Categoria: memoria

Torino. Contestazione alla fiaccolata del 25 aprile

La sindaca penta stellata Appendino e il governatore democratico Chiamparino hanno aperto la fiaccolata istituzionale del 25 aprile. Quest’anno i No Tav più moderati si sono accodati al corteo, paghi della formale opposizione all’opera della sindaca, del “vorrei ma non posso”.
Un gruppo di anarchici ha aperto uno striscione di fronte al corteo che sfilava, con la scritta “Daspo urbano, fogli di via. Il fascismo ha il volto della democrazia”.

Di seguito il volantino distribuito al corteo.
Il 25 aprile del 1945 Torino insorse. Nelle periferie si combatteva contro la dittatura e l’occupazione militare, per farla finita con i padroni e chi li serviva.
Gli operai delle fabbriche torinesi misero in gioco la vita perché i loro pronipoti non dovessero fare i conti con sfruttamento selvaggio, disoccupazione, precarietà.
I volontari delle Sap non protessero gli stabilimenti per riconsegnarli ai padroni. A decine morirono combattendo strada per strada per impedire ai fascisti e ai nazisti in ritirata di farli saltare. Il loro sogno lo stringevano tra le mani: le fabbriche, come nel 1920, erano di chi ci lavorava.

Oggi come nel 1945 in questa città, capitale degli sfratti e della disoccupazione, la democrazia è un’illusione di libertà e giustizia, che somiglia sempre più al fascismo.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria.
Il governo della città è stato per decenni nelle mani degli eredi di Togliatti, il comunista che ha graziato i fascisti, i repubblichini torturatori ed assassini, e seppellito in galera tanti partigiani. Sono gli stessi che hanno imbalsamato la Resistenza, rinchiudendola in una teca avvolta nel tricolore.
Oggi governano i Cinque Stelle. Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche e dai padroni.
Appendino sta imitando Fassino, facendo la guerra ai rom delle baracche lungo la Stura.
Qualcuno ha creduto alle sue promesse di partecipazione, ma sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. La sindaca a Cinquestelle ha promesso ai comitati spontanei di quartiere, tutti o quasi promossi dall’estrema destra xenofoba e razzista, la possibilità di cogestire le scelte sul decoro delle periferie.
Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.

L’idea di decoro dei 5Stelle è identica a quella del governo Gentiloni, che ha fatto una legge sulla sicurezza urbana, che prevede il daspo, il divieto ai poveri di vivere in certi quartieri. Le nuove leggi scrivono un nuovo capitolo della guerra ai poveri.
Hai perso la casa, vivi in strada, ti arrangi con qualche lavoretto? Cerchi riparo alla stazione, ti siedi sulle panchine, ti infili nella sala d’aspetto di un ospedale? Il sindaco e il prefetto possono multarti e cacciarti dal tuo quartiere, dalla tua città, dall’angolo dove dormi, perché sei un problema per il decoro cittadino. Se sei povero la responsabilità è tua, non di chi si arricchisce sul lavoro altrui, non di un sistema politico e sociale che nega una vita decorosa alla maggior parte della popolazione del pianeta.

Ci raccontano che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo.

Per il governo chi occupa una casa vuota offende il decoro, i proprietari che affittano a prezzi altissimi sono invece bravi cittadini.
Per la nuova legge chi occupa, oltre alle solite denunce, rischia di essere allontanato dal proprio quartiere, o dalla propria città.
Il sindaco e il prefetto possono importi il Daspo, il divieto ad andare in quei posti. Se ci torni rischi l’arresto.

In questo 25 aprile vogliamo annodare i fili della memoria di ieri con le lotte di oggi.
Le lotte che vedono in prima fila altri partigiani, quelli che si battono contro i militari nelle strade, che lottano contro i padroni che si fanno ricchi su chi lavora, che cercano di impedire sfratti e deportazioni, che vanno in strada contro il razzismo e il fascismo.
Oggi come allora i partigiani sono trattati da banditi, terroristi, delinquenti.
I partigiani in quel lontano aprile hanno combattuto perché volevano un mondo libero, senza schiavitù salariata.
Il loro sogno continua ogni giorno nella lotta per una società di liberi ed eguali. Senza Stato né padroni.

