militarmente nell’attacco al cantone di Afrin in Siria del Nord, aumenta la pressione sull’Europa per ottenerne appoggio politico ed economico. Mentre i Paesi Bassi ritiravano l’ambasciatore ad Ankara, Erdogan era ricevuto in Italia con tutti gli onori.

Da Ventimiglia a Bardonecchia. Le rotte dei senza carte
A Ventimiglia arrivano da anni. Il loro tempo è fatto di attesa. Attesa dell’occasione buona per passare. Tanti provano e riprovano. Qualcuno ci lascia la pelle: nelle gallerie ferroviarie o sull’autostrada, dove un cartello fisso avvisa gli automobilisti della presenza di pedoni. Ai caselli ci sono gendarmi ad ogni punto di accesso: chi ha la pelle scura viene quasi sempre fermato. Per gli altri basta un’occhiata fugace: la loro pelle chiara è il passpartout.
Nelle giornate e notti impastate del nulla dell’attesa molti bivaccano dove possono, spesso in luoghi freddi e pericolosi come il greto del torrente Roja, che fa paura quando le piogge lo gonfiano e scende ruggendo dai monti. Le tende sono sgomberate ciclicamente dalla polizia. Chi viene preso finisce su un pullman per il sud Italia o deportato nel paese di origine.
É un tragico gioco dell’oca: chi torna alla partenza non sempre riesce ad arrivare.
Era il 2009: alcuni cittadini eritrei diretti in Italia vennero respinti in Libia e rinchiusi in prigione, grazie agli accordi di Berlusconi con Gheddafi. Fecero ricorso alla corte europea per i diritti umani e lo vinsero: l’Italia venne condannata. Nel frattempo due di loro erano morti. Il mare li aveva inghiottiti durante un ulteriore tentativo di passare la frontiera.
Per migliaia di uomini, donne, bambini il tempo si ferma tra le acque del Mediterraneo. Una strage infinita. Pochi anni fa i grandi numeri di certi naufragi guadagnavano le prime pagine dei giornali. Oggi sono infilati nelle pagine interne, spesso restano sul web senza mai approdare alla carta inchiostrata. Troppo breve la durata della notizia, perché valga l’effimera luce di un quotidiano.

Chi ha affrontato il deserto, le torture, la prigionia è disposto a tutto pur di arrivare.
Molti sfidano le intemperie, pur di superare i dispositivi di controllo.
Da circa un anno chi va in Francia prende i sentieri sui valichi alpini. Lo scorso inverno Mamadou è stato trovato sul colle della Scala. É sopravvissuto ma gli sono stati amputati entrambi i piedi. In estate, due ragazzi, inseguiti dai gendarmi, sono precipitati, ferendosi gravemente.
Ogni giorno almeno una ventina di migranti provano a passare, rischiando la vita nella neve, spesso senza abiti e scarpe adatti, senza conoscere la montagna, le condizioni meteo, il pericolo di valanghe. Tanti vengono respinti più e più volte. I gendarmi che li pescano lungo la strada li caricano sulle camionette e li lasciano al di là del confine, anche in piena notte quando il freddo morde le carni.
Sul versante francese l’autista di un pullman diretto a fondovalle ha preso i soldi dei biglietti, poi ha chiuso le porte del bus e ha chiamato la polizia.
Gendarmi francesi controllano la stazione di Bardonecchia, per impedire ai migranti di prendere il treno diretto a Modane. In alta valle di Susa i sindaci hanno fatto chiudere le sale d’aspetto delle stazioni in pieno inverno. Da quando le immagini e le storie di questa frontiera sono arrivate sui media main stream, una saletta riscaldata viene aperta alle dieci di sera a Bardonecchia.
Da qualche mese molti hanno deciso di non stare a guardare.
A Briancon una casa occupata ospita chi arriva. A Torino e in Valle sono stati raccolti e distribuiti abiti pesanti, scarponi, sciarpe, qualcuno ha aperto la propria casa per le emergenze dell’ultimo minuto. Una vasta rete di solidarietà attiva è stata intessuta tra la città e la montagna. Una marcia da Claviere a Montgenevre ha mostrato nella pratica la volontà di vivere come se le frontiere non ci fossero, lottando perché non ci siano più.

Il confine è una linea sottile sulle mappe. Tra boschi e valichi, tra le acque del Mare di Mezzo, non ci sono frontiere: solo uomini in armi che le rendono vere.
Inceppare il meccanismo infernale che tiene sotto scacco i migranti è possibile. La solidarietà dal basso spezza l’indifferenza, rompe il silenzio. Chi elude i confini finisce nel mirino della magistratura: Cedric Herrou, contadino francese che ha aiutato duecento africani a passare la frontiera in Val Roja, lo scorso agosto è stato condannato a quattro mesi di carcere.

