Categoria: controllo

Pistole elettriche: tortura di Stato

Il taser, la pistola elettrica, già in uso alla forze dell’ordine di vari paesi, tra cui gli Stati Uniti e la Svizzera, verrà sperimentata anche in sei città italiane.
Il taser, dal nome della più nota delle ditte produttrici, sarebbe un’arma non letale, usata per immobilizzare con il dolore non per uccidere.
La realtà è molto diversa.
Il quadro che emerge dai paesi dove il taser è in dotazione alle forze dell’ordine da un paio di decenni, è molto diverso.
La pistola elettrica, oltre ad essere un evidente strumento di tortura, in più occasioni ha ucciso.
Secondo Amnesty International i morti, solo negli Stati Uniti, sono tra gli ottocento e i mille in meno di vent’anni.
Nel 2007 l’ONU, che certo non può essere sospettata di inclinazioni sovversive, ha dichiarato che il taser è uno strumento di tortura.

Il principio è lo stesso dell’elettroshock: cambia solo la durata della scarica. Chi viene colpito riceve una scarica ad alta tensione e bassa intensità di corrente, che ne paralizzerà i movimenti facendo contrarre violentemente i muscoli.
È stato inventato alla fine degli anni Sessanta, ma i modelli che permettono l’immobilizzazione totale di una persona sono stati progettati a partire dalla fine degli anni Novanta.
La scarica è calibrata sul peso medio delle persone: da 50 a 90 kili. Spesso persone obese, sono state colpite due volte di seguito, perché la prima scarica non era sufficiente a bloccare. La seconda invece è spesso letale. I malati di cuore sono a rischio se colpiti dal taser.

In Svizzera, dove è in dotazione alle autorità cantonali, viene usato per spaventare e torturare i migranti, che protestano contro i rimpatri coatti. La polizia francese lo ha utilizzato alla frontiera di Ventimiglia.

Come tutte le armi “non letali” ha regole d’uso meno rigide rispetto alle armi da fuoco. La consapevolezza degli effetti terribili di questa pistola elettrica e della facilità con cui può essere usata costituisce una minaccia potente.

Il modello più pericoloso è quello a doppia carica, che consente di sparare due scariche consecutive, senza necessità di ricarica. Inutile dire nel nostro paese è stato adottato proprio quello.

In Italia la sperimentazione è partita il 20 marzo in sei province: Milano, Brindisi, Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia. In una seconda fase si andrà a regime in tutta Italia. La procedura coinvolge poliziotti e carabinieri.

Ascolta la diretta di radio Blackout con Robertino Barbieri, di Psycoatthiva

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Meltdown e Spectre. Due bug nei processori dei nostri pc, tablet, smartphone

Sarebbero le più gravi vulnerabilità del millennio. Si tratta di un errore di progettazione, che risale ad un’epoca remota per i marchingegni elettronici, il 1995. Da allora sono passati 23 anni. Quest’errore riguarda i processori di quasi tutti i dispositivi che utilizziamo quotidianamente – Server, Server Cloud, PC Windows e Linux, MAC, smartphone, tablet.

Il bug permette ad programma malevolo, creato appositamente, di eseguire sul dispositivo attaccato operazioni non autorizzate, non volute, che possono portare al furto di diverse informazioni, anche molto riservate, come password, chiavi crittografiche e molto altro. Nel caso in cui si sia stati vittima dell’attacco, inoltre, è quasi impossibile scoprirlo.
Non si tratta di una falla in un software, ma di un buco nell’architettura materiale dei nostri dispositivi.

Di che si tratta?
I moderni processori hanno una funzionalità che permette di velocizzare l’esecuzione dei programmi, basandosi su “speculazioni”, su cosa è probabile che il programma chieda nelle prossime operazioni, così da precalcolarle, per avere i risultati “già elaborati” quando necessario.
Un errore nel disegno di tale funzionalità può permettere ad un programma malevolo, eseguito sul dispositivo attaccato, di “evadere” la normale segregazione tra applicazioni. Su un dispositivo personale significa leggere i dati in RAM di altre applicazioni. Queste vulnerabilità sono così gravi che in ambienti enterprise, invece, permettono da una istanza virtuale di leggere i dati di altre istanze (si pensi ad infrastrutture Citrix, XEN, CMWare, AWS, Azure, etc etc).

Meltdown affligge solo i processori Intel. È il più semplice da sfruttare ed anche il più semplice da rimediare, per il quale sono già disponibili le patch da parte di diversi produttori.
Di fatto Metdown era già noto da almeno 15 anni. Peccato che fosse noto solo ai produttori e a chi lo ha utilizzato per spiare.

Spectre, tocca i processori Intel, AMD ed ARM. Più difficile da utilizzare, è anche il grave e più difficile da correggere. Probabilmente ne discuteremo e ne subiremo le conseguenze ancora a lungo.
Gli aggiornamenti disponibili di fatto disabilitano la funzione che permette di “predire” le prossime operazioni, causando rallentamenti fino al 20/30% dell’hardware posseduto.
Questi aggiornamenti eliminando la capacità di “predizioni” del processore lo proteggono da intrusioni, ma ne peggiorano le prestazioni.
Facciamo un esempio. Noi decidiamo di sistemare la stanza in cui viviamo e comunichiamo al nostro fedele amico le nostre intenzioni. Il nostro amico provvede ad elaborare una decina di scenari per la mia stanza. Così, appena decido di imbiancarla, mi trovo subito diversi piani disponibili per lo spostamento dei mobili, l’acquisto di vernici e pennelli, le opzioni di spesa, le possibilità di risistemazioni dei mobili o l’acquisto di nuovi. Un paio di click ed è fatta. Se elimino la capacità predittiva del mio amico, dovrò cercare da me le soluzioni possibili. Lui me le fornirà comunque, ma impiegherò molto più tempo.

A questo punto abbiamo capito come funzionano questi Bug.
Resta tuttavia un dubbio. Perché non siamo stati informati subito? Perché Meltdown agisce da anni senza che chi acquista e usa apparecchi elettronici lo abbia saputo subito?

Perchè Intel sapeva della vulnerabilità dei suoi processori e non ha detto nulla? Voleva trovare prima il tappabuchi, per non scoraggiare gli acquirenti? Oppure ha subito pressioni da qualcuno abbastanza forte per farle, affinché non la tenesse segreta?

Ci sono diversi scenari che rendono possibili varie ipotesi.

Ipotesi “etica”. Trovo una falla e ne informo solo il produttore. Aspetto a dirlo a tutti finché il buco non è stato tappato.

Ipotesi “hacker”. Non comunico la falla al produttore e la tengo per me per sfruttarla se mi dovesse servire.

Ipotesi “mercantile”. Non comunico la falla al produttore e la vendo al mercato nero, per farla usare da qualcun altro che mi darà dei bei soldi a seconda della gravità del buco.

Ipotesi “spia” non comunico al produttore la falla e la regalo ad enti come l’NSA per sfruttarla nella cyberwar

Questa vicenda ci racconta l’enorme difficoltà nel difendere i nostri dati, una merce, che in un’epoca post cyberpunk, vale più del petrolio.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Federico Pinca, redattore di Blackout e conduttore del “Bit c’è e non c’é”

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Fine della Net Neutrality?

Il 14 dicembre 2017 la neutralità della rete è morta, almeno negli Stati Uniti. La commissione direttiva della FCC (Federal Communications Commission) ha abolito le norme che garantivano parità di accesso a tutti. Norme sostenute sia dall’amministrazione Obama sia dai grandi gruppi tecnologici della Silicon valley.
Pochi minuti dopo la decisione della commissione, presa con tre voti contro 2, diversi politici hanno annunciato un’azione legale appoggiata da più Stati per annullare questa decisione. Gli attivisti in difesa della Net neutrality hanno attuato proteste immediate e ne hanno annunciate di nuove.
Oggi la partita l’ha vinta l’industria delle telecomunicazioni che potrebbe trarne vantaggi enormi.