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Durruti e il labirinto bellico

durrutiPiù volte gli anarchici hanno criticato il culto della personalità che ha accomunato dittature di segno diverso,‭ ‬ma convergenti nell‭’‬esaltazione parossistica del‭ ‬capo.‭ ‬Se‭ “‬Mussolini ha sempre ragione‭”‬ era lo slogan che identificava nel‭ “‬duce‭”‬ il regime fascista,‭ ‬altri detti simili circondavano le figure di Hitler o di Stalin.‭ ‬In tempi recenti si ricordano i casi di Kim il Sung in Corea del Nord e di Fidel Castro a‭ ‬Cuba.‭ ‬Per non parlare del papa,‭ ‬unico comandante di un regno dichiaratamente di origine divina,‭ ‬che si considera superiore a tutti gli altri esseri umani.‭ ‬Ma anche stati con l‭’‬immagine democratica‭ (‬pensiamo a diversi Stati del Medio oriente o ex comunisti‭)‬ hanno prodotto un‭’‬atmosfera di adorazione verso i loro leader indiscutibili.‭ ‬E chi osa esprimere dissenso da questa deprimente realtà conosce le attenzioni repressive.
Per l‭’‬ottica libertaria non vi può essere alcuna gerarchia tra i/le compagni/e bensì dovrebbe vigere un‭’‬eguaglianza di principio,‭ ‬sia etico sia organizzativo.‭ ‬Ugualmente sarebbe irreale attribuire,‭ ‬nel passato ma anche nel presente,‭ ‬ad ogni militante la stessa capacità di promuovere il movimento attraverso azioni e scritti,‭ ‬lotte e pensiero.‭ ‬Esiste nella realtà umana chi è più portato a stimolare partecipazione e coscienza e chi,‭ ‬per natura o educazione,‭ ‬agisce piuttosto su un terreno meno da protagonista,‭ ‬ma più consono alle proprie inclinazioni e ai propri desideri.‭ ‬Si deve prendere atto che alcuni compagni,‭ ‬per una serie di circostanze che dipendono solo in parte da loro stessi,‭ ‬hanno svolto,‭ ‬o svolgono,‭ ‬un‭’‬attività che pesa significativamente sul movimento tutto.
Di sicuro non c’è bisogno nelle file anarchiche di eroi né di santi né,‭ ‬lo speriamo,‭ ‬di martiri,‭ ‬ma di persone libere che si impegnino,‭ ‬con le loro qualità e i loro limiti,‭ ‬nella costruzione di un movimento di liberi ed eguali per preparare la società di domani orientata nella stessa direzione.‭ ‬Al tempo stesso è necessario riconoscere che l‭’‬attività di chi ha combattuto,‭ ‬in vari modi ma per tutta una vita,‭ ‬per gli ideali libertari ha fornito un esempio e un incitamento assai utili nel corso di una sfida che l‭’‬anarchismo ha lanciato contro ogni forma di dominio.‭ ‬L‭’‬impegno antiautoritario,‭ ‬è chiaro,‭ ‬non ha moltissime possibilità di vincere,‭ ‬ma contiene in nuce una grande proposta all‭’‬umanità oppressa,‭ ‬almeno a quella che vuole emanciparsi completamente.
In questo quadro ricordiamo la personalità di Buenaventura‭ ‬Durruti‭ (‬1896-1936‭) ‬che ha lasciato un‭’‬eredità diffusa tra tutti coloro,‭ ‬e non sono pochi,‭ ‬che si ritrovano nell‭’”‬utopia fatta storia‭”‬ della‭ ‬rivoluzione spagnola.‭ ‬La Spagna del‭ ‬1936‭ ‬ha conosciuto una‭ ‬rivoluzione con molti aspetti positivi‭ (‬collettività,‭ ‬milizie,‭ ‬liberazione femminile,‭ ‬diffusione della cultura,‭…‬) e qualche risvolto problematico‭ (‬militarizzazione della lotta libertaria,‭ ‬burocratizzazione del più grande movimento a livello mondiale,‭ ‬accettazione del compromesso politico in nome delle urgenze belliche e dell‭’‬antifascismo,‭…‬).
Dentro questo labirinto Durruti si è mosso cercando di condurre una lotta armata contro i generali reazionari il più possibile coerente con i valori di riferimento a lungo perseguiti negli scontri,‭ ‬violenti o sindacali,‭ ‬con i vari regimi‭ ‬spagnoli dai primi anni Venti in poi.‭ ‬Le sue aspirazioni rivoluzionarie e,‭ ‬se vogliamo,‭ ‬umanitarie‭ (‬nel senso buono del termine‭!) ‬hanno dovuto tener contro del contesto,‭ ‬quasi sempre sfavorevole,‭ ‬nel quale si collocavano e non certo per proprie responsabilità.‭ ‬Il golpe dei generali del‭ ‬18‭ ‬luglio‭ ‬1936,‭ ‬tentato e in parte fallito,‭ ‬dei generali aveva prodotto degli effetti paradossali.