Una normale strage fascista
Viviamo tempi terribili. L’anestesia dei sentimenti, la loro declinazione secondo le logiche della paura e del ripiegamento identitario, generano normalissimi mostri.
Un fascista spara su gente inerme, colpevole di avere la pelle scura. La notizia della tentata strage di Macerata non è dilagata sui media come le stragi dell’Isis, dei terroristi che sparano nel mucchio per spaventare tutti. Anzi. Sui media c’è chi giustifica e chi applaude.
Scenografia perfetta, studiata a lucidamente a tavolino: prima gli spari, il terrore, poi il tricolore in spalla, il braccio teso, il monumento ai caduti. La paccottiglia nazionalista ed identitaria per una guerra che non è la “follia” di uno, ma il fascismo che torna. Ben oltre i gruppi che se ne dicono eredi ed appoggiano chi spara ai migranti. Il fascismo è già qui. Da lunghi anni. Decenni di guerre (post)coloniali, respingimenti in mare, leggi razziste, deportazioni, prigioni per migranti, esternalizzazione della violenza, militari in strada, confini blindati, criminalizzazione della solidarietà sono l’emblema di questi tempi feroci. Finite le ideologie, le politiche razziste le fanno i governi di centro destra e quelli di centro sinistra. Tanti, troppi, plaudono. Chi non si accontenta delle stragi per procura, dei morti nel deserto, dei torturati nei lager libici, vuole una più radicale pulizia etnica. Traini non è solo. E lo sa. Di fronte al terrorismo fascista si sono sprecati i distinguo, i “ma” i “però”.
I fascisti forniscono la cornice giusta per incanalare la paura, il desiderio di rivalsa verso immigrati e profughi. Ma il nostro oggi non è quello di un secolo fa.
I confini, le linee di demarcazione tra sommersi e salvati, ricalcano quelli coloniali, le patrie, i confini invalicabili, ma non mettono al sicuro nessuno. Chi ha le carte in regola, il passaporto europeo, la cittadinanza italiana, può andare dove vuole, ma non ha alcun porto sicuro dove approdare.
Lungo le strade del postumano i ricchi si stanno costruendo un lungo futuro. I pezzi di ricambio coltivati in provetta non sono più utopie, ma un tempo che è già oggi.
Per i poveri, di qualsiasi colore, c’è un orizzonte da robot umani, al servizio delle macchine intelligenti. Un braccialetto al polso ed il tempo scandito dai ritmi della merce. È la realtà nei magazzini di Jeff Bezos, quelli dove corpi in eccesso vengono spremuti finché reggono. Poi qualcun altro lo sostituisce.
Per gli scarti, di qualsiasi colore, non c’è posto.
Il fascismo storico fu una controrivoluzione preventiva attuata per bloccare le insorgenze sociali che avevano fatto tremare i padroni nel biennio rosso. Il fascismo disciplinò con la violenza operai e contadini del BelPaese. L’impero, ottenuto massacrando i civili con l’iprite e le bombe, creò un’illusione di grandezza per i proletari italiani, spinti verso le colonie.
Oggi la conquista dell’Africa la fanno eserciti di professionisti, seguiti da imprese con manodopera intercambiabile, che quando serve spostano il proprio core business ovunque trovino condizioni migliori. L’industria 4.0 è leggera, mobile, senza legami veri con un territorio. Non ci sono più certezze, sia pure minime, per nessuno.
Le piccole patrie, il tricolore, il monumento ai caduti danno un ombrello identitario ad un’umanità spaventata e rancorosa. Ma ovunque piovono pietre.

Serve oggi una rivoluzione preventiva che fermi il fascismo, che inceppi la macchina che trita la vite della gente in viaggio.
Non è facile e neppure probabile, tuttavia è impossibile non avvertirne l’urgenza.
Abbattere le frontiere simboliche e reali che si stanno moltiplicando nel cuore delle nostre città è un primo passo.
È il momento di decidere da che parte stare. Un giorno non potremo fingere di non aver visto, di non aver saputo. Chi tace, chi volta lo sguardo è complice. Nessuno lo farà al nostro posto. Tocca a ciascuno di noi.

Stazione di Porta Nuova, Torino. Binario 17. Un ragazzo africano ha in mano un biglietto per Bardonecchia: chiede informazioni ma pochi capiscono. Poi incrocia la persona giusta e un filo della sua vita si intreccia con gli altri.

Questo articolo è uscito sull’ultimo numero di A rivista

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Macerata. Oltre la cronaca

Sul corpo delle donne si giocano continue partite di “civiltà”. L’omicidio di Pamela Mastropietro, la sua vita trasformata in spettacolo pornografico horror è l’incipit. Le persone indagate per il delitto sono nigeriane, nere, forse pusher. Nei giorni successivi vengono arrestati in tre. Una buona occasione di propaganda elettorale per le destre.
Il 3 febbraio Traini, un leghista con il simbolo di Terza posizione tatuato sulla tempia, si lancia in una caccia all’uomo per le vie di Macerata, insegue sparando undici persone, tutte africane. Le testate italiane titolano: “Sparatoria Macerata, Traini: Volevo vendicare Pamela” (TgCom, cfr.)”; “Macerata, Traini in carcere per strage: Penso a Pamela” (Ansa, cfr.). Il bilancio è di sei feriti, di cui due gravi.

Un fascista spara su gente inerme, colpevole di avere la pelle scura. La tentata strage di Macerata non deflagra sui media. Non è mica l’Isis che brucia ogni altra notizia. La jihad, la guerra santa unisce, trasforma i diversi in eguali, ci “livella”. I terroristi dello Stato islamico sparano nel mucchio per spaventare tutti. Traini sceglie le sue vittime, spara in un mucchio di neri. Tutti colpevoli di esistere, di vivere in Italia, di non essere morti per strada. Tutti uguali. Uomini neri, il babau delle notti di inverno per i bambini pallidi d’Europa.
Sui media c’è chi giustifica e chi applaude.
Gli argomenti di Traini sono fatti propri da Salvini e dall’intera compagnia di giro che lo affianca nella campagna elettorale. Le sei persone ferite da Traini scompaiono, in primo piano solo il viso di Pamela Mastropietro e le foto di uno degli uomini arrestati.
A poche ore dalla tentata strage fascista il centro sociale Sisma di Macerata lancia una manifestazione nazionale antifascista e antirazzista per il 10 febbraio.
Anpi ARCI, Cgil aderiscono alla manifestazione.
Anche i fascisti annunciano iniziative di piazza.
Il sindaco di Macerata vuole annullare il corteo: PD, Anpi, Arci e Cgil seguono a ruota. Ma. Non tutte le ciambelle riescono con il buco. La determinazione degli antifascisti non istituzionali, la rivolta di tante sezioni Arci e Anpi ribalta la situazione.
Il corteo raccoglie oltre 20.000 persone.
Una risposta forte e chiara alle destre e ai fascisti e al governo.
In contemporanea cortei antifascisti attraversano tante città italiane. Un segnale importante, perché coglie l’urgenza dei tempi.