Ma… facciamo un passo indietro. Che cos’è la Net Neutrality?
Per comprendere il concetto di net neutrality occorre tornare alla seconda metà dell’Ottocento. All’epoca naturalmente Internet non esisteva, ma garantire il passaggio delle informazioni senza limitazioni e discriminazioni era un’esigenza condivisa. Erano gli anni in cui si emergevano nuovi e potenti mezzi di comunicazione come il telegrafo. Negli Stati Uniti il discorso sulla neutralità delle reti si affermò e si diffuse in quel periodo, fissando una regola base: tutto il traffico su un determinato mezzo di trasmissione (o di trasporto) deve essere trattato allo stesso modo.

Il concetto attuale di net neutrality applicato a Internet è invece molto più recente, e risale a una quindicina di anni fa. Fu introdotto per la prima volta nel 2002 da Tim Wu, ora docente di legge presso la Columbia Law School di New York, autore di una ricerca in cui si ipotizzava di introdurre una regola chiara per evitare discriminazioni nella trasmissione dei contenuti su Internet.

Semplificando: per collegarsi a Internet ognuno di noi deve passare attraverso un provider, una società che fisicamente gestisce il collegamento dalla propria casa ai suoi centri dati, che a loro volta permettono di accedere a qualsiasi sito in ogni parte del mondo. I provider fino a ora si sono comportati come fanno le poste con le lettere ordinarie: consegnano cose da X a Y senza tenere in considerazione il loro contenuto, trattando quindi ogni busta allo stesso modo e senza fare favoritismi. Chi sostiene la neutralità della rete vuole che le cose continuino a essere così, senza discriminazioni.
Più nello specifico, secondo i principi della net neutrality un provider non può bloccare o rallentare l’accesso a particolari siti o servizi online. Allo stesso modo, le società che danno le connessioni non possono nemmeno creare corsie preferenziali per fare in modo che un contenuto sia caricato più velocemente di un altro.
Così come una telefonata di Tizio deve essere inoltrata al ricevente nello stesso modo in cui avviene per una chiamata di Caio, i provider devono fare arrivare a un computer un video di YouTube o il post di un blog semisconosciuto senza limitazioni che penalizzino uno dei due. Per dirla più chiaramente: per la net neutrality il provider non può limitare la quantità di banda destinata a raggiungere un certo sito Internet rispetto a un altro, o destinata all’utilizzo di un certo software rispetto a un altro. Nè quindi proporre offerte commerciali basate su questo genere di differenziazioni (un abbonamento Internet per le news, un abbonamento Internet per i video, oppure uno che penalizza il traffico dei software di file-sharing, eccetera).
In sintesi: una rete informativa pubblica deve garantire un trattamento uguale a ogni tipo di contenuto che viene veicolato attraverso internet, senza discriminare alcuni flussi di dati rispetto ad altri.

Le conseguenze della fine della net neutrality anche in Europa potrebbero essere enormi.

Compagnie come Fastweb, Telecom, o Tim potrebbero offrire un contratto base che include navigazione di base ed e-mail, diciamo a 15 euro al mese, per poi inserire dei pacchetti a pagamento con servizi aggiuntivi. Cinque euro per lo streaming video (Youtube, Netflix), altri cinque per la musica in streaming e così via.
Da oggi dunque gli Internet Service Provider (ISP) avranno piena libertà di gestire le proprie offerte proponendo pacchetti diversi che discriminano il tipo di dati trasferiti.
I guai aumentano, specie in Italia, dove un ISP è anche un fornitore di contenuti. Ad esempio nel nostro paese TIM ha TIM Vision, Fastweb sponsorizza l’uso di Sky, Vodafone ha il suo servizio di film e serie TV.
Immaginiamo un ipotetico futuro in cui Telecom si accorda con Google per far sì che l’accesso a Youtube sia superveloce, mentre l’accesso a Vimeo, concorrente di Youtube, sia rallentato. Oppure immaginiamo che Fastweb decida di rallentare la trasmissione dei contenuti di una compagnia “rivale”, ad esempio Netflix, ai suoi clienti, e che Netflix per continuare a fornire un servizio adeguato e non perdere i clienti che accedono ad internet attraverso Fastweb sia costretto a pagare una tariffa aggiuntiva per una maggior velocità di streaming. Secondo voi il prezzo dell’abbonamento a Netflix rimarrà lo stesso?

A farne le spese sarebbero, va da se, i siti senza pubblicità e intenzionalmente fuori dal mercato.
Negli Stati Uniti le compagnie di telecomunicazione hanno assicurato ai consumatori che internet non cambierà da oggi a domani. Il veleno sarà iniettato goccia a goccia. Finché l’intossicazione sarà collettiva e le forme di resistenza inutili.

In Europa per il momento non cambia nulla, anche se è improbabile che la decisione statunitense non abbia effetti pesanti anche da questo lato dell’Atlantico.
Nel 2016 l’Unione Europea ha pubblicato alcune linee guida per il rispetto e la tutela della Net Neutrality. I vari paesi membri vi hanno aderito più o meno esplicitamente, anche se negli ultimi anni diversi operatori hanno immesso sul mercato alcune offerte in chiaro contrasto con queste norme. Ad esempio l’opportunità di utilizzare alcune app senza consumare i vari GB di traffico inclusi nel proprio piano tariffario. È evidente come abbonamenti di questo tipo favoriscano la fruizione delle app incluse nell’offerta a discapito di quelle concorrenti.
La tolleranza verso queste situazioni da parte delle istituzioni e degli enti incaricati di sorvegliare il rispetto dei principi di neutralità ci danno la misura del rischio di un futuro adattamento a questa politica anche da parte dell’Unione Europea.
Internet come l’abbiamo conosciuta fin ora presto potrebbe cambiare in una versione ancora più succube e influenzata dai meccanismi del capitalismo di quanto non sia già oggi.
La neutralità della rete, come il diritto ad accedervi, sarà un terreno di lotta importante nei prossimi anni.

Altrettanto importante lavorare per una rete decentralizzata, libera dalla schiavitù del reticolo materiale che sostiene la rete virtuale, una rete che i governi e le grandi aziende del web non possano facilmente controllare e mettere a profitto.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Federico Pinca de “Il Bit c’è e non c’é”

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Marica licenziata da Ikea. Lavoratori in sciopero e presidio a Corsico

Il licenziamento di Marica Ricutti ha suscitato forte indignazione culminata oggi in uno sciopero in diversi magazzini italiani della multinazionale svedese.
I fatti sono noti. Marica ha lavorato all’Ikea per 17 anni. É una mamma single con due figli a carico di cui uno disabile. Ricutti, spostata di reparto, di fronte a nuovi orari incompatibili con il lavoro di cura gratuito per i figli, aveva parlato con i dirigenti e concordato altri tempi di lavoro. Ikea, dopo un’iniziale disponibilità verbale dei capi del negozio/magazzino di Corsico, l’ha licenziata.
Le decisioni vere le prende un algoritmo.
I turni di lavoro per i 6500 dipendenti dell’Ikea in Italia li fissa questa macchina. Una macchina, che, al di là dei pregiudizi consolidati, ha dei sentimenti. Sentimenti forti. Ogni sei mesi, a settembre e marzo, sulla base di uno schema prestabilito che contempla il flusso dei clienti, il numero dei lavoratori impiegati e le esigenze di ogni singolo reparto, decide quando, quanto e dove si lavora.
Marica Ricutti lavorava all’Ikea dal 1999: non aveva mai ricevuto un richiamo e nemmeno una contestazione sulla sua professionalità.
Ogni martedì Marica porta suo figlio disabile in un centro specializzato, dove segue una terapia. Il martedì Marica non può entrare al lavoro alle 7 del mattino, come deciso dall’algoritmo. Una macchina con un cuore, un cuore che batte per gli interessi del padrone.

