Categoria: lavoro

Occupazione, sgombero e manganellate. I rider torinesi di Deliveroo in trasferta a Milano

Deliveroo è una multinazionale delle consegne rapide. Si avvale della “collaborazione” di lavoratori non dipendenti, liberi professionisti, che non hanno diritto all’indennità da infortunio, alle ferie, alla mutua, alla previdenza. Nessuna copertura. La compensazione di tale vuoto di tutele sarebbe la libertà di lavorare quanto e quando si vuole.
O no? Sino a poco tempo fa i fattorini dichiaravano la propria disponibilità a lavorare per la settimana, la app che ne governa l’attività confermava o meno i turni richiesti. C’era una paga oraria minima e poi un tot a consegna. Per guadagnare qualcosa era necessario essere molto disponibili per molte ore.
Ora Deliveroo alza il tiro, mira a tenere al guinzaglio i fattorini, lasciando a terra i meno disponibili e flessibili.
La nuova app, già introdotta in vari altri paesi europei, prevede una selezione dei fattorini in base alla loro disponibilità a lavorare, specie nei fine settimana, quando le richieste di consegna aumentano.
Non solo. Deliveroo mira ad introdurre il cottimo. Se non pedali, anche se hai passato ore ad aspettare, non guadagni nulla. Se non pedali in fretta il tuo guadagno sarà risibile.
Non c’è bisogno della frusta: o ti disciplini da solo o non guadagni niente.
Vi ricordate “Samarcanda”? La ballata di Vecchioni dove il protagonista lancia il suo cavallo in una corsa folle, per scoprire che la morte da cui fuggiva lo aspettava all’arrivo?
Lavorare a cottimo è una corsa folle verso Samarcanda.
Secondo una recente indagine Istat la produttività del lavoro e la redditività del capitale hanno avuto una significativa crescita nel 2017.
Queste cifre, tradotte dai numeri ai fatti, ci descrivono la crescita dello sfruttamento dei lavoratori, che lavorano sempre più per sempre meno.
Nulla di nuovo sotto il sole. L’unica novità è la spersonalizzazione del rapporto padrone/lavoratore favorita dalla tecnologia utilizzata. Gli algoritmi che governano le vite dei fattorini sono pensati per rispondere alle esigenze di chi si arricchisce sul lavoro altrui.

Il 20 marzo i rider torinesi hanno deciso di scioperare. Ritrovo nella Casa dei Rider in attesa degli ordini di consegna. Man mano che gli ordini arrivano vengono rifiutati, sino alla paralisi del servizio. Da tempo è stata abolita la possibilità di darsi disponibili anche fuori turno, che consentiva chi non era in servizio di unirsi allo sciopero.

Il giorno dopo i rider si danno appuntamento allo sportello rider: unico momento in cui i fattorini possono incontrare fisicamente responsabili dell’azienda, ormai organizzata in modo totalmente virtuale: firma dei contratti, organizzazione del lavoro e ogni altra comunicazione avvengono on line.
La responsabile rifiuta l’incontro, poi promette di telefonare ai capi a Milano. Poi chiama un taxi e, con gli altri due impiegati si dilegua, chiudendo lo sportello per l’intera giornata.

Di qui la decisione di andare a stanarli nella loro sede centrale a Milano, che sabato scorso è stata occupata e poi sgomberata con la forza.

Nel pomeriggio di venerdì 13 aprile, in occasione dello sportello riders milanese, una ventina tra ciclofattorini e solidali hanno occupato gli uffici di Deliveroo Italia per pretendere delle risposte alle proprie richieste.
I lavoratori si sono presentati con una lettera di rivendicazioni. Matteo Sarzana, il general manager della multinazionale, arriva protetto dalle guardie private. Sarzana, visibilmente nervoso, si attacca alla retorica della precarietà della sua posizione. Siamo tutti sulla stessa barca: chi al timone, chi a remare, chi a sparare su chi non va lesto, chi a contare i soldi guadagnati.
É subito chiaro che Sarzana non molla un centimetro. Chi non china il capo e pedala in silenzio per pochi soldi, è libero di licenziarsi. O, meglio, di rescindere il contratto di collaborazione.
Le chiacchiere di Sarzana servono solo a prendere tempo, il tempo necessario all’arrivo della polizia, che lo “scorta” fuori dall’edificio. La Digos entra e cerca di identificare i lavoratori, che stavano provando ad aprire un tavolo di trattativa.
Di fronte al rifiuto, la polizia politica minaccia di far arrivare l’antisommossa, che poco dopo arriva e si schiera all’esterno, dove accorrono anche alcuni solidali.
In questo caos, i dispatcher, che sovrintendono gli ordini dei fattorini, continuano a pigiare i tasti del loro PC come se nulla fosse.
I guardioni spingono, fanno battute sessiste, provocano. La tensione si alza sia dentro che fuori: guardie private e poliziotti picchiano e manganellano rider e solidali
Un ragazzo viene lievemente ferito alla testa durante gli scontri.
Poi si parte per un breve corteino in zona.

Il giorno dopo la dirigenza della multinazionale emette un comunicato volto ad isolare e criminalizzare i lavoratori in lotta, additati come rivoluzionari di professione, pochi arruffapopoli invisi agli altri lavoratori fidelizzati. Le lotte di questi mesi, gli scioperi con blocco totale delle consegne, dimostrano che Deliveroo gioca la carta della delegittimazione dei lavoratori più attivi nelle lotte, nella speranza di riuscire a spezzare il fronte dei ciclofattorini.
La lotta continua.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Stefano, uno dei rider in lotta

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Macerata. Oltre la cronaca

Sul corpo delle donne si giocano continue partite di “civiltà”. L’omicidio di Pamela Mastropietro, la sua vita trasformata in spettacolo pornografico horror è l’incipit. Le persone indagate per il delitto sono nigeriane, nere, forse pusher. Nei giorni successivi vengono arrestati in tre. Una buona occasione di propaganda elettorale per le destre.
Il 3 febbraio Traini, un leghista con il simbolo di Terza posizione tatuato sulla tempia, si lancia in una caccia all’uomo per le vie di Macerata, insegue sparando undici persone, tutte africane. Le testate italiane titolano: “Sparatoria Macerata, Traini: Volevo vendicare Pamela” (TgCom, cfr.)”; “Macerata, Traini in carcere per strage: Penso a Pamela” (Ansa, cfr.). Il bilancio è di sei feriti, di cui due gravi.