Tempi terribili. L’anestesia dei sentimenti, la loro declinazione secondo le logiche della paura e del ripiegamento identitario, generano normalissimi mostri.
Traini ha messo in scena una rappresentazione studiata lucidamente a tavolino: prima gli spari, il terrore, poi il tricolore in spalla, il braccio teso, il monumento ai caduti. Il ciarpame nazionalista ed identitario per una guerra che non è la “follia” di uno, ma il fascismo che torna. Ben oltre i gruppi che se ne dicono eredi ed appoggiano chi spara ai migranti. Il fascismo è già qui. Da lunghi anni. Decenni di guerre (post)coloniali, respingimenti in mare, leggi razziste, deportazioni, prigioni per migranti, esternalizzazione della violenza, militari in strada, confini blindati, criminalizzazione della solidarietà hanno lasciato il segno. Troppi guardano e tacciono.
Finite le ideologie, le politiche razziste le fanno i governi di centro destra e quelli di centro sinistra. Tanti, troppi, plaudono. Chi non si accontenta delle stragi per procura, dei morti nel deserto, dei torturati nei lager libici, vuole una più radicale pulizia etnica. Traini non è solo. E lo sa. Di fronte al terrorismo fascista si sono sprecati i distinguo, i “ma” i “però”.
I fascisti forniscono la cornice giusta per incanalare la paura, il desiderio di rivalsa verso immigrati e profughi. Ma il nostro oggi non è quello di un secolo fa.
I confini, le linee di demarcazione tra sommersi e salvati, ricalcano quelli coloniali, le patrie, i confini invalicabili, ma non mettono al sicuro nessuno. Chi ha le carte in regola, il passaporto europeo, la cittadinanza italiana, può andare dove vuole, ma non ha alcun porto sicuro dove approdare.
Per i padroni conta il colore dei soldi, non quello della pelle. I poveri, di qualsiasi colore, sono umanità in eccesso.
Per gli scarti non c’è posto.
Il fascismo storico fu una controrivoluzione preventiva attuata per bloccare le insorgenze sociali che avevano fatto tremare i padroni nel biennio rosso. Il fascismo disciplinò con la violenza operai e contadini del BelPaese. L’impero, ottenuto massacrando i civili con l’iprite e le bombe, creò un’illusione di grandezza per i proletari italiani, spinti verso le colonie.
Oggi la conquista dell’Africa la fanno eserciti di professionisti, seguiti da imprese con manodopera intercambiabile, che quando serve si spostano ovunque trovino condizioni migliori. L’industria è sempre più leggera, mobile, senza legami veri con un territorio. Persino la proprietà degli stabilimenti e delle macchine è diventata un peso: meglio il franchising, gli affitti veloci, niente magazzino. Così quando serve si chiude tutto in un batter d’occhio. Non ci sono più certezze, sia pure minime, per nessuno.
Le piccole patrie, il tricolore, il monumento ai caduti danno un ombrello identitario ad un’umanità spaventata e rancorosa. Ma ovunque piovono pietre.
Serve oggi una rivoluzione preventiva che fermi il fascismo, che inceppi la macchina che trita la vite della gente in viaggio.
Non è facile e neppure probabile, tuttavia è impossibile non avvertirne l’urgenza.

Ascolta la cronaca della manifestazione di Macerata per l’info di Blackout di Francesco e l’analisi di Stefano, dell’osservatorio antifascista friulano.

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Razza bianca e bordelli. La ricetta leghista per tornare al potere

La Lega le ha sparate grosse ed è riuscita a catalizzare l’attenzione dei media main stream. I risultati conseguiti dal governo Gentiloni nella lotta all’immigrazione, sono sotto gli occhi di tutti: secca riduzione degli sbarchi, moltiplicarsi dei rimpatri.
La cacciata di quasi tutte le ONG dal Mediterraneo, gli accordi con Al Sarraj e con i capi delle milizie di Sabratha e Zawija, le leggi che rendono più difficile il riconoscimento dell’asilo politico sono i tasselli di un mosaico la cui trama è ben nota a tutti. Morti, galere per migranti, stupri, ricatti e torture sono il pane quotidiano della gente in viaggio attraverso la Libia. Fatti noti. Come note sono le statistiche che rivelano che sono tantissimi gli italiani che plaudono a massacri e respingimenti. Si moltiplicano i muri, le barriere, le missioni armate.
Difficile battere il PD su questo terreno. Nel suo editoriale sul quotidiano La Stampa di oggi Sorgi tesse gli elogi del governo.
Serviva qualche sparata ad effetto, che catalizzasse le paure che attraversano tanta parte del corpo sociale. Donald Trump fa scuola.
Il neocandidato alla presidenza della Regione Lombardia, Fontana, ha conquistato le prime pagine, parlando di “razza bianca” e di invasione di immigrati, che la cancelleranno.
Il segretario leghista ha ripreso un tema caro ai fascisti di ieri e di oggi: la prostituzione di Stato. Salvini vuole riaprire le case chiuse, dove le prostitute vivono come monache, sotto il controllo della polizia di Stato. Va da se che in questi bordelli legali potrebbero avere accesso solo persone con i documenti in regola.
Berlusconi ha immediatamente stigmatizzato le dichiarazioni dei suoi ingombranti alleati, ma gioca la stessa partita. Qualche giorno fa ha detto, in barba ai dati diffusi dal Viminale, che in Italia c’è un reato al secondo. Non solo. L’ex Cavaliere ha rincarato la dose sostenendo che in Italia si sarebbero 500.000 immigrati pronti e delinquere.
Un’affermazione che fa il paio con quelle del leghista Fontana.
Luigi di Maio, il candidato alla presidenza del consiglio per il M5S, fa invece concorrenza ai fascisti, sostenendo che gli interessi degli italiani devono venir prima di quelli degli immigrati.
La campagna elettorale sta entrando nel vivo. Le questioni sociali restano sullo sfondo, la vera protagonista è la paura.
Lo sa bene Marco Minniti, che ha dichiarato che non si può ignorare la paura diffusa nel corpo sociale, anche quando non ha alcun fondamento reale.
Come dargli torto? La paura uccide. Come in piazza San Carlo: 1.250 feriti ed una morta in un attacco di panico collettivo figlio della paura che nutre da decenni l’immaginario sociale del nostro paese.
Lo sanno bene i migranti respinti alle frontiere, che annegano nel Mediterraneo o restano sepolti dalle neve nelle Alpi. Qualcuno viene folgorato mentre prova a passare in Francia attraverso un tunnel ferroviario. É successo ieri a Ventimiglia.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Alessandro Dal Lago, sociologo, già docente all’università di Genova