Oggi al magazzino milanese e in diversi altri in Italia l’USB ha indetto uno sciopero di solidarietà con Marica. La CGIL si è limitata al sostegno verbale, partecipando al presidio, senza lanciare la giornata di lotta.
Di fronte al magazzino IKEA di Corsico si sono radunate 200 persone. Tanti lavoratori, tanti anche i solidali.
Tra loro anche un gruppo di femministe della rete Non Una di Meno di Milano, che hanno letto una lettera pubblica di sostegno a Marica.
Qui puoi ascoltare la diretta dell’info di Blackout a Dafne di NUDM Mi.

Fuori dal magazzino il freddo punge ma gli umori sono bollenti. «Ci trattano come mobili da smontare e rimontare. Per loro siamo solo numeri senza diritti».
I lavoratori hanno cartelli con la scritta “Pessima Ikea”
«I nostri turni di lavoro sono regolati da algoritmi. Non siamo più uomini e donne. Solo numeri»
A Corsico l’algoritmo che combina i dati per ottenere il maggior profitto al minor costo per Ikea, è arrivato a decidere 1800 cambi turno al mese su 450 dipendenti.
Lo sciopero di oggi è in appoggio anche ad un altro lavoratore licenziato a Bari, per essere rientrato con cinque minuti di ritardo dalla pausa pranzo. Ad altri due lavoratori di Corsico, licenziati per aver partecipato alle lotte e reintegrati dal giudice, sono ancora in strada, perché le porte dell’azienda restano chiuse.

Negli ultimi cinque anni Ikea ha ridotto le maggiorazioni per la domenica e i festivi mentre il premio di “partecipazione” – il nuovo nome del vecchio premio di produttività – è stato quasi azzerato. Da qualche mese i lavoratori sono anche assegnati ai reparti anche senza formazione specifica. Jolly, usa, sposta, paga poco e getta via, specie se protesta.

Flessibilità è la parola d’ordine nella logistica e nel commercio su grande scala, le catene di montaggio del Terzo Millennio. Chi non ci sta, chi non accetta trasferimenti a centinaia di chilometri, turni spalmati sulle esigenze calcolate dall’algoritmo, viene buttato fuori. Un figlio disabile non è rappresentato tra le variabili matematiche che decidono la vita delle persone.
Il lavoro di cura gratuito è oggi più che mai un destino assegnato alle donne. Chi non riesce a far uscire tutte le sei facce del cubo di Rubik, viene espulsa.

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Reddito di schiavitù

Il 29 agosto il consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo che attua la legge, approvata nel marzo scorso, sul reddito di inclusione (ReI).
Il presidente del consiglio Gentiloni sostiene che per la prima volta l’Italia si dota di uno strumento contro la povertà. Il ministro del lavoro Poletti parla di una legge che impegna tutte le istituzioni a stare a fianco dei più poveri, “uno strumento che abbiamo costruito attraverso un rapporto di dialogo e di positiva collaborazione con le associazioni rappresentate dall’Alleanza contro la povertà”.
Vale la pena dare un’occhiata alla fredda realtà dei numeri.
Il ReI è una goccia nel mare: le persone in povertà assoluta (cioè in condizione di incapacità di acquisire i beni e i servizi, necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabile) sono 4 milioni e 600 mila, secondo i dati Istat relativi al 2015, e nel 2016 non sono certo diminuite. Il provvedimento del governo, che andrà a regime nel gennaio 2018, riguarderà solo pochi fortunati: un milione e ottocentomila persone, magari raccomandate dall’Alleanza “per” la povertà. La cifra impegnata è ridicola: per il solo servizio del debito (interessi passivi ecc.) il governo italiano paga più di ottanta miliardi l’anno, che vanno nelle tasche delle banche, dell’aristocrazia finanziaria, degli specultatori.
Per dare un’idea dell’impegno del governo e dell’importanza che dà alla lotta contro la povertà, basta pensare che il solo rigassificatore offshore di Livorno, ormeggiato da anni al largo e inattivo, è costato 900 milioni di euro, più della metà del fondo stanziato per il 2018. La sollecitudine è dimostrata dal fatto che si attende il 2018 per dare attuazione ad una legge approvata nel marzo 2017. Forse il Governo spera che qualcuno nell’attesa muoia di malattie, di freddo o di fame, così da risparmiare ancora qualcosa.

In realtà, si tratta di una vittoria politica delle organizzazioni legate alla gerarchia vaticana. L’interlocutore del governo, l’Alleanza contro la povertà in Italia, nasce da un’idea di Cristiano Gori, docente all’Università Cattolica di Milano, ed è promossa grazie al contributo delle Acli. Le Acli curano il coordinamento politico-organizzativo. La partecipazione all’Alleanza è aperta a tutti i soggetti sociali interessati alla lotta contro la povertà assoluta in Italia; aderiscono al momento all’alleanza Acli, Action Aid, Anci, Azione Cattolica Italiana, Caritas Italiana, Cgil- Cisl-Uil, Cnca, Comunità di S. Egidio, Confcooperative, Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli Consiglio Nazionale Italiano – ONLUS, fio.PSD, Fondazione Banco Alimentare ONLUS, Forum Nazionale del Terzo Settore, Lega delle Autonomie, Movimento dei Focolari, Save the Children, Jesuit Social Network.

Spostare la questione del reddito dal salario e dai servizi sociali all’assistenza legata al controllo sociale è una vittoria della borghesia e della interpretazione cattolica dei rapporti fra le classi sociali.
Del resto, per gli sfruttati, per i ceti popolari l’azione del governo è sempre una minaccia: i fondi per la sedicente lotta alla povertà sono stati tolti ai servizi sociali, alla scuola, alla sanità: si combatte la povertà accentuandone le cause: tagli all’assistenza, alla sanità, alla scuola; tagli alle pensioni e all’occupazione. Qualsiasi cosa faccia il governo, segua una politica di austerità o di investimenti, a pagare sono sempre le classi subordinate.

Se l’egemonia cattolica è evidente nella nascita e nell’organizzazione dell’Alleanza, altrettanto chiara lo è nella linea politica. Il documento costitutivo prende atto della povertà crescente, e del fatto che questa povertà non scomparirà con la fine della crisi economica. Al tempo stesso prende atto della maggiore difficoltà in cui si trovano i ceti svantaggiati, a causa dei tagli che hanno colpito le varie forme di assistenza, i servizi pubblici, la sanità, la scuola. Ma la presa d’atto del fenomeno della povertà e di alcune delle sue cause politiche e sociali non si trasforma in un’azione concreta per la rimozione di queste cause, si limita ad un’azione volta da una parte ad alleviare gli eccessi, mentre d’altra parte colpevolizza la vittima dell’impoverimento dovuto alla vittoria dei padroni nella guerra di classe degli ultimi trent’anni. L’Alleanza contro la povertà sostiene infatti che il contributo economico deve essere accompagnato da servizi alla persona, volti ad organizzare diversamente la propria vita e ad impegnarsi per uscire dalla povertà: “chi è in povertà assoluta ha diritto al sostegno pubblico e il dovere d’impegnarsi a compiere ogni azione utile a superare tale situazione”, si sostiene nel documento costitutivo dell’Alleanza.

Mentre gli strumenti legati alla prestazione lavorativa, come la Cassa Integrazione Guadagni o la defunta assicurazione contro la disoccupazione involontaria, non prevedono alcun impegno attivo, cioè riconoscono la non responsabilità del lavoratore nella crisi o nella disoccupazione, la colpevolizzazione del povero è il perno del reddito di inclusione, perché prevede che, oltre all’evidente stato di necessità, certificato dall’ISE, si accompagni un impegno concreto per uscire dallo stato di bisogno, seguendo un percorso elaborato dalle strutture di servizi. In questo modo si ottengono due risultati: si separa il reddito dalla prestazione lavorativa, diventa pura e semplice elargizione caritatevole; si trasforma il reddito, il ReI, in uno strumento di controllo sociale: tutti i comportamenti devianti, come l’autorganizzazione, l’azione diretta, per non parlare della partecipazione ad organizzazioni politiche o sindacali sovversive, potranno essere usati per dimostrare il non adempimento del percorso, e quindi la possibile revoca della misura economica.