Un fascista spara su gente inerme, colpevole di avere la pelle scura. La tentata strage di Macerata non deflagra sui media. Non è mica l’Isis che brucia ogni altra notizia. La jihad, la guerra santa unisce, trasforma i diversi in eguali, ci “livella”. I terroristi dello Stato islamico sparano nel mucchio per spaventare tutti. Traini sceglie le sue vittime, spara in un mucchio di neri. Tutti colpevoli di esistere, di vivere in Italia, di non essere morti per strada. Tutti uguali. Uomini neri, il babau delle notti di inverno per i bambini pallidi d’Europa.
Sui media c’è chi giustifica e chi applaude.
Gli argomenti di Traini sono fatti propri da Salvini e dall’intera compagnia di giro che lo affianca nella campagna elettorale. Le sei persone ferite da Traini scompaiono, in primo piano solo il viso di Pamela Mastropietro e le foto di uno degli uomini arrestati.
A poche ore dalla tentata strage fascista il centro sociale Sisma di Macerata lancia una manifestazione nazionale antifascista e antirazzista per il 10 febbraio.
Anpi ARCI, Cgil aderiscono alla manifestazione.
Anche i fascisti annunciano iniziative di piazza.
Il sindaco di Macerata vuole annullare il corteo: PD, Anpi, Arci e Cgil seguono a ruota. Ma. Non tutte le ciambelle riescono con il buco. La determinazione degli antifascisti non istituzionali, la rivolta di tante sezioni Arci e Anpi ribalta la situazione.
Il corteo raccoglie oltre 20.000 persone.
Una risposta forte e chiara alle destre e ai fascisti e al governo.
In contemporanea cortei antifascisti attraversano tante città italiane. Un segnale importante, perché coglie l’urgenza dei tempi.

Tempi terribili. L’anestesia dei sentimenti, la loro declinazione secondo le logiche della paura e del ripiegamento identitario, generano normalissimi mostri.
Traini ha messo in scena una rappresentazione studiata lucidamente a tavolino: prima gli spari, il terrore, poi il tricolore in spalla, il braccio teso, il monumento ai caduti. Il ciarpame nazionalista ed identitario per una guerra che non è la “follia” di uno, ma il fascismo che torna. Ben oltre i gruppi che se ne dicono eredi ed appoggiano chi spara ai migranti. Il fascismo è già qui. Da lunghi anni. Decenni di guerre (post)coloniali, respingimenti in mare, leggi razziste, deportazioni, prigioni per migranti, esternalizzazione della violenza, militari in strada, confini blindati, criminalizzazione della solidarietà hanno lasciato il segno. Troppi guardano e tacciono.
Finite le ideologie, le politiche razziste le fanno i governi di centro destra e quelli di centro sinistra. Tanti, troppi, plaudono. Chi non si accontenta delle stragi per procura, dei morti nel deserto, dei torturati nei lager libici, vuole una più radicale pulizia etnica. Traini non è solo. E lo sa. Di fronte al terrorismo fascista si sono sprecati i distinguo, i “ma” i “però”.
I fascisti forniscono la cornice giusta per incanalare la paura, il desiderio di rivalsa verso immigrati e profughi. Ma il nostro oggi non è quello di un secolo fa.
I confini, le linee di demarcazione tra sommersi e salvati, ricalcano quelli coloniali, le patrie, i confini invalicabili, ma non mettono al sicuro nessuno. Chi ha le carte in regola, il passaporto europeo, la cittadinanza italiana, può andare dove vuole, ma non ha alcun porto sicuro dove approdare.
Per i padroni conta il colore dei soldi, non quello della pelle. I poveri, di qualsiasi colore, sono umanità in eccesso.
Per gli scarti non c’è posto.
Il fascismo storico fu una controrivoluzione preventiva attuata per bloccare le insorgenze sociali che avevano fatto tremare i padroni nel biennio rosso. Il fascismo disciplinò con la violenza operai e contadini del BelPaese. L’impero, ottenuto massacrando i civili con l’iprite e le bombe, creò un’illusione di grandezza per i proletari italiani, spinti verso le colonie.
Oggi la conquista dell’Africa la fanno eserciti di professionisti, seguiti da imprese con manodopera intercambiabile, che quando serve si spostano ovunque trovino condizioni migliori. L’industria è sempre più leggera, mobile, senza legami veri con un territorio. Persino la proprietà degli stabilimenti e delle macchine è diventata un peso: meglio il franchising, gli affitti veloci, niente magazzino. Così quando serve si chiude tutto in un batter d’occhio. Non ci sono più certezze, sia pure minime, per nessuno.
Le piccole patrie, il tricolore, il monumento ai caduti danno un ombrello identitario ad un’umanità spaventata e rancorosa. Ma ovunque piovono pietre.
Serve oggi una rivoluzione preventiva che fermi il fascismo, che inceppi la macchina che trita la vite della gente in viaggio.
Non è facile e neppure probabile, tuttavia è impossibile non avvertirne l’urgenza.

Ascolta la cronaca della manifestazione di Macerata per l’info di Blackout di Francesco e l’analisi di Stefano, dell’osservatorio antifascista friulano.

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Argentina. La riforma delle pensioni passa in Parlamento. In migliaia provano ad assaltare il palazzo

La riforma delle pensioni del governo di Mauricio Macrì è stata approvata nella serata del 18 dicembre. Nello stesso giorno era stato proclamato uno sciopero generale, che aveva portato in piazza dalle 250 alle 300 mila persone.
La notte precedente i tamburi dei cacerolazos avevano echeggiato per tutto il paese. Giovedì 14 dicembre il corteo diretto in parlamento era stato attaccato con violenza dalla polizia.
Quattro giorni dopo una manifestazione enorme ha raggiunto il parlamento nel tardo pomeriggio. L’intera area era stata blindata con protezioni metalliche. All’attacco ai blocchi, subito divelti, la polizia ha risposto con cariche di poliziotti in motocicletta che sparavano proiettili di gomma sulla folla. In piazza anche idranti utilizzati per cercare di fermare la folla che continuava ad avanzare.
In più occasioni i manifestanti hanno obbligato la polizia ad indietreggiare. I più decisi sono arrivati a cento metri dall’ingresso.
La gran parte della gente ha resistito in piazza, nonostante l’impiego massiccio di gas lacrimogeni.
La guerriglia urbana è durata diverse ore. La caccia all’uomo anche: circa 80 persone sono state arrestate. Due di loro sono state ferite e sono ricoverate in ospedale: le condizioni di un uno sono molto gravi. Una donna racconta di essere stata investita da una moto della polizia.
Il governo Macrì è riuscito a far passare il taglio delle pensioni, uno degli obiettivi cardine del proprio programma. É riuscito anche a rivitalizzare un’opposizone sociale ampia e sempre più radicale, che è passata dalla difesa all’attacco.
Sapremo presto se quella di ieri sia stata una fiammata isolata o sia il segnale di un’inversione di tendenza, specie rispetto ai sindacati in buona parte asserviti alle politiche governative.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Ivan, un attivista sindacale milanese da tre mesi in Argentina, che ha partecipato alla manifestazione.
L’intervista è stata realizzata prima che terminasse la votazione in parlamento.