‭ ‬Come ricordava spesso Abel Paz,‭ ‬la sollevazione militare voleva sradicare dalla Spagna la pianta malefica della rivoluzione sociale ma,‭ ‬nei fatti,‭ ‬aveva interrotto il controllo delle istituzioni repubblicane,‭ ‬pure dedite alla oppressione dei progetti libertari.‭ ‬Indirettamente perciò risultò favorita l‭’‬organizzazione di forme di lotta paritarie e autonome come quelle delle milizie.‭ ‬Nel frattempo si sviluppò un movimento contadino e operaio che autogestiva la produzione e i servizi mentre si diffondeva in ogni regione non conquistata dai generali‭ (‬e poco controllata dall‭’‬apparato repubblicano‭) ‬una forte tendenza a fondare una nuova‭ ‬società basata su una diffusa cultura che desse strumenti efficaci ad una reale ricostruzione economica e morale.
L‭’‬accettazione di Durruti dell‭’‬ordine di abbandonare il fronte aragonese,‭ ‬dove le forze rivoluzionarie costituivano la maggioranza dei combattenti,‭ ‬ai primi di novembre del‭ ‬1936‭ ‬costituisce tutt‭’‬oggi un punto di riflessione sui condizionamenti brutali della‭ ‬guerra sulle attitudini libertarie.‭ ‬In Aragona era in corso una sperimentazione rurale molto avanzata,‭ ‬basata sull‭’‬autonomia dei vari villaggi all‭’‬interno di un programma federativo.‭ ‬Ciò permetteva di progettare una vasta regione,‭ ‬con la Catalogna e Valencia,‭ ‬dove avrebbe potuto costituirsi una solida base per un‭’‬autorganizzazione‭ ‬relativamente indipendente dal governo repubblicano.‭ ‬Questi,‭ ‬dopo l‭’‬iniiale marasma e l‭’‬inefficacia del luglio-‭ ‬agosto‭ ‬1936,‭ ‬cercava di recuperare l‭’‬autorità istituzionale ormai svuotata e vanificata.‭ ‬Lo scontro bellico,‭ ‬interpretato dallo Stato repubblicano secondo una logica tradizionale di eserciti gerarchici,‭ ‬disciplinati e subordinati agli alti comandi,‭ ‬favorì l‭’‬accentramento del potere e il progressivo irrigidimento di tutte le organizzazioni antifasciste.‭ ‬Anche la‭ ‬CNT-FAI,‭ ‬più o meno volontariamente,‭ ‬in questa logica,‭ ‬dovette abbandonare gli ambiziosi programmi rivoluzionari per attestarsi su una linea di obbedienza alle decisioni dei vertici politici e militari.
In base a questo nuovo clima di restaurazione,‭ ‬lo stesso Durruti,‭ ‬che pure era al comando di una colonna semindipendente,‭ ‬finì con accogliere l‭’‬ordine di spostarsi a Madrid,‭ ‬quasi completamente assediata,‭ ‬per contribuire alla sua difesa.‭ ‬Madrid però non era Barcellona dove prevaleva la tensione antiautoritaria bensì una capitale che,‭ ‬per quanto abbandonata dal governo che trovò opportuno rifugiarsi a Valencia,‭ ‬costituiva un simbolo oltre che un settore di combattimento.‭ ‬Non a caso l‭’‬URSS aveva deciso di intervenire in un frangente assai delicato,‭ ‬mentre i generali ribelli annunciavano che,‭ ‬da lì a poco,‭ ‬avrebbero‭ “‬preso un caffè in Plaza del Sol‭”‬.‭ ‬Obbiettivamente le centinaia di aerei sovietici costituirono un effettivo sbarramento per l‭’‬assalto a Madrid degli eserciti più o meno franchisti.
Sul terreno bellico e nell‭’‬ottica militarista conta di più chi dispone di una grande potenza di fuoco e ciò si realizzò anche nella Spagna della guerra civile.‭ ‬La morte di Durruti fu anche un segnale che gli sforzi generosi e ideali degli anarchici potevano vincere nelle strade di Barcellona,‭ ‬ma erano destinati a lasciare il passo ad altre strutture militari fornite di mezzi enormi di combattimento per così dire‭ “‬industriale‭”‬.
E‭’‬ un‭’‬osservazione che non vale solo per il passato spagnolo,‭ ‬ma che ritengo che possa valere anche oggi in situazioni difficili anche se molto diverse.‭ ‬Ci sono territori dove si alimenta,‭ ‬giustamente,‭ ‬la speranza emancipatrice e autogestionaria,‭ ‬ma occorre tener presente‭ ‬che il conflitto attrae gli interessi e i piani delle grandi potenze,‭ ‬regionali o mondiali.