L’info di Blackout ne ha parlato con Tiziano, autore di due approfondimenti usciti su Umanità Nova.

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I No Tav in marcia per la libertà di movimento

Nell’estate più bollente degli ultimi anni il movimento No Tav si è rimesso in marcia. L’8 luglio è stata una una giornata di lotta contro i blocchi e i divieti tra Chiomonte e Giaglione.
Ormai da mesi, oltre alle zone rosse stabili e straordinarie intorno all’area di cantiere, la polizia in occasione di marce notturne ha chiuso tutti gli ingressi di Giaglione, disponendosi sin sulla statale del Moncenisio, una zona lontana chilometri dalla Clarea.
Un’ulteriore passo verso la totale militarizzazione dell’area.
Questa volta, prudentemente, la polizia non si è fatta vedere nella prima parte della marcia, quando il corteo partito da Venaus si è guadagnato il bivio dei Passeggeri, la statale 25 e la provinciale per Giaglione.
Se avessero bloccato il corteo avrebbero rischiato che per ore restasse chiusa la strada che porta al valico del Moncenisio nelle prime ore di un fine settimana estivo. Una possibilità che andrebbe esplorata e messa nella cassetta degli attrezzi del movimento che si batte contro la Torino Lyon, troppo spesso irretito dalla retorica della lotta al cantiere, dal fascino delle marce notturne, dalla mimesi dell’epopea degli anni passati.

Oggi servono altre strade. La pratica del blocco, se agita da molti insieme, può essere un modo per mettere in difficoltà l’avversario.
Uno dei tanti. Perchè l’ingranaggio del cantiere e dell’occupazione militare è ben oliato e occorre gettare tanta sabbia per incepparlo.
La polizia ha atteso i manifestanti lungo la strada delle Gorge che da Giaglione conduce alla Clarea occupata militarmente.
Poco dopo la cappelletta hanno montato uno sbarramento di acciaio, molto più solido del consueto: nonostante i numerosi tentativi di buttarlo giù ha resistito agli assalti dei manifestanti che hanno continuato a lungo battiture e slogan.
Un altro gruppo, passando per i sentieri alti e guadando il torrente, ha raggiunto l’area dove sorge la tettoia No Tav di fronte al cantiere.
Un cantiere che in questo periodo è quasi fermo: il tunnel geognostico è stato completato qualche mese fa, parte dei lavoratori sono stati licenziati, in barba alle promesse di Telt che sperava di fidelizzarli con la chimera del lavoro. Inutile lo sciopero di protesta di questi ultimi giorni.
Non si allenta invece la pressione disciplinare sull’area, dove truppe di montagna, polizia, carabinieri e guardia di finanza si danno il cambio per mantenere la sorveglianza al fortino di Clarea.
In questi stessi giorni sono arrivate le comunicazioni di esproprio di un migliaio di case tra Susa, Bussoleno, Venaus.
Era importante dare un primo segnale.
Riprenderci le strade con una manifestazione diurna, aperta, partecipata da tutti era l’obiettivo della giornata di lotta dell’8 luglio.
Ma non solo.
Da troppo tempo si sta allargando la distanza tra la minoranza che agisce e i più che plaudono, limitandosi alle grandi marce popolari, quando il movimento si raccoglie per dimostrare che l’opposizione all’opera è forte e radicata, nonostante la repressione, i giochi della politica, il tempo che passa, la tentazione della rassegnazione.

La manifestazione dell’8 luglio ha alluso ad una possibilità che diventa necessità ineludibile di fronte alle sfide che ci attendono.
È tempo che la lotta, l’azione diretta siano nuovamente patrimonio di tutti.

Oggi ancora nei paesi vicini al cantiere, domani per bloccare e rendere ingovernabile l’intera valle.

Noi eravamo presenti con uno spezzone rosso e nero, aperto dallo striscione “azione diretta autogestione” e da quello “il futuro non si delega”.

Abbiamo distribuito “Un cielo senza stelle”, un nostro documento sul movimento e le prospettive della lotta, in vista dell’apertura dei nuovi cantieri, che segneranno l’avvio definitivo dei lavori per la realizzazione della linea ad alta velocità tra Torino e Lyon.

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Sicilia. Il flop del vertice, il corteo dei No G7

Il G7 di Taormina è stato un sostanziale fallimento. Gli Stati Uniti non hanno voluto cercare una mediazione su temi cuciali come l’ambiente, le politiche protezionistiche, immigrazione. Trump mira a fare accordi bilaterali, evitando di impegnare gli Stati Uniti su tavoli più ampi e complessi.
L’unico punto su cui tutti sono d’accordo è il contrasto al terrorismo. La chiave che apre le porte di ogni politica di guerra, chiusura delle frontiere, controllo capillare e stretta in materia di sicurezza. Pazienza se nel gioco delle alleanze ci finiscano anche Stati noti per finanziare i nemici pubblici come Al Quaeda e Isis.

Il G7 in Sicilia conferma il ruolo fondamentale dell’isola per le guerre di oggi e di domani. Taormina è stata scelta, oltre che per la cornice che offriva ai grandi della terra, per ragioni squisitamente simboliche. Fu l’unica località siciliana a sfuggire alla conquista araba, perché, arroccata in alto sullo Jonio, potè godere di una posizione privilegiata.
Il dibattito sul G7 in Sicilia ha coinvolto tutte le realtà politiche e sociali isolane sin dallo scorso autunno.
Analisi simili ma divergenti strategie hanno portato ad una divaricazione di percorsi, specie nelle tappe di avvicinamento all’appuntamento, che le realtà in prima fila nella lotta contro le installazioni militari, le basi di guerra e il militarismo avrebbero voluto a Niscemi.
La scelta di convergere a Taormina non era scontata.
Per molti comunque il G7 era un fatto con cui fare i conti, utile a rinforzare la lotta conrtro la militarizzazione dell’isola, non certo una vetrina che facesse da specchio a quella più grande e lustra riservata ai potenti.
Il G7, al di là della due giorni di iniziative territoriali, è stato occasione preziosa per allargare l’informazione, nell’auspicio che possa aprirsi una nuova stagione di conflitto.

A Niscemi il 23 aprile c’era stata un’assemblea antimilitarista, il 25 maggio ci è passata la carovana migranti. Taormina è stata teatro di un’iniziativa in una piazza periferica e blindata il 13 maggio. Il 20 maggio altra iniziativa ad Augusta, cittadina sede dell’approdo della VI Flotta americana e sede di uno dei più importanti depositi militari NATO e USA.
Tre settimane prima del G7, non sono arrivati i soldi promessi dal governo ma 10.000 tra militari e varie forze di polizia. Aeroporti e coste sono stati militarizzati, moltiplicando divieti e limitazioni persino per gli abitanti, obbligati a limitazioni e badge, negozi chiusi e controlli ossessivi. Sono stati fatti numerosi fogli di via a manifestanti diretti in Sicilia.
A Taormina sono state vietate tutte le manifestazioni. Solo a Giardini Naxos è stato autorizzato un corteo.
Il 26 maggio a Giardini c’è stata un’assemblea, a Catania il “controverrtice dei popoli, con interventi di attivisti guatemaltechi, messicani, africani, oltre a relatà antirazziste, femministe, no muos. In serata presidio e corteo sino alla sede di Frontex.