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Marica licenziata da Ikea. Lavoratori in sciopero e presidio a Corsico

Il licenziamento di Marica Ricutti ha suscitato forte indignazione culminata oggi in uno sciopero in diversi magazzini italiani della multinazionale svedese.
I fatti sono noti. Marica ha lavorato all’Ikea per 17 anni. É una mamma single con due figli a carico di cui uno disabile. Ricutti, spostata di reparto, di fronte a nuovi orari incompatibili con il lavoro di cura gratuito per i figli, aveva parlato con i dirigenti e concordato altri tempi di lavoro. Ikea, dopo un’iniziale disponibilità verbale dei capi del negozio/magazzino di Corsico, l’ha licenziata.
Le decisioni vere le prende un algoritmo.
I turni di lavoro per i 6500 dipendenti dell’Ikea in Italia li fissa questa macchina. Una macchina, che, al di là dei pregiudizi consolidati, ha dei sentimenti. Sentimenti forti. Ogni sei mesi, a settembre e marzo, sulla base di uno schema prestabilito che contempla il flusso dei clienti, il numero dei lavoratori impiegati e le esigenze di ogni singolo reparto, decide quando, quanto e dove si lavora.
Marica Ricutti lavorava all’Ikea dal 1999: non aveva mai ricevuto un richiamo e nemmeno una contestazione sulla sua professionalità.
Ogni martedì Marica porta suo figlio disabile in un centro specializzato, dove segue una terapia. Il martedì Marica non può entrare al lavoro alle 7 del mattino, come deciso dall’algoritmo. Una macchina con un cuore, un cuore che batte per gli interessi del padrone.

Oggi al magazzino milanese e in diversi altri in Italia l’USB ha indetto uno sciopero di solidarietà con Marica. La CGIL si è limitata al sostegno verbale, partecipando al presidio, senza lanciare la giornata di lotta.
Di fronte al magazzino IKEA di Corsico si sono radunate 200 persone. Tanti lavoratori, tanti anche i solidali.
Tra loro anche un gruppo di femministe della rete Non Una di Meno di Milano, che hanno letto una lettera pubblica di sostegno a Marica.
Qui puoi ascoltare la diretta dell’info di Blackout a Dafne di NUDM Mi.

Fuori dal magazzino il freddo punge ma gli umori sono bollenti. «Ci trattano come mobili da smontare e rimontare. Per loro siamo solo numeri senza diritti».
I lavoratori hanno cartelli con la scritta “Pessima Ikea”
«I nostri turni di lavoro sono regolati da algoritmi. Non siamo più uomini e donne. Solo numeri»
A Corsico l’algoritmo che combina i dati per ottenere il maggior profitto al minor costo per Ikea, è arrivato a decidere 1800 cambi turno al mese su 450 dipendenti.
Lo sciopero di oggi è in appoggio anche ad un altro lavoratore licenziato a Bari, per essere rientrato con cinque minuti di ritardo dalla pausa pranzo. Ad altri due lavoratori di Corsico, licenziati per aver partecipato alle lotte e reintegrati dal giudice, sono ancora in strada, perché le porte dell’azienda restano chiuse.

Negli ultimi cinque anni Ikea ha ridotto le maggiorazioni per la domenica e i festivi mentre il premio di “partecipazione” – il nuovo nome del vecchio premio di produttività – è stato quasi azzerato. Da qualche mese i lavoratori sono anche assegnati ai reparti anche senza formazione specifica. Jolly, usa, sposta, paga poco e getta via, specie se protesta.

Flessibilità è la parola d’ordine nella logistica e nel commercio su grande scala, le catene di montaggio del Terzo Millennio. Chi non ci sta, chi non accetta trasferimenti a centinaia di chilometri, turni spalmati sulle esigenze calcolate dall’algoritmo, viene buttato fuori. Un figlio disabile non è rappresentato tra le variabili matematiche che decidono la vita delle persone.
Il lavoro di cura gratuito è oggi più che mai un destino assegnato alle donne. Chi non riesce a far uscire tutte le sei facce del cubo di Rubik, viene espulsa.

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G7. Oltre il circo mediatico

Il G7 per il governo è stata una mera questione di ordine pubblico. Sin dall’inizio, quando il vertice doveva tenersi tra Torino e Venaria. Lo spostamento alla Reggia, la cancellazione di quasi tutti gli incontri in città, hanno creato lo scenario per l’assedio, solleticando un immaginario da 1789. Peccato che il palazzo di caccia dei Savoia sia solo un museo. Chi ci lavora lo ha bloccato tante volte nell’ultimo anno e mezzo di lotte.
Tant’è. La politica e i media si nutrono di spettacolo, fanno spettacolo quotidiano usa e getta.
Tra la prima e la seconda edizione della Stampa di sabato mattina, due cassonetti bruciati e qualche fuoco d’artificio serale hanno sostituito la cronaca del corteo dei lavoratori in Barriera di Milano, il momento di lotta più vivace e partecipato di venerdì 29, ultimo giorno del vertice, prima della rituale conferenza stampa del giorno successivo.
Nulla di cui stupirsi. L’informazione funziona così. Poco saggio farne lo specchio su cui misurare la propria bellezza. Perchè il coltello dalla parte del manico lo tengono sempre Biancaneve e i suoi sette nani.
Fuori di metafora. Se non si sa uscire dalla fascinazione del circo mediatico si rischia di divenirne una mera variabile dipendente.
D’altra parte, l’informazione – e la propaganda – al tempo della rete riescono in parte a prendere vie proprie, costruendo reti attraverso le quale circolano in tempo reale, foto, audio, video, cronache.
Nel 2001 a Genova l’informazione indipendente fu parte integrante della lotta, contribuendo, almeno in parte, a smontare le verità ufficiali.
Oggi tanta acqua è passata sotto i ponti dei tre fiumi di Torino. La città dell’auto è diventata vetrina luccicante di grandi eventi, mentre le periferie sono luogo di riqualificazioni escludenti.
Sono passati 16 anni da quel G8, tornato G7 dopo la cacciata della Russia putiniana. I movimenti, che in quegli anni scelsero di sfidare i potenti del mondo assediando gli incontri, dove si affinavano le politiche che hanno reso più tagliente e aguzza la piramide sociale, si sono inabissati. Il moltiplicarsi dei fronti di guerra, l’inaridirsi in percorsi paraistituzionali, l’incapacità di cogliere l’occasione di tessere una nuova Internazionale degli oppressi e degli sfruttati, ne hanno segnato la fine.
Oggi, la scarsa reattività dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, dei senza reddito agli attacchi convergenti di governo e padroni, il moltiplicarsi contestuale di misure di disciplinamento sociale, ci mettono di fronte ad una strada tutta in salita.
Una strada sulla quale si rischia di inciampare nel populismo montante, tanto caro a certi antagonisti sedotti dalle fiammate, chiunque le agisca. Foss’anche una santa alleanza tricolore: c’è chi ancora oggi è orfano della tre giorni forcona all’ombra della Mole.