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Ammazziamoli a casa loro

Il conte Gentiloni ha chiuso l’anno e il mandato con l’invio d’un contingente della Folgore in Africa.
Ai parà in Niger seguiranno specialisti del Genio, addestratori, esperti delle forze speciali.
Sulla carta una missione contro il terrorismo nel cuore del Sahel. Nei fatti porre le basi per la costruzione di campi di prigionia per migranti a sud della Libia.
“Aiutiamoli a casa loro”, lo slogan più gettonato degli ultimi anni è destinato a finire in soffitta. In febbraio il ministro Minniti ha stretto un accordo con al Sarraj, capo del debole governo della Tripolitania, per i respingimenti in mare.
In estate il governo ha obbligato buona parte delle ONG che soccorrevano la gente dei gommoni, ad andarsene dal Mediterraneo, accusandole di collaborare con gli scafisti.
In agosto ha pagato le milizie di Zawiya e Sabratha, che gestiscono il traffico dei migranti, affinché bloccassero le partenze. Tutti sanno che la Libia è un inferno per la gente in viaggio: sequestri, ricatti, torture, strupri per ottenere un riscatto dalla famiglie. Dai campi libici molti non escono vivi.
Gli esecutori di questi crimini sono a Tripoli o a Sabratha, i mandanti siedono nel parlamento italiano.
Quest’anno è previsto un maggiore impegno in Libia e l’inaugurazione di un nuovo fronte in Tunisia, dove passa il gasdotto che porta il gas algerino in Sicilia.
La missione in Niger è l’ultimo tassello di una strategia di spostamento a Sud ed esternalizzazione della repressione dell’immigrazione.
L’ipocrisia del governo maschera gli obiettivi, ma il nuovo target dei militari tricolori è chiaro: “Ammazziamoli a casa loro.”
Forse non tutti sanno che i soldi spesi per far morire la gente in viaggio, sono stati sottratti a pensioni e sanità. Così anche da noi i poveri muoiono prima. Usurati dal lavoro, senza soldi per la sanità privata, senza futuro per figli e nipoti.

Quanto ci costerà la campagna d’Africa dell’esercito italiano sino a settembre?
Libia: 400 soldati e 34.982.433 euro. Niger: 470 parà e 30 milioni di euro. Spazio aereo della NATO: 250 militari e 12 milioni e 586mila euro. Tunisia: 60 persone e quattro milioni e 900mila euro. Repubblica Centrafricana: 324.260 euro. Marocco: due soldati e 302.839 euro. Poi ci sono i costi per gli altri fronti di guerra: Afganistan (101 milioni), Iraq (162 milioni), Libano (102 milioni), Mare sicuro (63 milioni) e Sophia (31 milioni), Lettonia (15 milioni)…

Le guerre dell’Italia per decenni sono state coperte da giustificazioni umanitarie: oggi il mantra è la “lotta al terrorismo”, nel cui nome si giustificano le città distrutte, i corpi dilaniati, i bambini spauriti, i migranti che muoiono in viaggio. Occupazione militare, bombardamenti, torture e repressione non fermano la Jihad ma la alimentano.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia.
Le sostiene la stessa propaganda: le questioni sociali, coniugate in termini di ordine pubblico, sono il perno su cui fa leva la narrazione militarista.
In dicembre si è concluso alla Scuola di Fanteria dell’Esercito un corso per “istruttori controllo dalla folla”, dove ai militari è stato insegnato come fronteggiare e reprimere le insurrezioni popolari. Hanno imparato come gestire le rivolte nei paesi occupati. Siamo sicuri che verranno impiegati anche in Italia nei luoghi del conflitto sociale.
Già oggi gli stessi soldati delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa, sono nel Mediterraneo e sulle frontiere fatte di nulla, che imprigionano e uccidono, uomini, donne e bambini.
Da anni le forze armate fanno propaganda per il reclutamento nelle scuole. Ora, grazie all’accordo con il MIUR, gli studenti potranno fare il loro periodo di alternanza scuola lavoro anche nella caserme, nei musei e nelle basi militari. Un’opportunità di lavoro in un settore che non conosce mai crisi.
E non conosce crisi l’industria bellica, che in Piemonte ha numerose, mortali, eccellenze.
Gli uomini, donne, bambini che premono alle frontiere chiuse dell’Europa nascondono una verità cruda ma banale. Le guerre sono combattute con armi costruite a due passi dalle nostre case.

É il momento di decidere da che parte stare. Un giorno non potremo fingere di non aver visto, di non aver saputo. Chi tace, chi volta lo sguardo è complice. Nessuno lo farà al nostro posto. Tocca a ciascuno di noi.

Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.

Sabato 13 gennaio
ore 10,30 / 14
Punto info antimilitarista al Balon
con vin brulè, cibo e the caldo
benefit assemblea antimilitarista

Assemblea Antimilitarista
antimilitarista.to@gmail.com

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Appendino con l’elmetto

Appendino con l’elmetto

Per il 4 novembre, “festa delle forze armate e dell’unità nazionale”, sui muri di Torino accanto ai consueti manifesti celebrativi c’è anche un testo di Chiara Appendino, che da il proprio contributo alla retorica nazionalista, militarista, che caratterizza una giornata segnata da parate militari e cerimonie patriottiche.
Appendino elogia gli uomini in divisa come difensori del “diritto dei popoli all’autodeterminazione”. Un esempio di humor nero di fronte alle 36 missioni di guerra in cui sono impegnate le forze armate italiane in paesi come l’Afganistan, l’Iraq, la Libia, il Libano, la Somalia. Paesi devastati da guerre in cui l’Italia è stata in prima fila.
L’Italia è seconda solo agli Stati Uniti per numero di soldati impegnati in aree di guerra.
Guerre vere travestite da interventi umanitari, o, meno ipocritamente, operazioni di polizia internazionale.
Chi sa cosa direbbero gli abitanti dei paesi dove operano le truppe tricolori del “diritto all’autodeterminazione del popoli” garantito dalle “nostre” forze armate.
Il messaggio di Appendino è un abile mixaggio di buoni sentimenti ed esaltazione della guerra.
In sintonia con il suo movimento la sindaca di Torino esalta l’azione dei militari contro i migranti, messi nello stesso elenco della “minaccia terroristica”.
Non mancano i ringraziamenti a chi lavora a “rendere sicure” le nostre strade. La mappa dell’operazione strade sicure – 7000 mila militari impegnati – è una mappa di guerra. La guerra combattuta nelle periferie, nei CIE, nelle baraccopoli, ai giardinetti. La guerra ai poveri.