Sabato 27 maggio Giardini Naxos ha un aspetto spettrale. In terra, in mare e nel cielo c’erano militari di guardia. I negozi e le scuole sono stati chiusi con ordinanza del sindaco, le vetrine sono state coperte con lamierini e truciolato, mentre tra slogan, cartelli e striscioni, sfilava il corteo dei No G7.
Gli abitanti, arroccati sui balconi e sul lungomare hanno osservato curiosi il passaggio di manifestanti, tra i due e i tremila. I mass media avevano descritto a tinte fosche il corteo per scoraggiare la partecipazione popolare.
Nonostante gli strettissimi controlli lungo le strade dell’isola e al casello autostradale di Giardini, alla fine una decina di pullman e centinaia di auto sono riusciti ad entrare nella cittadina ionica.
Il corteo ha lasciato un segno positivo con il suo passaggio su un territorio che ha subito il peso di una macchina organizzativa opprimente, che ha svuotato alberghi e ristoranti e le attività che ruotano attorno al turismo, rendendo difficile la vita degli abitanti.
A fine corteo c’è stato un breve contatto tra la testa del corteo e il blocco della celere, finito con qualche manganellata e il consueto aerosol di lacrimogeni.
Spenti i riflettori già si profilano all’orizzonte nuovi appuntamenti.
Il primo luglio a Niscemi con una nuova manifestazione nazionale contro le antenne assassine e l’occupazione militare.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Pippo Gurrieri dei comitati No Muos.

Il G7 di Taormina è stato un sostanziale fallimento. Gli Stati Uniti non hanno voluto cercare una mediazione su temi cuciali come l’ambiente, le politiche protezionistiche, immigrazione. Trump mira a fare accordi bilaterali, evitando di impegnare gli Stati Uniti su tavoli più ampi e complessi.
L’unico punto su cui tutti sono d’accordo è il contrasto al terrorismo. La chiave che apre le porte di ogni politica di guerra, chiusura delle frontiere, controllo capillare e stretta in materia di sicurezza. Pazienza se nel gioco delle alleanze ci finiscano anche Stati noti per finanziare i nemici pubblici come Al Quaeda e Isis.

Il G7 in Sicilia conferma il ruolo fondamentale dell’isola per le guerre di oggi e di domani. Taormina è stata scelta, oltre che per la cornice che offriva ai grandi della terra, per ragioni squisitamente simboliche. Fu l’unica località siciliana a sfuggire alla conquista araba, perché, arroccata in alto sullo Jonio, potè godere di una posizione privilegiata.
Il dibattito sul G7 in Sicilia ha coinvolto tutte le realtà politiche e sociali isolane sin dallo scorso autunno.
Analisi simili ma divergenti strategie hanno portato ad una divaricazione di percorsi, specie nelle tappe di avvicinamento all’appuntamento, che le realtà in prima fila nella lotta contro le installazioni militari, le basi di guerra e il militarismo avrebbero voluto a Niscemi.
La scelta di convergere a Taormina non era scontata.
Per molti comunque il G7 era un fatto con cui fare i conti, utile a rinforzare la lotta conrtro la militarizzazione dell’isola, non certo una vetrina che facesse da specchio a quella più grande e lustra riservata ai potenti.
Il G7, al di là della due giorni di iniziative territoriali, è stato occasione preziosa per allargare l’informazione, nell’auspicio che possa aprirsi una nuova stagione di conflitto.

A Niscemi il 23 aprile c’era stata un’assemblea antimilitarista, il 25 maggio ci è passata la carovana migranti. Taormina è stata teatro di un’iniziativa in una piazza periferica e blindata il 13 maggio. Il 20 maggio altra iniziativa ad Augusta, cittadina sede dell’approdo della VI Flotta americana e sede di uno dei più importanti depositi militari NATO e USA.
Tre settimane prima del G7, non sono arrivati i soldi promessi dal governo ma 10.000 tra militari e varie forze di polizia. Aeroporti e coste sono stati militarizzati, moltiplicando divieti e limitazioni persino per gli abitanti, obbligati a limitazioni e badge, negozi chiusi e controlli ossessivi. Sono stati fatti numerosi fogli di via a manifestanti diretti in Sicilia.
A Taormina sono state vietate tutte le manifestazioni. Solo a Giardini Naxos è stato autorizzato un corteo.
Il 26 maggio a Giardini c’è stata un’assemblea, a Catania il “controverrtice dei popoli, con interventi di attivisti guatemaltechi, messicani, africani, oltre a relatà antirazziste, femministe, no muos. In serata presidio e corteo sino alla sede di Frontex.

Sabato 27 maggio Giardini Naxos ha un aspetto spettrale. In terra, in mare e nel cielo c’erano militari di guardia. I negozi e le scuole sono stati chiusi con ordinanza del sindaco, le vetrine sono state coperte con lamierini e truciolato, mentre tra slogan, cartelli e striscioni, sfilava il corteo dei No G7.
Gli abitanti, arroccati sui balconi e sul lungomare hanno osservato curiosi il passaggio di manifestanti, tra i due e i tremila. I mass media avevano descritto a tinte fosche il corteo per scoraggiare la partecipazione popolare.
Nonostante gli strettissimi controlli lungo le strade dell’isola e al casello autostradale di Giardini, alla fine una decina di pullman e centinaia di auto sono riusciti ad entrare nella cittadina ionica.
Il corteo ha lasciato un segno positivo con il suo passaggio su un territorio che ha subito il peso di una macchina organizzativa opprimente, che ha svuotato alberghi e ristoranti e le attività che ruotano attorno al turismo, rendendo difficile la vita degli abitanti.
A fine corteo c’è stato un breve contatto tra la testa del corteo e il blocco della celere, finito con qualche manganellata e il consueto aerosol di lacrimogeni.
Spenti i riflettori già si profilano all’orizzonte nuovi appuntamenti.
Il primo luglio a Niscemi con una nuova manifestazione nazionale contro le antenne assassine e l’occupazione militare.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Pippo Gurrieri dei comitati No Muos.

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Muri invisibili. Quando il decoro diventa sicurezza

“Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre strumenti volti a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori e di promuovere interventi volti al mantenimento del decoro urbano”

Il decreto legge sulla sicurezza urbana del ministro dell’Interno Minniti comincia così.
Ogni parola ricalca la logica con cui da quarant’anni in Italia vengono affrontate le questioni sociali e i movimenti di lotta anti istituzionali.
Tutto è racchiuso nei tre termini chiave dell’incipit, sapientemente incardinati gli uni negli altri per rendere indispensabili, indifferibili, immodificabili le nuove norme.
“Straordinaria necessità ed urgenza”.
Siamo in costante stato di emergenza, pressati da urgenze e necessità che urlano. Urlano sulle pagine dei quotidiani del governo e delle opposizioni.
L’emergenza ha giustificato, governo dopo governo, misure repressive che hanno allargato la linea di cesura tra le classi, eretto muri, trasformato il Mediterraneo in un cimitero di guerra.
Poveri, immigrati, senza casa, profughi sono nel mirino. È la loro stessa esistenza ad essere messa in discussione.

L’Italia non è l’Africa, né gli Stati Uniti. I poveri non vivono in ghetti e slum separati, lontani dal centro, dai mezzi di comunicazione, controllabili da apparati polizieschi che sorvegliano che nessuno si avventuri fuori. Distanza, mancanza di mezzi pubblici o privati, persino barriere fisiche separano il mondo di sopra da quello di sotto. Cosa succeda lì non importa a nessuno. Gli scarti, gli inutili, quelli che vivono sul margine e “del” margine, sono stipati in aree che sono enormi discariche umane. In certe megalopoli africane o asiatiche la discarica è ben più di una metafora, è il luogo dove sorgono le baracche, costruite con i rifiuti da gente che vive di rifiuti.
In Italia campano di raccolta, riuso e vendita di rifiuti solo i rom rumeni e slavi.
I braccianti stagionali immigrati delle nostre campagne abitano in ghetti tra tende, plasticoni e accrocchi di lamiera.
Gli altri poveri, quelli delle città, italiani ed immigrati, stanno accanto ai meno poveri, non lontani dai ricchi.