Il contenitore ReSetG7 non ha saputo raccogliere e sintetizzare a pieno le proposte emerse dalle tante anime del movimento. Forse l’obiettivo stesso era poco credibile.

Tra chi ha scelto le periferie della città, lasciando i G7 nella loro residenza di caccia, e chi invece ha puntato sui luoghi e sui simboli, la distanza si è accorciata senza tuttavia mai colmarsi del tutto. Gli uni hanno attraversato le periferie, per dare rappresentazione alle lotte dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, che, sia pure in forme minoritarie, mettono in difficoltà i padroni, spezzano l’ordine, non si piegano alla schiavitù salariata, gli altri si sono concentrati sulla metafora ormai un poco logora dell’assedio, del Palazzo. La Questura, per sfregio, non ha creato una Zona Rossa in cui fosse vietato passare. Né la Reggia, né piazza Carlina, dov’è l’albergo dove sono state ospitate le delegazioni, sono mai state chiuse. Una militarizzazione imponente, ma niente pass, grate, aree proibite. Le grate si sono viste solo in occasione della manifestazione del sabato.

Vale la pena chiarire subito un fatto. Nella tre giorni contro il G7 sono scese in piazza minoranze agenti, mai grandi folle capaci di dare qualche grattacapo ai potenti chiusi nella Reggia.
La radicalità degli obiettivi e il radicamento sociale sono condizioni indispensabili ad innescare processi capaci di mutare senso ai tempi che siamo forzati a vivere. Questo G7 è stato però un’occasione di costruire e rafforzare le relazioni sul territorio in vista delle sfide dell’autunno.
Gli anarchici della FAT, con un ampio fronte di altri gruppi politici e sindacati di base, hanno deciso di giocare questa partita, pur consapevoli del momento non facile per i movimenti a Torino e in Piemonte. Un corteo che partisse da Porta Palazzo, inoltrandosi per le strade di Barriera, sostando a lungo per confrontarsi con la gente, è stato una scommessa vinta. Lo dimostra il suo crescere durante il percorso: tante persone si sono unite alla manifestazione, i negozi sono rimasti aperti e la gente era in strada nonostante la campagna di criminalizzazione degli ultimi giorni.
Carlotta Silvestri e Luca Deri presidenti della sesta e settima circoscrizione di Torino avevano chiesto che il corteo dei lavoratori in Barriera di Milano venisse vietato, perché lo consideravano pericoloso per il decoro e l’ordine pubblico.
In Barriera di Milano la risposta del governo della città e delle circoscrizioni alla povertà, alla disoccupazione, alla precarietà, agli sfratti è da sempre la stessa: tagli ai servizi, alla sanità, ai trasporti, militarizzazione delle strade del quartiere.
Fanno la guerra ai poveri e la chiamano sicurezza. Fanno la guerra ai poveri e la chiamano decoro.
Silvestri e Deri hanno giocato la carta di sempre: criminalizzare l’opposizione sociale, per provare ad annullare la carica sovversiva, di chi vuole farla finita con governi e padroni.
In Barriera hanno manifestato circa 500 lavoratori, precari, disoccupati, le vittime delle politiche dei G7 rinchiusi nella Reggia di Venaria. Tutti insieme dietro allo striscione “Contro i padroni del mondo. La nostra lotta”.
Il corteo ha dato voce a chi agisce le lotte, per dimostrare con i fatti che invertire la rotta è possibile. Per un mondo di liberi ed eguali, autogestito e solidale.
Quest’iniziativa ha rappresentato il tentativo, simbolico e reale, di rimettere al centro le periferie, luoghi dove si può creare la miscela capace di accendere un processo di trasformazione sociale.
Quello stesso giorno un corteo di trecento studenti, cui si è unito un gruppetto di No Tav, ha percorso del vie del centro: un tentativo di avvicinarsi a piazza Carlina è finito con una breve carica. In serata, mentre in Barriera si stava svolgendo l’assemblea finale con cui si è chiuso il corteo dei lavorator*, un centinaio di attivisti si è mosso da Palazzo Nuovo, occupato per la giornata dagli studenti, verso piazza Carlina. Il nutrito lancio di fuochi d’artificio con cui è stata salutata la celere non è stato gradito dalla Questura che ha ordinato una carica finita tra i banchetti della Notte dei ricercatori. I manifestanti si sono coperti la fuga con un paio di cassonetti incendiati.
La manifestazioni erano cominciate giovedì 28 con “Reclaim the street”, la parade che ha attraversato le zone della movida con lo slogan “A noi le strade, a voi i privè”.
Sabato mattina volantinaggio al mercato di corso Cincinnato e un corteo per il quartiere, prima della partenza del corteo pomeridiano diretto alla Reggia, dove era prevista la conferenza stampa finale del G7.
Mille e quattrocento manifestanti, partiti dalle Vallette, hanno attraversato la periferia di Venaria, dove le case dormitorio e la scuola sono accanto ai tralicci dell’alta tensione e alla tangenziale, dirigendosi verso piazza Matteotti, dove comincia la strada pedonale che immette nel piazzale della Reggia.
Gli anarchici della Fat hanno partecipato al corteo con uno spezzone, aperto dallo striscione “Occupiamo le fabbriche, licenziamo padroni e burocrati”.
L’ingresso all’area pedonale era chiuso da grate, camion con idrante e un nugolo di poliziotti dell’antisommossa e digos.
La testa del corteo, a mani nude e con tre carrelli pieni di enormi brioche di gommapiuma, ha cominciato a spingere tra un nugolo di fotoreporter con le maschere antigas. È partita una breve carica, durante la quale la digos è riuscita prendere un manifestante pesarese. Dal corteo sono partiti fuochi d’artificio contro la polizia che ha replicato con un fittissimo lancio di lacrimogeni, che hanno reso l’aria irrespirabile. Il corteo è arretrato in strada. Dopo una mezz’ora nuovo lancio pirotecnico dai manifestanti e nuovo areosol al Cs dalla polizia.
In serata si è saputo dell’arresto di un altro manifestante, fermato dalla polizia e condotto al carcere delle Vallette. Si tratta di un arresto in fragranza differita. Grazie alle legge sulla sicurezza del ministro dell’interno Minniti si sono estesi i poteri delle Questure.