Claudio Venza
(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Umanità Nova)

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Pannella. Uno show man liberale ai tempi della prima repubblica

“Il confuso scarmazzo che accompagna la dipartita di Giacinto, detto Marco, Pannella è il prodotto della mancata propensione alle valutazioni chiare e distinte che, se praticate, risparmierebbero al buon popolo molti patimenti spirituali.
L’uomo era, è non è un segreto, l’erede, non sto qui a valutare quanto legittimo, di una una corrente politica non spregevole, anzi, quella sinistra liberale che annovera fra i suoi numi tutelari Piero Gobetti, i fratelli Rosselli et alios.
Solo che rispetto a quella corrente si caratterizza per la sua – e non è un complimento, è solo una presa d’atto – modernità. Pur essendo nato prima della guerra è un liberale sessantottino, un ossimoro politico forse ma un ossimoro che ha funzionato.
Anticonformismo, gusto dell’eccesso, esibito narcisismo, mancanza di cultura e progetto politico, una punta di cialtroneria concorrono a farne l’antesignano di leader politici venuti dopo come espressione della personalizzazione della politica.
Era dunque, senza sé e senza ma, un occidentalista? Assolutamente si né pretendeva di essere altro. Era, per certi versi, insopportabile? Sicuramente ma era figlio di un paese che prevedeva, sino al 1976, si fino al 1976, il delitto d’onore, che, se si pensa alla violenza contro le donne, si caratterizzava per una legislazione che poco ci mancava che le condannasse nel caso di violenza, un paese influenzato da un moralismo veterocattolico, che aveva al governo un partito clericale e all’opposizione, a destra, un partito fascista e, a sinistra, un partito stalinista, un paese che grazie alle sue profonde distorsioni interne si è “modernizzato” anche grazie al partito radicale.
Modernizzato, non rivoluzionato, basta ricordarlo per ridimensionare i toni.”