I nuovi poveri
La povertà sta aggredendo anche chi, sino ad un paio di decenni fa, credeva di essere al sicuro. Casa di proprietà, lavoro, pensione, qualche soldo da parte, i figli all’università. Oggi tante delle certezze che facevano sentire al riparo il piccolo ceto medio sono scomparse, frantumate. Il futuro non è più quello di una volta.
In questi settori pesca a mani nude la destra sociale nelle sue varie incarnazioni, da quelle più brutali a quelle più paludate. A fare il miglior raccolto sono i pentastellati, che mescolano la retorica partecipativa con le seduzioni di una leadership carismatica puntellata da un pizzico di partito/azienda ereditario.
Tra bancarellari e tassisti, piccoli commercianti e impiegati alligna l’illusione che sicurezza e decoro siano due facce della medesima medaglia.
A Torino la sindaca a Cinquestelle ha promesso ai comitati spontanei di quartiere, tutti o quasi promossi dall’estrema destra xenofoba e razzista, la possibilità di cogestire le scelte sul decoro delle periferie. In cambio i comitati dovranno reperire i fondi necessari per la manutenzione degli spazi pubblici. Va da se che al decoro potrebbe contribuire una certa pulizia etnica e sociale.
Anche in periferia lo spazio pubblico ambisce a diventare vetrina, per affrontare le sfide di una città che si candida a snodo nevralgico in un reticolo di strade, commerci reali e virtuali dove il successo dipende dalla capacità di attrarre eventi, centri direzionali, spazi espositivi. La concorrenza è spietata e le pulizie vanno fatte in fretta.
Avviene a Torino, una città che, senza rottura di continuità, dopo decenni di governo di centro-sinistra, è oggi targata 5 stelle. La ridefinizione dello spazio urbano per una sua messa a valore che escluda la povertà è una scelta che oltrepassa i confini del capoluogo piemontese.

Smaltire le eccedenze
I decreti sicurezza di Minniti hanno inaugurato la campagna elettorale del PD contro Lega e 5 Stelle, ma sarebbe miope non cogliere che la partita elettorale è solo un tassello nel mosaico del governo.
Il disegno sotteso alle norme sulla sicurezza urbana, ha un chiaro valore strategico.
Isolare, allontanare, ghettizzare i poveri implica la presa d’atto che un numero crescente di esseri umani sono vuoti a perdere, non riciclabili, né riassorbibili.
Per chi non ha in tasca un passaporto della Repubblica Italiana ed è privo di permesso di soggiorno Minniti ha solo affinato le tecniche elaborate nei decenni dai suoi predecessori. Nuove galere amministrative, accordi per respingimenti ed espulsioni, riduzione secca degli scarni diritti dei richiedenti asilo. Minniti ha dato un tocco di classe, introducendo il lavoro non retribuito per i profughi.
Il governo, che taglia i fondi per la sanità, la scuola, il trasporto pubblico, offre ai sindaci e ai prefetti strumenti che non miglioreranno le liste di attesa negli ospedali, né aumenteranno le corse di tram e bus, ma potrebbero far crescere la sicurezza percepita dai ceti medi impoveriti, che si sono accorti che la rete sospesa sotto il trapezio delle loro vite è stata tagliata.
Non potendo fugare lo spettro della povertà viene loro offerta la possibilità di allontanare i più poveri da stazioni, aeroporti, case occupate, giardini pubblici.
Difficile sopravvivere per chi fa accattonaggio o piccoli commerci, se viene imposto il divieto di usare gli spazi urbani e di muoversi liberamente.

Diritto amministrativo del nemico
I poveri vanno puniti perché sono poveri.
I giovani dei quartieri popolari, i disoccupati, i mendicanti, i senzatetto, i migranti vanno allontanati, nascosti, privati delle loro risibili libertà e diritti.
Nonostante il codice penale sia infarcito di norme contro i poveri e gli oppositori sociali applicate con crescente meticolosità negli ultimi anni, quest’apparato repressivo non è considerato sufficiente per affrontare “la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre strumenti volti a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori e di promuovere interventi volti al mantenimento del decoro urbano”.
Con i decreti legge del ministro dell’Interno Minniti si va oltre il diritto penale del nemico, per introdurre il diritto amministrativo del nemico.
La linea di contiguità tra i due ambiti è resa evidente dal moltiplicarsi di misure restrittive della libertà che, pur restando nell’ambito del diritto penale, già prefigurano le misure adottate dal governo Gentiloni.
Fogli di via sparsi a piene mani a persone considerate indesiderabili, socialmente pericolose, sono divenuti normali. Per giustificare un foglio di via non è necessario avere commesso un reato, basta il profilo offerto dalla polizia politica al Questore.

Misure come la sorveglianza speciale imposta ad un crescente numero di attivisti politici mostra la volontà di togliere di mezzo compagni attivi nelle lotte, che la polizia e la magistratura non riescono a chiudere in carcere. I sorvegliati non possono frequentare sedi politiche, posti occupati o incontrare chi ne fa parte, è loro vietato partecipare a cortei e presidi, spesso devono sottostare al coprifuoco notturno.

Le stesse misure cautelari imposte di recente dalla magistratura ad antirazzisti, antifascisti, anarchici, ambientalisti mirano ad allontanarli dalle lotte ben prima del processo e di un’eventuale condanna. Obblighi di dimora distanti da dove si vive, oppure divieti di dimora a casa propria, firme quotidiane in altre città sono parte della costellazione repressiva imposta agli attivisti politici.
Al di là del reato contestato, si viene colpiti perché colpevoli di lottare per una radicale trasformazione dei rapporti sociali.

I decreti sicurezza di Minniti, pur innestandosi nella tradizione della repressione per via amministrativa, inaugurata con i centri di detenzione per immigrati nel 1998, rappresentano un salto di paradigma.
Sinora abbiamo esaminato i nuovi poteri di allontanamento di sindaci e prefetti in due chiavi. La prima è relativa alla valorizzazione di periferie soggette a processi di gentrificazione. La seconda è lo spostamento, l’emarginazione e ghettizzazione di quelli che a nessuno interessa mettere al lavoro.

La terza è squisitamente repressiva. Insorgenze sociali simili a quelle che di tanto in tanto scuotono le Cité francesi o i sobborghi inglesi, avrebbero conseguenze devastanti in un paese come il nostro, dove le cesure fisiche sono meno nette. Applicare agli italiani e agli stranieri regolari l’isolamento imposto ai braccianti di Rosarno o agli immigrati ospitati negli hotspot o dispersi tra campagne e monti non è semplice.
Più facile individuare e colpire settori sociali specifici, insuscettibili di integrazione o assoggettamento, o gli attivisti politici e sociali, che si battono perché questa storia muti di senso. Le restrizioni della libertà di carattere amministrativo non offrono a chi le subisce nemmeno le esili tutele del sistema giudiziario.

Sono state accresciute notevolmente le prerogative del prefetto nel decidere l’impiego dell’antisommossa nello sgombero delle occupazioni di case o di spazi sociali.
Chi occupa, chi resiste ad uno sfratto subirà una violenza maggiore.

Vengono colpite duramente anche classiche forme di lotta come blocchi ferroviari e picchetti. Oltre alle consuete denunce per interruzione di pubblico servizio, si rischia il daspo di sei mesi dal luogo della lotta e una multa. Daspo e multa hanno effetto immediato.
Sindaci e prefetti hanno il potere di dare il daspo a chiunque, a loro insindacabile giudizio, stia turbando il “libero utilizzo degli spazi pubblici”. Sotto questo cappello può stare tutto, dal rave al volantinaggio.
Possono limitare enormemente la nostra libertà con la stessa facilità con cui ci danno una multa per divieto di sosta.