In serata la sindaca di Torino si è congratulata con la polizia, il suo vice Montanari, anima “sinistra” del governo della città, schierato con i manifestanti, si è affrettato a dividerli in buoni e cattivi, per mantenere il piede in due scarpe.

Da domani si ritorna nelle nostre periferie. Per far sì che la paura cambi di campo, per far sì che radicalità e radicamento rendano possibile spezzare l’ordine del mondo disegnato dai G7.

(quest’articolo uscirò sull’ultimo numero di Umanità Nova)

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G7. É tempo che la paura cambi di campo

Il fronte del lavoro pare essersi inabissato nell’immaginario di tanta parte dei movimenti di opposizione. La trasformazione sociale è processo che non incardina più la guerra di classe alla contrapposizione tra capitale e lavoro, tra dominanti e dominati.
Come se la lunga serie di sconfitte degli ultimi trent’anni avesse reso inessenziale questo terreno di lotta, come se la diversa configurazione materiale dello sfruttamento rendesse marginale lo spazio e il tempo del lavoro.
In realtà stato e padroni continuano a fare la guerra di classe con crescente durezza.
Se lo studio era stato una delle maggiori conquiste per i figli dei lavoratori degli anni Settanta, ora, con il trucco dell’alternanza tra scuola e lavoro, i ragazzi vengono avviati alla servitù salariata già negli anni della scuola. Imparare a lavorare gratuitamente è un addestramento al domani che li aspetta. Spesso studenti e famiglie sono complici di questa trappola perché sperano di acquisire punti per affrontare al meglio la giungla lavorativa.

La statalizzazione del movimento dei lavoratori, che nel dopoguerra aveva garantito, a prezzo di lotte molto dure, tutele e diritti, ma ne aveva smorzato la carica rivoluzionaria, sembra essere la ricetta vecchia per i tempi nuovi. Se la disoccupazione – al 10,9% quella generale, al 40% quella giovanile – è divenuta strutturale dopo la quarta rivoluzione industriale, se la precarietà è sempre più diffusa tra chi lavora, la ricetta del reddito garantito dallo Stato è insieme un’illusione e una trappola.
Non per caso il governo ha promosso un’elemosina ad una manciata di persone in povertà assoluta, a condizione che queste si pieghino a condizioni e controlli che ne certifichino la “buona volontà” di uscirne. Il reddito di inclusione stabilisce che la povertà è una colpa, che chi è povero se l’è meritato e per “riemergere” deve comportarsi secondo canoni stabiliti dallo Stato. La ricetta applicata da anni ai rom, sta per essere estesa anche ai poveri italiani.
L’elemosina di Stato, anche se avesse la forma giuridica del diritto e non quella cattolica dell’aiuto, è comunque parte del problema e non la sua soluzione.
La disoccupazione, la precarietà strutturale nei suoi diversi modi, non possono essere affrontate con lotte e trattative rinchiuse nel reticolo statale. Vengono stanziate risorse per gli ammortizzatori del conflitto sociale solo quando la radicalità del conflitto obbliga Stato e padroni a fare un passo indietro. Altrimenti il meglio cui si possa aspirare è un’elemosina offerta in cambio dell’obolo versato nell’urna elettorale.
Perché sprecare le forze grandi o piccole che si riescono a mettere in campo per ottenere quello che Stato e padroni sono disposti concedere in cambio della pace sociale? La pace sociale è un uroboro, un serpente che si morde la coda, perché è il punto di partenza per un nuovo attacco dei padroni.

Non solo.
Le linee di cesura tra oppressi ed oppressori sono molteplici ed è grazie ai movimenti antisessisti, ambientalisti, antirazzisti che se ne è evidenziata l’importanza, offrendo un orizzonte più ampio alla prefigurazione di una diversa organizzazione sociale e politica.
É peraltro merito di chi, nei movimenti, ha evitato la trappola della riduzione della complessità del reale ad un unico orizzonte interpretativo, aver colto la necessità di adottare un punto di vista intersezionale. In altre parole: i fili immaginari che rappresentano le linee di cesura, pur separati per necessità analitica, nei fatti si intrecciano e vanno fotografati nel loro attorcigliarsi, senza privilegiare una chiave esplicativa tra le altre.

L’approccio libertario a questi temi, costitutivamente segnato da una maggiore capacità di cogliere la complessità sociale nei suoi aspetti materiali e culturali, deve tuttavia affinare i propri strumenti analitici.

La sfida è grande, le difficoltà enormi. Prova ne è l’emergere di tentazioni sovraniste, autarchiche, iperstataliste, che aprono la via a formazioni di “sinistra” che approdano a lidi dall’agre sapore rossobruno. Lo stesso successo di una aggregazione costitutivamente ambigua, giustizialista e statalista, liberale e protezionista come il Movimento 5 stelle la dice lunga sulla natura reattiva ed intrinsecamente reazionaria, delle risposte agli effetti della globalizzazione capitalista.
Il rischio, evidente, è la crescita della destra sociale, che i temi della sovranità, dell’intervento statale in economia sa trattarli molto bene, facendo leva sulla paura, sulla chiusura identitaria, sul razzismo.
Il governo Gentiloni, che pure ha segnato un punto alla destra, con gli accordi con le milizie libiche e la cacciata delle Ong dal Mediterraneo, mantiene una politica economica liberale, che ha fatto della precarietà l’orizzonte “normale” di vita per la maggioranza di chi vive nel nostro paese.