Abbiamo tratto spunto da questo “coccodrillo” di Cosimo Scarinzi girato sui social media per fare una riflessione a tutto tondo sugli anni Settanta, sul declino inesorabile della corrente liberal socialista di “Giustizia e Libertà”, sull’emergere di elementi populisti e di leadership carismatica, che segneranno il trapasso dalla prima alla seconda repubblica. Un passaggio il cui nume tutelare sarà Bettino Craxi, l’uomo che ha trasformato e cambiato pelle al partito che fu di Nenni, per passare il testimone al suo sponsor, Silvio Berlusconi.
Pannella introdurrà elementi di trasformismo veloce, in un partito leggero, nel tempo sempre più liberale e liberista che non libertario, che anticipano di decenni alcuni elementi chiave della politica del nuovo millennio tra le Alpi e i Nebrodi.
Inutile dire che le leggi, tutte le leggi, sono la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società.
Il cambiamento di cui Pannella si fece corifeo, stava incidendo nel profondo la società italiana, ed era agito da migliaia di uomini e donne, che si erano liberati dal giogo clericale e premevano perché la sudditanza al Vaticano sancita da tante leggi dell’ordinamento repubblicano venissero cancellate.

Giacinto, detto Marco, concluderà da par suo la propria avventura politica ed essenziale con un ultimo colpo di teatro: la lettera a Bergoglio e il rientro tra le braccia di madre chiesa.
Indimenticabile e forse di maggior impatto della conversione in pista di volo, la sua sortita in divisa Croata a sostegno dell’intervento dell’Italia in ex Jugoslavia.

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Torino. Corteo antifascista a San Salvario

23 aprile. Diverse centinaia di persone hanno dato vita ad una lunga giornata di lotta per le strade di San Salvario. San Salvario è il primo quartiere che incontra chi arrivava in treno a Torino, da sempre incrocio di gente diversa, la borghesia intellettuale di sinistra e gli immigrati dell’ultima ora, oggi è diventato uno centri della movida torinese. Localini alla moda, studenti e strisciante gentrification, accanto ad immigrati, kebabbari, gente senza casa.
Polizia, vigili urbani e militari fanno frequenti ronde per le strade.
Nella parte alta del quartiere, non lontano dal BAE Systems, fabbrica d’armi, contestata dai partecipanti al corteo con slogan e interventi, c’è “L’asso di bastoni”, il locale dove si ritrovano i fascisti di Casa Pound. L’Asso di bastoni è una ferita aperta in un quartiere, dove tante lapidi grigie ricordano chi è morto combattendo i fascisti.
Casa Pound, spesso travestita da comitato spontaneo, da mesi prova a scatenare la guerra ai poveri, dando vita ad iniziative contro lo spaccio e la criminalità il cui obiettivo reale sono gli immigrati.
Gli antifascisti del quartiere contrastano attivamente ronde e presidi razzisti.
Il corteo del 23 aprile è stata una scommessa che ha coinvolto gli antifascisti torinesi. Una scommessa vinta.
San Salvario è stata attraversata da un corteo forte e comunicativo, che ha fatto il giro delle lapidi partigiane, dove ha sostato per un breve ricordo e i canti dell’Anonima Coristi della Val Pellice, quasi tutti della tradizione anarchica.
Al corteo erano presente un folto gruppo di Alpi Libere, esponenti delle palestre antifasciste, qualche bandiera di Sinistra Anticapitalista, gli anarchici della FAT con lo striscione “Contro Stato e fascisti azione diretta!”
In piazza Carducci un imponente schieramento di carabinieri chiudeva l’ingresso di via Madama Cristina per impedire agli antifascisti di avvicinarsi troppo alla sede fascista, dove i camerati raccoglievano firme per presentarsi alle elezioni.
Il corteo ha sostato a lungo di fronte alla blocco poliziesco, prima di proseguire il giro e terminare ai giardini Anglesio, dove la Banda Terraneo ha suonato motivi popolari e canzoni anarchiche, mentre gli antispecisti distribuivano panini vegani.
I fascisti sono rimasti intanati nel loro localino, mentre un corteo con uomini, donne e tanti bambini, cui si sono uniti anche alcuni abitanti della zona, si è ripreso le strade e le piazze del quartiere in un 25 aprile lontano dalla retorica patriottarda, un 25 aprile dove chi lotta contro il razzismo, lo sfruttamento, la militarizzazione tutti i giorni, ha reso viva la memoria di chi in quel lontano aprile ha scelto di prendere le armi per conquistare una libertà, che certo non aveva confini.

Domani – 25 aprile – ci sono tanti appuntamenti in città.