Il comunicato termina con una esaltazione delle tradizioni militari di Torino, prima capitale del Regno di Savoia. Tradizioni che oggi come allora significano occupazione militare, repressione, tortura, morte.

Ma c’è un’altra Torino. Oggi come cent’anni fa.
È la Torino degli uomini e delle donne che nell’agosto del 1917, mentre tanti morivano per spostare un confine, per rendere più potente il regno, insorse contro la guerra, la fame, le fabbriche militarizzate. Tanti morirono, vennero feriti e arrestati. Su quelle barricate su cui si infrangeva la furia delle cariche a cavallo si lottava e si moriva per farla finita con la guerra, lo sfruttamento, le frontiere.

Nel marzo del 1943 gli operai delle fabbriche torinesi scioperarono contro la guerra e l’occupazione militare. Molti pagarono con la vita e la deportazione la loro rivolta.

Ogni giorno nella nostra città c’è qualcuno che si schiera sul fronte della guerra ai poveri, che lotta contro le fabbriche d’armi, i CIE, le deportazioni, lo sfruttamento. Sono i senzapatria che lottano per cancellare frontiere, contro tutti gli eserciti, gli stati, le guerre.

La sindaca di Torino ha indossato l’elmetto, perché tutti sappiano da che parte sta.

In giro per Torino sono comparse scritte sui manifesti di Appendino.

Ne abbiamo fotografata una che dice “No a tutti gli eserciti”. “Appendino merda militarista”

Il 4 novembre è la festa degli assassini.

Per un 4 novembre di lotta antimilitarista appuntamento alle 15 in piazza Statuto. Da lì ci muoveremo verso piazza Castello, dove è prevista la cerimonia militarista.

Niente pace per chi fa guerra!

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Milano. Per la libertà dei prigionieri politici in Turchia

Se ne parla poco. Pochissimo. La Turchia si è trasformata in una dittatura democratica ma in Italia il silenzio è di tomba. La Turchia, ben pagata per il lavoro sporco, impedisce il passaggio di migranti e profughi di guerra in Europa.
Un servizio prezioso per tutti i governi europei, che sul controllo delle frontiere giocano le proprie fortune elettorali.
Solo pochi organi di stampa e la rete testimoniano la durissima repressione, le carcerazioni di massa, le torture contro gli oppositori politici nel regno di Erdogan.

Le città e i quartieri rasi al suolo dai bombardamenti dell’esercito turco durante l’insurrezione di due anni fa, sono ora in mano ai cementificatori, che ricostruiscono le case per nuovi abitanti, mentre quelli vecchi vengono spinti ad emigrare, ad ingrossare le fila della grande diaspora curda.

Il corteo, che ha attraversato il centro cittadino lo scorso sabato è stato un tentativo di stracciare la coltre di silenzio che avvolge la durissima repressione in Turchia.

Convocato dall’Ufficio informazioni sul Kurdistan in Italia e dalla rete Kurdistan è stato caratterizzato da una forte partecipazione della comunità curda milanese e di varie altre città.

Meno significativa la partecipazione dei movimenti di opposizione sociale, che sin dall’assedio di Kobane avevano fornito appoggio materiale e politico alla rivoluzione democratica e confederale in Rojava. La scelta delle organizzazioni curde di spostare l’asse delle loro alleanze sulla sinistra istituzionale, complice delle politiche di sostegno al governo turco, ha fatto sì che sia le adesioni formali sia la partecipazione diretta fossero inferiori a quelle degli anni precedenti.

Evidentemente la durezza del momento ha indotto la leadeship curda nel nostro paese ad una realpolitik che paga poco in piazza.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Massimo, un compagno milanese, tra quelli che, pur non aderendo al corteo, vi ha preso parte in sostegno alla lotta per la liberazione dei prigionieri politici in Turchia.

http://radioblackout.org/2017/10/milano-per-la-liberta-dei-prigionieri-politici-in-turchia/

Di seguito il volantino distribuito in piazza dai compagni della Federazione Anarchica di Milano.

NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO che l’esordio della dittatura a viso aperto in Turchia fu l’elezione di un guappo del Fondo Monetario Internazionale – Recep Tayyip Erdoğan – che promise e realizzò riforme lacrime e sangue, cancellando con un colpo di spugna i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, per accontentare la finanza internazionale, nel nome dell’Austerity.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO che la protesta popolare e spontanea aggregatasi nel 2013 in piazza Taksim e presso Gezi Park fu stroncata dalla più feroce e brutale repressione, annegata nel sangue del compagno quindicenne Berkin Elvan e nelle migliaia di anni di prigione comminati a quanti avevano osato alzare la testa davanti al tiranno, bollati da giudici e giornali di regime – in perfetta aderenza col linguaggio politichese giuridico ormai di moda anche in Italia – come terroristi.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO la pronta adesione di Erdogan al programma d’espansione dell’imperialismo saudita, spalleggiato dagli USA e dall’Unione Europea con consistenti invii di armi, molte delle quali prodotte in Italia, con grande soddisfazione dell’imprenditoria della morte nostrana.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO il sostegno di Erdogan al Daesh, lo Stato islamico, la punta di diamante della penetrazione saudita in Iraq e Siria. Non abbiamo dimenticato le lunghe colonne di camion cisterna che dalla Siria e dall’Iraq portavano in Turchia il petrolio venduto dalle milizie del terrore al loro protettore di Istanbul; il petrolio sporco del sangue di decine di migliaia di donne Ezide assassinate, vendute come schiave, stuprate e torturate dai miliziani di Daesh; il petrolio che passando per la Turchia e per Israele veniva ricettato da “eroi del nostro tempo” (o imprenditori, se preferite) italiani ed europei.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO che nella corsa all’islamizzazione in salsa capitalistica del suo disgraziato paese, Erdogan non rinunciò a strumentalizzare gli attentati di Cizre, di Ankara e di Suruç, costati la vita a decine di compagni (e tra questi i libertari Alper Sapan e Evrim Deniz Erol), per appiattire qualunque opposizione nella comoda definizione di ‘terrorismo’. Non abbiamo dimenticato i giornali soppressi, i militanti arrestati, la libertà di pensiero azzerata.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO la cieca violenza dei bombardamenti turchi del 2015 e del 2016 su Cizre, Nusaybin, Mardin, Amed; non abbiamo dimenticato i civili assediati, i bambini affamati, uomini e donne massacrati dai cannoni e dai cecchini, colpevoli di avere osato ribellarsi al tiranno proclamando la propria autonomia nel nome del Confederalismo democratico e di un modo autenticamente rivoluzionario di pensare il governo: esercitato dal basso da tutte e tutti coloro che vivono il territorio e nel territorio.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO che le città Kurde distrutte furono oggetto, poco dopo la fine della repressione, di una lucrosa speculazione edilizia, una vera e propria pulizia etnica che cacciava la componente Kurda dal territorio e garantiva ingenti profitti al dittatore ed ai suoi amici imprenditori.
NOI NON ABBIAMO DIMENTICATO che tutto ciò avvenne e tuttora avviene col consenso, vergognoso quanto incondizionato, dell’Unione Europea e dei governi d’Europa, incluso quello italiano, timorosi dell’arrivo in Europa dei profughi in fuga dalla guerra suscitata in Siria dall’appetito degli imperialismi e del capitalismo internazionale. NO! NON ABBIAMO DIMENTICATO i miliardi di euro versati dalla UE nelle casse di Ankara per compiacere la gretta xenofobia europea e finanziare orridi campi di concentramento al confine turco-siriano, dove le famiglie profughe sono imprigionate in condizioni disumane, gli uomini sfruttati quale manodopera a basso costo, i bambini prostituiti. Una degna pietra di paragone per i lager oggi aperti anche in Libia grazie all’infame accordo del governo italiano con i ‘colleghi’ di Tripoli.
Ci limiteremo a piangere le vittime degli attentati, o comprenderemo finalmente che è la nostra stessa apatia a consentire a governi e Capitale di promuovere e finanziare guerre sanguinose per procura nel nome del profitto? Guerre iniziate dai ricchi e per i ricchi, dai potenti per i potenti, ma nelle quali moriranno sempre e solo poveri, di qualunque colore, lingua o religione.
Noi crediamo e affermiamo che il silenzio è il più viscido complice dell’oppressore. Noi crediamo e affermiamo che l’individuo ha dei diritti sino a che è in grado di difenderli, non solo per sé e non solo dove vive, ma per chiunque e in ogni parte del mondo. Noi crediamo e affermiamo che l’unica forza capace di tutelare la dignità di ogni essere umano è quella che proviene dall’unità delle sfruttate e degli sfruttati, delle oppresse e degli oppressi, emancipati da ogni servitù e liberi di autogovernarsi secondo i principi dell’uguaglianza e della solidarietà libertaria. Per questo il 7 ottobre intendiamo portare in piazza la nostra solidarietà internazionalista ai Compagni detenuti nelle carceri turche e a tutti i gruppi che oggi proseguono in Turchia e in Siria la Lotta per la liberazione di genere, la Lotta armata contro l’islamo-fascismo, la Lotta per una società laica e pluralista, la Lotta anti-razzista e anti-nazionalista, la Lotta di classe contro il Capitale, percorsi irrinunciabili e non negoziabili verso l’Avvenire Libertario.

Viva la Rivoluzione Sociale! Viva l’Anarchia!

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Il confine oltre il deserto. Vuoti a perdere

Quand’ero giovane si pagava un sovrapprezzo sul latte nelle bottiglie di vetro: se si restituiva il recipiente vuoto si veniva rimborsati. Le bottiglie senza riscatto erano vuoti a perdere. Finivano nel bidone della spazzatura.
Oggi in molti luoghi il vetro usato viene raccolto e riciclato.
Una fortuna che non tocca a tanti esseri umani, condannati sin dalla nascita ad essere dei vuoti a perdere. Da eliminare in fretta e senza costi eccessivi.
Il vuoto a perdere sa di avere il destino segnato e proprio per questo difficilmente si rassegna o adotta tattiche prudenti. Il vuoto a perdere non può permettersi il lusso della disperazione.
Chi vorrebbe fermare le grandi migrazioni non comprende che la violenza crescente degli Stati ricchi riempie i cimiteri ma non ferma chi decide di mettersi in viaggio.
Sull’autostrada che da Ventimiglia porta in Francia un avviso luminoso avverte che ci sono pedoni. Ormai è un cartello fisso. Ogni giorno qualcuno prova a passare le frontiere con la Francia, la Svizzera, l’Austria: prendendo i sentieri sui monti, imboccando pericolosissime gallerie ferroviarie, nascondendosi sull’auto di chi non accetta che vi siano frontiere. In agosto sui sentieri che portano al colle della Scala, nei pressi di Bardonecchia, due ragazzi, inseguiti dai carabinieri, sono precipitati: uno di loro è gravemente ferito. A Bardonecchia ci sono posti di blocco e militari, ma c’è sempre chi tenta la sorte.
Ogni giorno, da qualche parte, qualcuno muore. Muoiono anche i progetti di vita della sua famiglia, di chi ha giocato tutto sul viaggio del figlio più forte, sano, intraprendente. Migrare costa, costa tantissimo: chi parte deve avere i soldi per pagare i trafficanti, per soddisfare i tanti passeur necessari ad andare avanti, per chetare la violenza dei carcerieri libici.
Tante storie tutte uguali, ma ognuno ha la sua, fatta di luoghi, affetti, speranze, desideri, rabbia, paura e tanto altro. A chi importa dei vuoti a perdere? A chi interessa la gran folla dell’umanità in eccesso?
In fondo se sono poveri, se i loro paesi sono alla fine delle liste di chi fa le classifiche, qualche colpa dovranno pur averla.
La povertà diventa come il marchio di Caino, un delitto da espiare.
 