É tempo che la paura cambi di campo. É tempo che siano padroni e governanti a dover temere quelle che un tempo, e non per sbaglio, venivano chiamate le classi pericolose. Pericolose per un’ordine del mondo basato sullo sfruttamento, sulla dominazione, sulla schiavitù salariata.
Il G7 lavoro che si svolge alla reggia di Venaria rappresenta una straordinaria occasione per i movimenti di opposizione sociale di smontare la retorica dello sviluppo, della “crescita” infinita, che caratterizza le potenze che ogni anno si incontrano per allineare le politiche sul lavoro, per promuovere le legislazioni che stanno schiacciando sotto un tallone di ferro i chi per vivere deve vendere le proprie capacità ed il proprio tempo.
I lavorator* francesi il 12 settembre hanno dato un segnale forte e chiaro. La prima legge che ha demolito diritti e tutele venne fimata dall’attuale presidente della Republique, Macron. Due anni fa la lunga primavera di lotta contro la Loi Travail dimostrò che “l’emergenza terrorismo”, le leggi speciali e la repressione non fermavano né confondevano chi sapeva che i propri nemici siedono sui banchi del governo e nei consigli di amministrazione di banche ed aziende.

Il G7 sarà anche un’occasione per rimettere al centro chi agisce le lotte, grandi e piccole, che provano a fare del male alla controparte, per obbligarla a fare un passo indietro, sul terreno del salario, della sicurezza, dell’orario lavorativo, della qualità dei servizi nelle scuole, negli ospedali, nei trasporti.

La decisione di fare un corteo in periferia, in Barriera di Milano, è la scommessa di riannodare i fili della guerra di classe, in un quartiere dove la lotta per la casa, il reddito, la servitù del lavoro è anche lotta contro la militarizzazione, le retate, le repressione. Sono passati cent’anni dall’agosto 1917. La Barriera era al centro dello sciopero generale e dell’insurrezione contro la guerra e la fame. Le barricate messe a difesa del quartiere sono incise nella memoria di chi oggi ha raccolto il testimone di quelle lotte.
Il corteo del 29 settembre attraverserà le strade del quartiere e si concluderà con un’assemblea in cui prenderanno parola i protagonisti delle lotte. Gli addetti alle pulizie nelle scuole, i lavoratori dei trasporti e della logistica, quelli delle fabbriche, i precari e i fattorini, gli immigrati sotto il ricatto della clandestinità.

Il corteo che, il giorno successivo, da un’altra periferia, quella delle case dormitorio, tra il carcere e lo stadio si dirigerà verso la Reggia blindatissima dove si svolgerà il vertice, è legato alla dimensione simbolica della rappresentazione pubblica dell’inimicizia verso una bella fetta dei signori del mondo. La scommessa è che anche questo corteo abbia una ampia partecipazione popolare, che dia un segnale forte e chiaro in vista delle sfide durissime dei prossimi mesi

Che i signori del mondo sappiano che ci sarà la pace sociale quando gerarchia, oppressione, sfruttamento saranno solo parole sui libri di storia.

(questo articolo è uscito sull’ultimo numero di Umanità Nova)

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Contro il G7 lavoro. Per un mondo senza servi e senza padroni

Contro il G7 lavoro. Tutti a Torino per gettare sabbia nel motore dei potenti!

A fine settembre alla reggia di Venaria si incontreranno i ministri del lavoro, dell’industria e della ricerca di Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Francia, Giappone, Germania e Canada.
L’incontro doveva svolgersi a Torino, ma in luglio gli appuntamenti torinesi, comprese le cene e le visite culturali, sono stati cancellati o spostati a Venaria. Solo gli sherpa delle delegazioni verranno ospitati nell’albergo di lusso di piazza Carlina, fiore all’occhiello della “nuova” Torino, quella che negli ultimi vent’anni ha allontanato dal centro gli abitanti più poveri, cambiando poco a poco pelle.

La decisione di relegare il summit nella reggia di Venaria è stata presa perché il governo teme le contestazioni di chi non ha casa, reddito, pensione, di chi fa mille lavori precari e supersfruttati, di chi non crede che il lavoro gratuito sia educativo.
Il governo ha paura che tanti si ribellino a chi sta costruendo un futuro peggiore del presente che siamo forzati a vivere.
L’impegno dei movimenti sociali in vista del G7 è ovviamente di rendere reali i timori di Gentiloni, Minniti, Padoan…
Torino è stata per decenni uno dei laboratori, dove si sono sperimentate imponenti strategie di asservimento e controllo sociale, indispensabili alle grandi trasformazioni in atto. È quindi luogo simbolico e reale di uno scontro di classe durissimo, dove governanti e padroni, nonostante i tanti punti segnati, esitano a confrontarsi.

Dall’auto al Luna Park
Torino si è convertita da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria.
L’amministrazione è stata per decenni nelle mani del Partito Democratico.
Oggi governano i Cinque Stelle. Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche, dai padroni, da settori del movimento No Tav, da alcuni centri sociali e dai comitati xenofobi e razzisti. Un gran minestrone sulla cui tenuta è lecito interrogarsi, senza tuttavia farsi eccessive illusioni su possibili rapide implosioni.
Appendino imita Fassino: fa la guerra ai rom delle baracche lungo la Stura, sguinzaglia i vigili urbani a caccia di mendicanti, lavavetri, spacciatori di accendini, senza casa.
Chi aveva creduto alla retorica della partecipazione sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. La sindaca a Cinquestelle ha subito applicato le leggi del governo Gentiloni sulla sicurezza urbana. É finita con le cariche della celere contro chi beveva una birretta in via santa Giulia.

La criminalizzazione della povertà
Lo scorso 29 agosto il consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo che attua la legge, approvata nel marzo scorso, sul reddito di inclusione (ReI). Una manciata di soldi per una minoranza esigua, una mossa dallo squisito sapore elettorale. Ma anche un ulteriore salto di paradigma. I beneficiari degli assegni vengono messi sotto tutela, sottoposti al costante controllo dei servizi sociali, perché sono tenuti a dimostrare di voler uscire da uno stato del quale sono considerati responsabili.
È la quadratura del cerchio del governo del nobile Gentiloni. Per chi si piega c’è l’elemosina di Stato, per chi lotta multe, galera, manganelli e daspo urbano.
Se sei povero la responsabilità è tua, non di chi si arricchisce sul lavoro altrui, non di un sistema politico e sociale che nega una vita decorosa alla maggior parte della popolazione del pianeta.
Per il governo chi occupa una casa vuota offende il decoro, i proprietari che affittano a prezzi altissimi sono invece bravi cittadini.