Noi, come ogni anno, saremo in Barriera di Milano

Lunedì 25 aprile
ore 15
presidio alla lapide al partigiano anarchico Ilio Baroni
in corso Giulio Cesare angolo corso Novara, dove Ilio è morto combattendo i nazifascisti

Ricordo, deposizione di fiori, musica – banchetti informativi antifascisti e antirazzisti – volantinaggio in quartiere – bicchierata in ricordo delle tante vittime del fascismo di ieri e di oggi.

Noi ogni 25 aprile ci ritroviamo alla lapide di Baroni: si parla, si brinda, si chiacchiera con chi passa. Non è solo una commemorazione. E’ la scelta tenace per i tanti di noi che in questo quartiere sono nati e continuano a vivere, di alimentare il venticello che segnala il mutare dei tempi.
Annodiamo i fili della memoria di ieri con le lotte di oggi.
Le lotte che vedono in prima fila altri partigiani, quelli che si battono contro l’occupazione militare in Val Susa, chi si mette di mezzo contro sfratti e deportazioni, contro il razzismo e il fascismo.
Oggi come allora i partigiani sono trattati da banditi, terroristi, delinquenti. Oggi come allora la gente delle periferie sta imparando da che parte stare.
I partigiani di Barriera in quel lontano aprile hanno combattuto perché volevano un mondo libero, senza schiavitù salariata.
Il loro sogno continua ogni giorno nella lotta per una società di liberi ed eguali. Senza Stato né padroni.

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Una domenica alle Vallette

Domenica 7 febbraio, nonostante una pioggia battente oltre duecento antifascisti hanno risposto all’appello dei ragazzi del quartiere per un corteo di comunicazione e lotta nel giorno scelto dai fascisti di Casa Pound per la fiaccolata nel villaggio Santa Caterina, il gruppo di case popolari che, dagli anni Cinquanta ospita profughi istriani e dalmati, approdati nella nostra città dopo la guerra.

Un imponente schieramento di polizia ha serrato in una morsa di luci blu l’area, nonostante i fascisti, che pure avevano fatto appello ai camerati da Aosta a Milano, pare non fossero più di 50.

Gli antifascisti hanno fatto un lungo giro per il quartiere con frequenti soste per interventi e slogan, ascoltati dalla gente che spesso si è affacciata dai balconi.

Il corteo è stato uno dei tasselli di un’intera settimana di informazione e lotta.

I fascisti nei quartieri popolari fanno leva sulla povertà crescente per offrire agli italiani poveri un nemico da combattere.

La nazione diviene il perno su cui tutto si incardina, l’asse portante, che divide noi e loro. La guerra tra poveri si radica nell’idea di nazione. L’appartenenza di classe cede il passo a quella etnica.
Le marce contro i rom, gli immigrati, i profughi mirano a dare forma alla guerra, indicando obiettivi tangibili. I fascisti fanno leva sui pregiudizi più diffusi, sulla paura, sulla speranza di alzare la testa dalla melma almeno un poco.

Un parlamento bipartisan 12 anni fa ha istituito la giornata del ricordo, fornendo ai fascisti una buona occasione per dar lustro all’idea di una nazione irredenta da difendere.

Sarebbe miope ridurre a mero folclore reducista le celebrazioni fasciste per la giornata del ricordo, perché fiaccolate e deposizioni di fiori offrono uno spazio simbolico che rafforza le pulsioni identitarie.

Raid e pogrom si nutrono di un immaginario che cresce e si alimenta nei rituali, che reinventano e rafforzano una memoria di nazione, di cui il fascismo di ieri e di oggi si propone come alfiere.

Assediare la cerimonia, obbligare i fascisti a celebrarla difesi da un nugolo di poliziotti, spezza l’illusione nazionalista, riporta al centro il quartiere, la sua storia di luogo d’approdo per profughi e immigrati.

Spezzare l’immaginario che nutre il razzismo e la xenofobia non è mero esercizio di una memoria altra, ma reinvenzione di un presente possibile, che si incardina nelle pratiche di lotta quotidiana che a loro volta si nutrono e son nutrite della prefigurazione di un mondo senza frontiere.