A casa loro
La retorica dell’aiutiamoli a casa loro è un motivo trasversale tra destra e sinistra. In tanta parte dell’Africa la gente avrebbe volentieri fatto a meno della mano tesa dell’Europa, della Cina, degli Stati Uniti, della Russia…
Mani tese per poter prendere il meglio, asservendo e impoverendo le popolazioni investite dall’occupazione militare del continente.
La razzia è continuata dopo la fine dell’era coloniale. Tutto è cambiato ma la devastazione ed il saccheggio sono rimasti quelli di prima. L’Italia ha continuato a mettere le mani nel grande forziere del corno d’Africa.
Qualche volta, quando la punta dell’iceberg emerge a due passi da casa nostra, capita che si accenda un riflettore sulla violenza colonialista dei giorni nostri. Ma dura poco, pochissimo.
La furia della polizia in piazza Indipendenza a Roma si è abbattuta su profughi accampati in strada, dopo lo sgombero della palazzina dove vivevano. Video e foto hanno mostrato uno scampolo della quotidianità dolente della gente in viaggio, che non arriva mai a destinazione, nemmeno quando è qui da anni. Restano sempre stranieri, estranei, vuoti a perdere. Sono tantissimi gli immigrati che provengono da Somalia, Etiopia, Eritrea, tre gioielli dell’impero di Vittorio Emanuele III.
Le mani di un poliziotto che stringono il volto piangente di Judith sono l’immagine più forte e brutale di quella giornata d’agosto. Quel uomo dell’antisommossa è lo specchio del colonizzatore, dell’italiano che si trova di fronte alla sua faccetta nera. Una delle tante. Ai bei tempi, quando c’era l’impero, bastavano pochi soldi per comprare una bambina e farne la propria moglie momentanea. Usa e getta. Come oggi quelli del califfato, che suscitano tanta indignazione tra gli italiani brava gente, dimentichi se non ignari del proprio retaggio coloniale.
Sui sussidiari delle nostre scuole non c’è traccia dei gas usati contro la popolazione civile, delle bombe sui villaggi, della ferocia dei ragazzi con il tricolore. Una storia che non è certo finita con la caduta della dittatura fascista.
Il poliziotto compassionevole di piazza Indipendenza la notte del 21 luglio del 2001 faceva parte della squadra che trasformò la scuola Diaz di Genova in una macelleria. Lo ha rivelato il suo ex comandante Canterini, a caccia di legittimazioni per quella notte di sangue e torture. Alla fine tutto torna. Con buona pace di chi crede che la violenza poliziesca sia straordinaria rottura dell’ordine democratico e non banale quotidianità.

Le imprese italiane in Africa fanno buoni affari. La diga più alta del continente si trova in Etiopia ed è stata costruita dalla Salini-Impregilo, che da quelle parti si aggiudica tutti gli appalti.
É la diga Gibe III, la terza di una serie di cinque in costruzione sul fiume Omo. È la più grande centrale idroelettrica dell’Africa con una potenza in uscita di 1870MW.
L’allora premier Matteo Renzi l’ha inaugurata nel 2015 con solenni parole di elogio per le imprese italiane. Una bella favola. Una favola nera.
La bassa valle dell’Omo non è certo disabitata: ci vivono 200.000 persone, che pratica(va)no la caccia, la pesca e l’agricoltura di sussistenza. La diga ha messo fine alle esondazioni stagionali del fiume. Il gigantesco invaso rischia di causare il degrado e l’abbassamento del livello del lago Turkana in Kenya – il più grande lago in luogo desertico del mondo – dalle cui acque e riserve ittiche dipendono altri 300.000 indigeni.
Ma. La diga permette l’irrigazione di vaste piantagioni commerciali che si stanno realizzando nelle terre delle tribù. Le autorità locali stanno sfrattando questi popoli dalle loro terre, per trasferirli in villaggi di reinsediamento, dove non riescono a sopravvivere.
Gibe III è uno dei tanti esempi di intervento italiano in Africa. Quando mezzo milione di persone diventano vuoti a perdere. Di anno in anno si allunga la schiera dei profughi climatici, della gente in fuga dalla guerra per il coltan, il petrolio, le terre fertili.
Chi si sta spartendo l’Africa oggi non ha neppure il fastidio di mantenere un’amministrazione coloniale ed un esercito sul posto.
Una invisibile linea di confine separa i sommersi dai salvati. Su questa linea negli ultimi sei mesi la guerra si è fatta più aspra, senza esclusione di colpi, senza pietà.