Ci raccontano che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo.
Il governo dice che non ci sono soldi per ospedali, trasporti locali, scuole. Ma spende 68 milioni di euro al giorno per fare la guerra.
Gentiloni investe in telecamere, polizia, militari per le strade. L’Italia ha pagato le milizie che controllano la costa libica e gestiscono il traffico di esseri umani, petrolio e armi, perché blocchino i profughi delle guerre combattute con armi made in Italy. In agosto sono seccamente diminuiti gli sbarchi. Chi resta intrappolato finisce nelle galere libiche, dove omicidi, torture, ricatti e stupri sono il pane quotidiano. Nuovi lager stanno sorgendo nel cuore dell’Africa subsahariana.
Il candidato premier a 5Stelle Di Maio plaude la violenza poliziesca contro gli immigrati del ministro dem Minniti.

Sul fronte del lavoro
In questi anni i padroni si sono arricchiti, i poveri sono diventati più poveri.
Il lavoro non c’è o è precario, pericoloso, malpagato.
Il job act ha fatto piazza pulita delle poche tutele rimaste a chi lavora, lasciando mano libera ai padroni.
Soffiano sul fuoco della guerra tra poveri, per mettere i lavoratori italiani contro quelli immigrati. Ci vogliono divisi per poterci meglio comandare e sfruttare.
Chi si fa ricco con il lavoro altrui non guarda in faccia nessuno. Chi governa racconta la favola che sfruttati e sfruttatori stanno sulla stessa barca ed elargisce continui regali ai padroni.
Il governo vuole la fine delle lotta di classe, la resa senza condizioni dei lavoratori.
Cigl, Cisl e Uil, veri sindacati di Stato, firmano contratti indecenti, frenano le lotte, pur di mantenere i propri burocrati e i propri privilegi.
C’è chi non ci sta, chi si ribella ad un destino già scritto, chi vuole riprendersi il futuro.
Sono gli antimilitaristi, che lottano contro le basi militari, le fabbriche d’armi, la militarizzazione dei nostri quartieri. Sono i prigionieri dei CIE che bruciano le celle e scavalcano i muri. Sono gli sfrattati che non si rassegnano alla strada e si prendono le case vuote. Sono i lavoratori che bloccano e occupano magazzini e strade per vivere meglio.

Questo G7 è un occasione per dare visibilità a chi lotta, per riprenderci le periferie, per dimostrare, che al di là della retorica su sviluppo, innovazione, ricerca, il vertice di Venaria è solo la vetrina lucida dietro alla quale c’è una realtà dove tanta parte del genere umano è diventata inutile, persino per chi si fa ricco sulla povertà altrui. Chi lavora è una pedina intercambiabile in una macchina che corre veloce la sua corsa senza limiti. Neppure quelli fisici di un pianeta allo stremo.

Per qualcuno la partita si gioca nella visibilità mediatica delle contestazioni, a costo di relegarle in zone in bilico tra il nulla metropolitano e i quartieri dormitorio della Torino del secolo scorso. Per tanti altri il vertice è una buona occasione per raccogliere le forze in vista delle dure sfide dell’autunno.
Le aree post autonome, come di consueto si muovono cercando di mantenere il complesso equilibrio tra conflitto di piazza ed interlocuzioni istituzionali in vista della tornata elettorale di primavera. Nonostante il fallimento della partita sul referendum costituzionale, continuano ad agitare lo spauracchio del ducetto di Rignano, ma sono in affanno di fronte all’esplicitarsi delle posizioni paraleghiste del premier in pectore Di Maio.
I sindacati di base non hanno saputo cogliere l’occasione, strangolati dalla competizione intorno ai rituali scioperi d’autunno, ed hanno annunciato e poi ritirato lo sciopero del 29 settembre.

Nonostante queste indubbie difficoltà ampi settori di movimento si stanno organizzando in vista del G7. Iniziative si svolgeranno in tutto il mese con un focus sul 28, 29 e 30 settembre, quando sono previste le principali manifestazioni.

Gli anarchici federati di Torino stanno costruendo spezzoni rossi e neri e fanno appello a tutti per una partecipazione ampia.

Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, aprendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, intessendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali.

Roviniamo la vetrina dei padroni del mondo! No al G7!
Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile.
Tocca a noi costruirlo.

Ecco gli appuntamenti per gli spezzoni rossoneri:

Venerdì 29 settembre
ore 17,30
Corteo dei lavoratori e delle lavoratrici contro il G7
Partenza da Corso G. Cesare
n. 11, vicino a Porta Palazzo (ex stazione Torino-Ceres)
assemblea finale ai giardinetti tra corso Giulio e via Montanaro

Sabato 30 settembre
ore 14
Corteo contro il G7
Ritrovo quartiere Vallette in
direzione Reggia di Venaria

per info: fai_to@inrete.it

i compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

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Reddito di schiavitù

Il 29 agosto il consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo che attua la legge, approvata nel marzo scorso, sul reddito di inclusione (ReI).
Il presidente del consiglio Gentiloni sostiene che per la prima volta l’Italia si dota di uno strumento contro la povertà. Il ministro del lavoro Poletti parla di una legge che impegna tutte le istituzioni a stare a fianco dei più poveri, “uno strumento che abbiamo costruito attraverso un rapporto di dialogo e di positiva collaborazione con le associazioni rappresentate dall’Alleanza contro la povertà”.
Vale la pena dare un’occhiata alla fredda realtà dei numeri.
Il ReI è una goccia nel mare: le persone in povertà assoluta (cioè in condizione di incapacità di acquisire i beni e i servizi, necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabile) sono 4 milioni e 600 mila, secondo i dati Istat relativi al 2015, e nel 2016 non sono certo diminuite. Il provvedimento del governo, che andrà a regime nel gennaio 2018, riguarderà solo pochi fortunati: un milione e ottocentomila persone, magari raccomandate dall’Alleanza “per” la povertà. La cifra impegnata è ridicola: per il solo servizio del debito (interessi passivi ecc.) il governo italiano paga più di ottanta miliardi l’anno, che vanno nelle tasche delle banche, dell’aristocrazia finanziaria, degli specultatori.
Per dare un’idea dell’impegno del governo e dell’importanza che dà alla lotta contro la povertà, basta pensare che il solo rigassificatore offshore di Livorno, ormeggiato da anni al largo e inattivo, è costato 900 milioni di euro, più della metà del fondo stanziato per il 2018. La sollecitudine è dimostrata dal fatto che si attende il 2018 per dare attuazione ad una legge approvata nel marzo 2017. Forse il Governo spera che qualcuno nell’attesa muoia di malattie, di freddo o di fame, così da risparmiare ancora qualcosa.