Il daspo è stato sperimentato allo Stadio ed ora approda nelle nostre strade. A corollario un’altra misura applicata tra gli spalti approda nelle manifestazioni. Si tratta della flagranza differita. Se nel giro di 48 ore da un corteo vivace un poliziotto decide che quella ritratta in una foto sono io, posso essere arrestata. In questo modo il poliziotto diventa testimone, giudice ed esecutore di una sentenza, che può essere contestata ed eventualmente ribaltata solo dopo giorni o settimane di villeggiatura nelle prigioni di Stato.

L’autore di questo piccolo capolavoro di repressione per via amministrativa, Marco Minniti, è cresciuto all’ombra dell’ex presidente della Repubblica Cossiga. Quarant’anni fa Cossiga sedeva sulla stessa poltrona di Minniti: inviava e carri armati contro i manifestanti, aveva dato alla polizia licenza di estrarre la pistola e uccidere. Dobbiamo a lui la teoria sull’impiego di spie e provocatori nei movimenti. Con Cossiga Minniti ha costituito nel 2009 la Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis), centro studi sui temi d’intelligence. Più volte sottosegretario agli Interni con delega ai Servizi Segreti, a gennaio Minniti è infine approdato alla poltrona di ministro. L’uomo giusto al posto giusto.
In tutta Europa soffia il vento del fascismo, della demagogia, della xenofobia. Il governo mette in campo un apparato repressivo contro le insorgenze su cui Orban o Le Pen troverebbero ben poco da eccepire.
Muri invisibili attraverseranno le nostre città, separando i sommersi dai salvati sotto la rassicurante, benevola etichetta del “decoro”.

Maria Matteo

(quest’articolo è uscito sul numero di maggio di Arivista)

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Torino. Contestazione alla fiaccolata del 25 aprile

La sindaca penta stellata Appendino e il governatore democratico Chiamparino hanno aperto la fiaccolata istituzionale del 25 aprile. Quest’anno i No Tav più moderati si sono accodati al corteo, paghi della formale opposizione all’opera della sindaca, del “vorrei ma non posso”.
Un gruppo di anarchici ha aperto uno striscione di fronte al corteo che sfilava, con la scritta “Daspo urbano, fogli di via. Il fascismo ha il volto della democrazia”.

Di seguito il volantino distribuito al corteo.
Il 25 aprile del 1945 Torino insorse. Nelle periferie si combatteva contro la dittatura e l’occupazione militare, per farla finita con i padroni e chi li serviva.
Gli operai delle fabbriche torinesi misero in gioco la vita perché i loro pronipoti non dovessero fare i conti con sfruttamento selvaggio, disoccupazione, precarietà.
I volontari delle Sap non protessero gli stabilimenti per riconsegnarli ai padroni. A decine morirono combattendo strada per strada per impedire ai fascisti e ai nazisti in ritirata di farli saltare. Il loro sogno lo stringevano tra le mani: le fabbriche, come nel 1920, erano di chi ci lavorava.

Oggi come nel 1945 in questa città, capitale degli sfratti e della disoccupazione, la democrazia è un’illusione di libertà e giustizia, che somiglia sempre più al fascismo.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria.
Il governo della città è stato per decenni nelle mani degli eredi di Togliatti, il comunista che ha graziato i fascisti, i repubblichini torturatori ed assassini, e seppellito in galera tanti partigiani. Sono gli stessi che hanno imbalsamato la Resistenza, rinchiudendola in una teca avvolta nel tricolore.
Oggi governano i Cinque Stelle. Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche e dai padroni.
Appendino sta imitando Fassino, facendo la guerra ai rom delle baracche lungo la Stura.
Qualcuno ha creduto alle sue promesse di partecipazione, ma sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. La sindaca a Cinquestelle ha promesso ai comitati spontanei di quartiere, tutti o quasi promossi dall’estrema destra xenofoba e razzista, la possibilità di cogestire le scelte sul decoro delle periferie.
Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.

L’idea di decoro dei 5Stelle è identica a quella del governo Gentiloni, che ha fatto una legge sulla sicurezza urbana, che prevede il daspo, il divieto ai poveri di vivere in certi quartieri. Le nuove leggi scrivono un nuovo capitolo della guerra ai poveri.
Hai perso la casa, vivi in strada, ti arrangi con qualche lavoretto? Cerchi riparo alla stazione, ti siedi sulle panchine, ti infili nella sala d’aspetto di un ospedale? Il sindaco e il prefetto possono multarti e cacciarti dal tuo quartiere, dalla tua città, dall’angolo dove dormi, perché sei un problema per il decoro cittadino. Se sei povero la responsabilità è tua, non di chi si arricchisce sul lavoro altrui, non di un sistema politico e sociale che nega una vita decorosa alla maggior parte della popolazione del pianeta.

Ci raccontano che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo.

Per il governo chi occupa una casa vuota offende il decoro, i proprietari che affittano a prezzi altissimi sono invece bravi cittadini.
Per la nuova legge chi occupa, oltre alle solite denunce, rischia di essere allontanato dal proprio quartiere, o dalla propria città.
Il sindaco e il prefetto possono importi il Daspo, il divieto ad andare in quei posti. Se ci torni rischi l’arresto.

In questo 25 aprile vogliamo annodare i fili della memoria di ieri con le lotte di oggi.
Le lotte che vedono in prima fila altri partigiani, quelli che si battono contro i militari nelle strade, che lottano contro i padroni che si fanno ricchi su chi lavora, che cercano di impedire sfratti e deportazioni, che vanno in strada contro il razzismo e il fascismo.
Oggi come allora i partigiani sono trattati da banditi, terroristi, delinquenti.
I partigiani in quel lontano aprile hanno combattuto perché volevano un mondo libero, senza schiavitù salariata.
Il loro sogno continua ogni giorno nella lotta per una società di liberi ed eguali. Senza Stato né padroni.

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Riforma del processo penale. Avvocati in sciopero

Nuovo sciopero degli avvocati penalisti, dal 10 al 14 aprile, contro il progetto di riforma del processo penale e contro la decisione di porre la fiducia anche alla camera.
Oggi a Bologna è prevista una manifestazione che percorrerà il centro cittadino. A Milano i penalisti in toga manifesteranno sulla scalinata del Palagiustizia del capoluogo meneghino.

Nel pacchetto preparato dal titolare del dicastero della Giustizia Orlando c’è un insieme composito di norme, che riducono il diritto alla difesa di chi finisce alla sbarra.
L’estensione della prescrizione per i reati minori da sette anni e mezzo a dieci anni ha il chiaro sapore della risposta alle pulsioni giustizialiste che attraversano alcuni settori sociali, che fanno le fortune elettorali di pentastellati, leghisti e fascisti. Dopo i decreti legge sulla sicurezza urbana e l’immigrazione il governo gioca una nuova carta in vista delle prossime elezioni.
Il test delle amministrative avrà un certo peso per la durata del governo Gentiloni.

Al prolungamento di tre anni della prescrizione si aggiungono gli inasprimenti delle pene per i reati dei poveri, come furti e rapine, la riduzione dei margini per presentare appello alle sentenze, l’estensione a numerose tipologie di reato del processo in video conferenza, la cui attuazione passa dalla discrezionalità del giudice all’applicazione automatica.

I penalisti in sciopero denunciano la distorsione autoritaria del processo, in cui vengono meno importanti forme di tutela delle persone sottoposte a giudizio nei tribunali.
Per chi è alla sbarra è importante la presenza dell’avvocato, ma anche la possibilità di avere un ruolo attivo, di difendersi personalmente, di presentarsi al processo e fare dichiarazioni spontanee.
Il pretesto del “risparmio” sulle spese di traduzione dal carcere al tribunale è una foglia di fico, perché i processi in videoconferenza necessitano che nelle carceri vengano installate costosi apparecchiature.

L’info di Blackout ne ha parlato con Eugenio Losco, avvocato in sciopero.

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Un muro intorno al Paradiso. Case e quartieri fortificati in Brasile… e in Italia?