La cacciata delle ONG e l’accordo con gli scafisti
Che l’aria stesse cambiando ancora una volta in peggio lo si è capito quest’inverno. Il 2 febbraio il nuovo ministro dell’Interno Minniti ha siglato un accordo con il governo Al Sarraj in Libia, benedetto il giorno successivo dal vertice di Malta. Una mossa che assumeva mero sapore propagandistico, per acquistare consensi in vista di elezioni che all’epoca parevano molto vicine. Il governo Al Sarraj non controlla neppure Tripoli, le due o tre “guardie costiere” sono parte del traffico di esseri umani, un affare molto lucroso nella Libia devastata da sei anni di guerra. Il capo della guardia costiera di Zawiya è anche capo di una delle milizie che gestiscono le partenze.
In realtà l’accordo con Al Sarraj porterà soldi, armi e pattugliatori in Libia e sarà il primo tassello del mosaico di Minniti. Il ministro si è fatto le ossa alla scuola di Cossiga e per lunghi anni ha avuto la delega ai servizi segreti, nei tanti governi dove è stato sottosegretario agli Interni.
Il suo capolavoro è la cacciata dal Mediterraneo delle navi delle tante ONG, che negli ultimi anni si sono assunte il compito di ripescare in mare naufraghi e gente abbandonata su barconi alla deriva.
Un lavoro fatto intessendo infiniti fili e facendo leva sulle spinte che arrivavano dai propri stessi avversari politici. In prima fila Salvini e Grillo, che hanno puntato l’indice contro le ONG accusandole di essere complici degli scafisti. Si sono poi uniti al coro alcuni magistrati siciliani come il Procuratore di Catania Zuccaro, che, pur dichiarando di non avere prove, si è detto certo che ci fosse del marcio nell’attività delle navi delle ONG impegnate nel Mediterraneo. Il lavoro di criminalizzazione è durato mesi, per preparare il terreno all’ultima offensiva.
All’inizio dell’estate, in un clima emergenziale suscitato ad arte dai media, è saltato fuori il codice da imporre alle ONG, pena la chiusura dei porti. Un cappio al collo, che rende nei fatti quasi inutile muoversi nel Mediterraneo. Poliziotti a bordo, strumenti che segnalano la propria posizione, divieto di mettersi lungo le rotte della gente in viaggio. La maggior parte delle Ong non ha sottoscritto il codice. Le minacce della guardia costiera libica di impiegare le armi ha portato al ritiro dal Mediterraneo di gran parte delle imbarcazioni delle Ong ribelli. Mentre scrivo nel canale di Sicilia sono rimaste solo due navi impegnate in operazioni di ricerca e soccorso.
In agosto gli sbarchi sono stati meno di un settimo di quelli dello stesso periodo dell’anno precedente
Il 25 agosto su Middle East Eye compare un articolo di Francesca Mannocchi che ha raccolto numerose testimonianze sugli accordi tra uomini dei servizi segreti italiani e le milizie che controllano la costa libica tra Zawiya e Sabratha, i porti da cui partono la maggior parte delle imbarcazioni dirette in Italia.
Tra Tripoli e Zawiya ci sono meno di 50 chilometri e otto posti di blocco. L’unico modo per raggiungerla è via mare.
“Poche settimane dopo l’emanazione del Codice per le ONG, la costa di Zawiya è avvolta nel silenzio.” (…) Un testimone riferisce “del complesso e delicato equilibrio di potere tra le diverse milizie che gestiscono i vari traffici di esseri umani, petrolio e altro”. “Altre fonti riferiscono che la quiete dei porti tra Zawiya e Sabratha ha un prezzo. Non si spiegherebbe altrimenti come un’area che per anni è stata il crocevia del traffico di esseri umani sia diventata all’improvviso calma.” (…) Il costo negoziato per ottenere il blocco delle partenze per almeno un mese sarebbe di cinque milioni di dollari.
Il governo italiano smentisce qualsiasi accordo con gli scafisti, ma già a fine agosto nuove prove emergono da un articolo  dell’Associated Press. La milizia “Martire Abu Anas al Dabbashi” di Sabratha collabora da anni con il governo italiano, perché si occupa della sicurezza dell’impianto ENI di Mellita.
Assieme alla “Brigata 48” gestiscono tutti i traffici in quel tratto di costa. Entrambe le formazioni armate sono controllate da membri del clan Dabbashi, ossia i “re del traffico di migranti”. Il capo della prima conferma l’intesa con gli italiani.

In questi stessi giorni Minniti ha dichiarato alla stampa di essere “preoccupato per le condizioni dei migranti nelle prigioni libiche”. Alla fiera dell’ipocrisia Minniti avrebbe buone chance di conquistare il primo posto.
Negli stessi giorni è stato stipulato un accordo per la realizzazione di campi di concentramento per immigrati in Ciad, in Mali e in Niger. La ciliegina sulla torta del ministro dell’Interno.
La linea di confine si sposta a sud, oltre il deserto dove i “diritti umani”, nozione sulla quale spesso in Italia si misura l’altrui civiltà, hanno una diversa declinazione.

Una tela sottile
Sapremo presto se il blocco delle partenze, le prigioni nell’Africa subsahariana, lo spostamento su altre rotte dei migranti basterà a frenare l’ascesa di Lega Nord e Movimento Cinque Stelle, che su questi temi stanno giocando tanta parte della loro campagna elettorale. Non che abbia molta importanza chi il prossimo anno siederà sulle poltrone di Gentiloni e Minniti.
La ritirata delle ONG è stata rapida ed indolore per il governo. Non avrebbe potuto essere altrimenti, perché sono sin troppo forti i loro legami istituzionali, la loro dipendenza da finanziamenti pubblici.
Quello che colpisce come un pugno nello stomaco è il silenzio complice dei più, mentre si moltiplicano gli episodi gravi di razzismo e xenofobia. Si allarga il fronte della guerra ai poveri e tra poveri nelle nostre periferie, dove le destre soffiano sul fuoco, dove la precarietà rende difficile immaginare un futuro, dove l’orizzonte appare sempre più chiuso.
Chi sfrutta le nostre vite ci vuole tutti a capo chino, flessibili, disponibili, arrendevoli. Non sempre tutto fila liscio: qua e là il filo che intreccia le vite di indigeni e migranti emerge nelle lotte comuni per la casa, la salute, i trasporti. 
É una tela ancora sottile quella che mescola i fili e le storie, ma poco alla volta potrebbe diventare la trama di un’alleanza di oppressi e sfruttati che si nutre della consapevolezza che la guerra alla gente in viaggio è un episodio della guerra contro chi lotta contro quest’ordine feroce e intollerabile. È una possibilità lieve, un sottile accenno di brezza, che ancora non segna la rottura dei tempi che viviamo.
Chi invece si illude di poter emergere perché il confine si è spostato, perché nuove prigioni rinchiudono i migranti, non sa una verità semplice semplice. Per i governanti e per i padroni siamo tutti pedine sulla scacchiera.
Vuoti a perdere.

(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista) 

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