Ripartire dalle periferie è anche fare un corteo fradici di pioggia, e scoprire che, nonostante l’acqua, qualcuno si avvicina, sui balconi c’è gente che ascolta.

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Gorizia. Una piazza senza frontiere

Gorizia 23 maggio. Nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia i fascisti di casa Pound, forti dell’appoggio delle istituzioni locali, hanno promosso una manifestazione nazionale nella cittadina giuliana. Casa Pound ha fatto un grosso investimento sulla giornata, organizzando pullman da tutta Italia, ma il corteo non ha raccolto la partecipazione sperata dai fascisti, che avevano annunciato dai due ai tremila partecipanti, ma ne hanno raccolti non più di 800.
Pienamente riuscita la scommessa degli antimilitaristi e antifascisti friulani e giuliani che hanno indetto un corteo antifascista e antimilitarista cui hanno partecipato oltre mille persone.

Ne abbiamo parlato con Federico di Trieste.

Ascolta la diretta:

Di seguito alcuni stralci del report della giornata uscito sul settimanale “Umanità Nova”

Al termine della prima parte del corteo, in Piazza della Vittoria (uno dei tanti toponimi amaro lascito della Prima Guerra Mondiale) si canta insieme “O Gorizia, tu sei maledetta”, uno dei canti contro la guerra più conosciuti, che racchiude in poche strofe tutta la follia e la tragicità della Prima Guerra. La pioggia ha smesso di cadere da poco, siamo più di mille, intervenuti da Gorizia, da tutto il Friuli Venezia Giulia e anche da Slovenia e Croazia, per ribadire che la guerra può essere solo ricordata perché non accada mai più e in nessun modo celebrata, vuoi da CasaPound, vuoi dallo Stato. Lentamente ci si prepara a tornare indietro, convinti – senza presunzione – di aver fatto quanto possibile per costruire una presenza che non fosse vista come un’invasione, ma un atto doveroso e irrinunciabile.

CasaPound aveva annunciato agli inizi di aprile un corteo nazionale a Gorizia, per celebrare l’”esempio luminoso” di chi nelle trincee “sacrificò se stesso” (leggi: il massacro di migliaia di soldati mandati al macello) e “marchiare” il proprio radicamento in Friuli. La città isontina naturalmente non era stata scelta a caso: fu infatti l’unica conquistata con le armi, al costo di decine di migliaia di vite e della distruzione e abbandono dell’intera città – l’8 agosto 1916 vi era tra le macerie solo un decimo degli iniziali trentamila abitanti. Dopo la fine della guerra Gorizia conobbe la prima deportazione razzista a danno degli sloveni, che erano circa la metà della popolazione iniziale.
Ma questa scelta rispecchia anche il diffondersi, in questi anni, di un seme nazionalista e razzista, che nelle realtà più piccole e di confine trova purtroppo terreno fertile.

In risposta al corteo di CasaPound, e allo stesso tempo per contrastare lo stampo nazionalista e militarista delle celebrazioni istituzionali, molte realtà, associazioni e individualità della regione, di differenti aree politiche e culturali, hanno iniziato a pianificare una presenza antifascista e antimilitarista in contemporanea all’iniziativa neofascista.
Si sono ritrovate sotto il cappello dell’Osservatorio antifascista regionale, realtà già presente sul territorio per il monitoraggio di tutti quei gruppi e associazioni che portano avanti la propaganda fascista, anche sotto la copertura di associazioni culturali o pseudo-storiche.
(…)