Nei giorni scorsi sulla Tribuna di Treviso è comparsa la notizia della nascita di un quartiere fortificato sul modello “americano”.
In apparenza niente di nuovo: recinzioni, villette, giardino privato, ingresso riservato ai residenti, sorveglianza. Di posti simili se ne incontrano altri: la caratteristica del “Borgo San Martino” a Santa Bona è l’esplicita intenzione di replicare modelli tipici degli States o dell’America Latina.
All’interno, oltre al giardino e alla piscina, c’è anche un supermercato. Il muro e il cancello d’ingresso celano alla vista l’area.

La provincia di Treviso in questi anni è stata spesso all’avanguardia nella paranoia securitaria e nell’ansia di sicurezza. Nulla di strano che proprio qui sia sorto questo villaggio, che, con altri simili ma più semplici, è tuttavia un’eccezione nel panorama urbano delle nostre città, dove le cesure fisiche non ricalcano le cesure sociali, anche se il conflitto di classe sulla gestione del territorio è molto forte.

I modelli cui si sono ispirati i costruttori di “Borgo San Martino” in Brasile sono molto diffusi.

L’informazione di Radio Blackout ne ha parlato con l’architetto Simone Ruini, che per un anno ha vissuto e studiato in Brasile.
Ascolta la diretta

Qui le aree abitate dai ricchi sono nettamente separate da quelle dove vivono i poveri. Muri, sorveglianza armata, telecamere circondano sia le ville, sia, nelle grandi città come Rio o Sao Paulo, grandi torri di lusso. Sono città nella città con molti servizi che consentono a chi vive molti di muoversi poco all’esterno, se non in auto per andare al lavoro, all’università, in qualche locale.
Il “fuori” è considerato pericoloso e non viene mai attraversato. Non a piedi. La paura è la cifra dell’abitare dei brasiliani benestanti, che sfrecciano per le strade nelle loro belle auto a velocità folle. Anche in città, che, allo sguardo di un europeo, appaiono del tutto simili alle nostre.
La cesura sociale, diviene anche cesura culturale e politica, sin più forte dei muri fisici che dividono i quartieri ricchi da quelli poveri.

L’immagine che illustra il post è quella di Paraisopolis: una torre di lusso, con balconi a conchiglia e piscina privata, circondata da campi da tennis, pallacanestro, un’altra grande piscina. Nella stessa foto si vede una favela: tra il grattacielo dei ricchi e la baraccopoli dei poveri c’è solo un grosso muro.
Un muro invalicabile: così spera chi vive nel proprio paradiso blindato.

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Parigi. La violenza della polizia, la sommossa di Bobigny

Parigi è grande catino urbano. Intorno ribollono le periferie. Lo sa bene il presidente francese, Francois Hollande, che è corso al capezzale di Theo, il ragazzo di Aulnay Sous Bois, pestato e stuprato con un manganello durante un “normale” controllo di polizia. Hollande, un presidente stracotto, arrivato a fine mandato con livelli di popolarità bassissimi, sperava di metterci una toppa.
Non ci è riuscito.
Nonostante le dichiarazioni del ministro dell’Interno, nonostante gli stessi appelli di Theo e della sua famiglia, le periferie hanno cominciato ad accendersi. Non è il fuoco delle rivolte del 2005, quando l’incendio si estese a tutta la Francia, ma certo al ministero dell’Interno, in piena campagna elettorale, non passano notti tranquille. Dopo le manifestazioni e le sommosse notturne delle prima settimana a Aulnay Sous Bois la protesta si è estesa.
Lo scorso sabato, di fronte al tribunale di Bobigny si sono ritrovate migliaia di persone. Le associazioni per i diritti dell’uomo e i gruppi che nella primavera dello scorso anno hanno animato la testa dei cortei contro la loi travail. La presenza più significativa era la gente, molti i giovanissimi, arrivata a Bobigny dalle altre periferie, dalle Cites, i non luoghi dove si concentra la popolazione di questi futuribili ghetti urbani.
Grandi palazzi, passerelle sopraelevate, non un posto di ritrovo che non sia il tempio della merce, l’ipermercato.
A Bobigny c’è il tribunale. Sabato scorso era completamente chiuso dagli sbarramenti della polizia, pronta allo scontro, pronta ad affrontare la canaille che osava sfidarla.
Una vera provocazione per chi era lì a gridare “justice pour Theo!”. Il giorno prima lo stupro era stato derubricato dal tribunale a lesioni non intenzionali, ponendo le basi perché il poliziotto, che gli ha infilato nell’ano il manganello perforandogli l’intestino, possa cavarsela a buon mercato.

Le “regole” del gioco sono chiare. Se sei nero o nordafricano hai dieci possibilità in più di essere fermato e controllato. La Repubblique gioca la sua partita di normalizzazione e sottomissione dei poveri anche in strada. La linea di cesura di classe si interseca e mescola con quella razziale. Theo, “colpevole” di essersi messo di mezzo durante una retata, è stato punito con botte condite da umiliazioni. Théo ha raccontato la sua storia ai giornalisti. È stato gettato a terra, gli hanno abbassato i pantaloni, poi l’hanno violentato e picchiato. Gli insulti: “negro”, “puttana”, “bambula”. Insulti razzisti, sessisti, retaggio di un passato coloniale che non passa.
Nelle Cites la disoccupazione raggiunge il 45%, il futuro è un orizzonte chiuso.

Davanti al tribunale di Bobigny sabato scorso faceva un freddo cane, a tratti pioveva. Tanti gli interventi al microfono in un clima di forte tensione, di rabbia latente. Che infine esplode. Un gruppo di giovani prova a forzare il passaggio al tribunale caricando la polizia sulle strette passerelle che sovrastano l’area del presidio. Pietre contro lacrimogeni. Cariche e contro cariche. Il furgone di una radio nazionale viene dato alle fiamme.
Poi lo scenario è quello della sommossa urbana: negozi saccheggiati, barricate, macchine bruciate. Gli obiettivi sono bancomat, fermate del bus, quello che capita. Non ci sono molotov. Un segno della natura prevalentemente spontanea degli scontri. A fine giornata ci saranno 37 fermi.
Un ragazzo smentisce la versione della polizia che si vantava di aver salvato una bambina da un’auto in fiamme. La bambina l’ha tirata fuori lui. È la prima volta che scende in piazza, è lì perché quello che è capitato a Theo potrebbe capitare a lui. Ha 16 anni, una faccia da bambino ed è nero.
Nei mesi scorsi la polizia è scesa in piazza, reclamando e in parte ottenendo, maggiori garanzie di impunità.
Le botte e le umiliazioni servono a mantenere l’ordine materiale e simbolico della Republique, un ordine nel quale, chi viene da un passato coloniale deve saper restare al proprio posto.

La violenza poliziesca, le umiliazioni sono normali. A volte durante i controlli ci scappa anche il morto. La lista è troppo lunga per ridurli a errori, a eccessi casuali.
I ragazzi delle periferie lo sanno bene.
L’ultimo morto risale allo scorso 19 luglio. Adama aveva 24 anni e nel commissariato a Beaumont-sur-Oise c’era entrato vivo. Ne è uscito in un sacco nero. Adama scappava da un controllo di polizia, come scappavano Zyed e Bouna, i due ragazzini di 17 e 15 anni, morti fulminati in una centralina elettrica nel 2005, a Clichy sous Bois. Fu l’innesco della rivolta delle banlieaue.

Il perdurare dello stato di emergenza, proclamato dopo gli attentati del novembre 2015, le irrisolte tensioni sociali emerse nei cinque mesi di lotta contro la lois travail, il ribollire delle periferie sono gli ingredienti di uno scenario complesso, di cui è difficile prevedere gli sviluppi.

Sul piano politico, gli accenni di sommossa che emergono dalle periferie, vengono cavalcati dal Front National, che, in testa Marine Le Pen, si prepara alla battaglia per l’Eliseo.
La Francia è attraversata da linee di cesura politiche e sociali molto nette.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Gianni Carrozza di radio Frequence Plurielle di Parigi.

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