In realtà, si tratta di una vittoria politica delle organizzazioni legate alla gerarchia vaticana. L’interlocutore del governo, l’Alleanza contro la povertà in Italia, nasce da un’idea di Cristiano Gori, docente all’Università Cattolica di Milano, ed è promossa grazie al contributo delle Acli. Le Acli curano il coordinamento politico-organizzativo. La partecipazione all’Alleanza è aperta a tutti i soggetti sociali interessati alla lotta contro la povertà assoluta in Italia; aderiscono al momento all’alleanza Acli, Action Aid, Anci, Azione Cattolica Italiana, Caritas Italiana, Cgil- Cisl-Uil, Cnca, Comunità di S. Egidio, Confcooperative, Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli Consiglio Nazionale Italiano – ONLUS, fio.PSD, Fondazione Banco Alimentare ONLUS, Forum Nazionale del Terzo Settore, Lega delle Autonomie, Movimento dei Focolari, Save the Children, Jesuit Social Network.

Spostare la questione del reddito dal salario e dai servizi sociali all’assistenza legata al controllo sociale è una vittoria della borghesia e della interpretazione cattolica dei rapporti fra le classi sociali.
Del resto, per gli sfruttati, per i ceti popolari l’azione del governo è sempre una minaccia: i fondi per la sedicente lotta alla povertà sono stati tolti ai servizi sociali, alla scuola, alla sanità: si combatte la povertà accentuandone le cause: tagli all’assistenza, alla sanità, alla scuola; tagli alle pensioni e all’occupazione. Qualsiasi cosa faccia il governo, segua una politica di austerità o di investimenti, a pagare sono sempre le classi subordinate.

Se l’egemonia cattolica è evidente nella nascita e nell’organizzazione dell’Alleanza, altrettanto chiara lo è nella linea politica. Il documento costitutivo prende atto della povertà crescente, e del fatto che questa povertà non scomparirà con la fine della crisi economica. Al tempo stesso prende atto della maggiore difficoltà in cui si trovano i ceti svantaggiati, a causa dei tagli che hanno colpito le varie forme di assistenza, i servizi pubblici, la sanità, la scuola. Ma la presa d’atto del fenomeno della povertà e di alcune delle sue cause politiche e sociali non si trasforma in un’azione concreta per la rimozione di queste cause, si limita ad un’azione volta da una parte ad alleviare gli eccessi, mentre d’altra parte colpevolizza la vittima dell’impoverimento dovuto alla vittoria dei padroni nella guerra di classe degli ultimi trent’anni. L’Alleanza contro la povertà sostiene infatti che il contributo economico deve essere accompagnato da servizi alla persona, volti ad organizzare diversamente la propria vita e ad impegnarsi per uscire dalla povertà: “chi è in povertà assoluta ha diritto al sostegno pubblico e il dovere d’impegnarsi a compiere ogni azione utile a superare tale situazione”, si sostiene nel documento costitutivo dell’Alleanza.

Mentre gli strumenti legati alla prestazione lavorativa, come la Cassa Integrazione Guadagni o la defunta assicurazione contro la disoccupazione involontaria, non prevedono alcun impegno attivo, cioè riconoscono la non responsabilità del lavoratore nella crisi o nella disoccupazione, la colpevolizzazione del povero è il perno del reddito di inclusione, perché prevede che, oltre all’evidente stato di necessità, certificato dall’ISE, si accompagni un impegno concreto per uscire dallo stato di bisogno, seguendo un percorso elaborato dalle strutture di servizi. In questo modo si ottengono due risultati: si separa il reddito dalla prestazione lavorativa, diventa pura e semplice elargizione caritatevole; si trasforma il reddito, il ReI, in uno strumento di controllo sociale: tutti i comportamenti devianti, come l’autorganizzazione, l’azione diretta, per non parlare della partecipazione ad organizzazioni politiche o sindacali sovversive, potranno essere usati per dimostrare il non adempimento del percorso, e quindi la possibile revoca della misura economica.

L’info di Blackout ne ha parlato con Tiziano, autore di due approfondimenti usciti su Umanità Nova.

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I berberi del Rif come i Cabili?

Sono passati 16 anni dalla rivolta che scosse la Cabilia, la regione algerina abitata da popolazioni di lingua e cultura berbera.

La rivolta scattata nel Rif marocchino da maggio, che qualcuno ha paragonato a quella del 2011 in Tunisia, pare invece l’eco di quella algerina di inizio secolo.

Il Rif è la regione più povera e ribelle del regno del Marocco. All’inizio del secolo scorso Abd-el-Krim al Chattaabi, guidò una rivolta berbera, che tenne in scacco per anni le due Francia e Spagna.

Regione montuosa del nord del paese, è una delle parti più povere del regno di Mohammed VI, dove la rivolta cova sotto le ceneri.

La scintilla della rivolta è stata la morte di un venditore abusivo di pesce, stritolato intenzionalmente nel camion dell’immondizia nel quale era stato gettata la merce che gli era stata sequestrata. L’uomo aveva sfidato le autorità a macinarlo con il pesce ed è stato accontentato.
Le immagini di questa morte crudele e ingiusta hanno innescato una rivolta che dura.

I rivoltosi non hanno un progetto politico e sociale di vasto respiro. Le lotte si dipanano intorno ad alcuni obiettivi precisi: lavoro, centri culturali, scuole, fine della corruzione e della disoccupazione.
Obiettivi che rendono simile questa rivolta del Rif alla lotta dei berberi della Cabilia che, abbandonate aspirazioni stataliste, diedero vita a percorsi di autonomia e federalismo.

L’info di radio Blackout ne ha parlato con Karim Metref, un torinese di origine cabila.

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