Sabato 23 maggio Gorizia appariva una città fantasma. Pochissima gente in giro e molti negozi chiusi (con alcune piacevoli eccezioni). Merito del terrorismo mediatico scatenato dai giornali cittadini e dalla Questura, soprattutto riguardo al corteo antifascista. Nonostante questo, nel piazzale antistante la stazione si sono ritrovate almeno cinquecento persone, in attesa di partire in corteo. Partenza che è stata ritardata a causa del fermo prolungato del pullman su cui viaggiavano le compagne e i compagni slovene. La polizia italiana al confine li ha infatti schedati uno per uno e ha sequestrato le aste delle bandiere e degli striscioni (diventati poi ridicolmente sulla stampa i “bastoni” dei “facinorosi”). Dopo il loro arrivo il corteo è partito, con in testa uno striscione che affermava “Né guerre né confini né fascismi” in italiano, sloveno e friulano. Lo spezzone libertario era aperto dallo striscione “Contro la crisi del capitalismo, lotta di classe antifascismo” e complessivamente era partecipato da almeno duecento compagne e compagni (di sicuro lo spezzone specifico più grosso della manifestazione) con molte bandiere e tanti slogan lungo il percorso.
Da segnalare fra gli altri all’interno del corteo anche la presenza di uno spezzone queer (promosso da alcun@ nostr@ compagn@), aperto dallo striscione “Voi Legione – Noi leGine”. (…)

Lungo il percorso il corteo si è ingrossato fino ad arrivare a sfiorare – e forse superare – i mille partecipanti. (…)

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8 maggio 1945. Guerra finita, nazi-fascisti sconfitti. Ma in Algeria non sembra…

In occasione del 70esimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, il blog La Bottega del Barbieri ha voluto ricordare la prima strage coloniale della Francia di De Gaulle.

Di seguito l’intervista all’autore dell’articolo, Karim Metref, torinese di origine algerina.

Ascolta la diretta

Di seguito il suo articolo:

L’8 maggio 1945 è festeggiato in tutto il mondo nordoccidentale come la fine della seconda guerra mondiale. La vigilia, sul tardi, era stata diffusa la notizia della resa: l’esercito tedesco aveva ufficialmente depositato le armi, ovunque. Al mattino scoppiarono festeggiamenti in tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti. In Unione Sovietica quando giunse la notizia della resa dei tedeschi era già l’8 e quindi i festeggiamenti della fine della guerra furono organizzati il 9 maggio. L’incubo era finito per l’Europa. Ma non era così per tutto il mondo.
L’Algeria era a quell’epoca «territorio francese d’oltremare» come si dice ancora per la Nuova Caledonia o per la Guiana. L’amministrazione coloniale di Algeri prese subito la parte del governo collaborazionista di Vichy. Durante il regno del generale Pétain l’ordine coloniale già molto ingiusto divenne ferreo. Gli indigeni erano merce a disposizione del colono. Ogni voce di dissenso era soffocata. Quando nel 1942 sbarcarono in Algeria gli statunitensi, l’amministrazione coloniale salì subito sul carro del più forte e rientrò sotto l’ala protettrice dell’alleanza. Ma la morsa sulla popolazione indigena non si alleggerì, anzi. Centinaia di migliaia di ragazzi furono mobilitati per andare a combattere. De Gaulle non avendo truppe di «veri» francesi al seguito, si inventò un esercito francese fatto principalmente di marocchini, senegalesi e algerini. Carne da macello da mandare allo sbaraglio senza troppi rimorsi. I suoi pochi soldati bianchi se li teneva stretti per l’ingresso trionfale in ogni città liberata dai combattenti africani.
Oltre alla partenza di molti uomini per il mattatoio europeo, le popolazioni algerine subirono tutto il peso dello sforzo bellico francese. I magri raccolti (ricavati grazie al lavoro di vecchi, donne e bambini) e gli animali erano requisiti e mandati verso la metropoli per sfamare la popolazione stremata dal 4 anni di conflitto ad altissima intensità.
Durante l’incredibile inverno del 1945, l’isolamento a causa delle nevicate eccezionali, la fame, il freddo e le malattie spazzarono via migliaia di persone nelle zone montuose del Nord Est del Paese. Mentre nelle pianure ricche, i coloni europei non sembravano soffrire di nessuna mancanza. Appena tornata la primavera, molte città manifestarono pacificamente contro la fame e le ingiustizie. L’amministrazione coloniale rispose arrestando i leader nazionali. È in queste condizioni che giunse la fine della guerra.
Come tutti i popoli toccati dalla guerra, gli algerini escono a festeggiare l’8 maggio 1945. Gli indigeni ancora più degli europei. I partiti nazionalisti, in modo particolare il Ppa (Partito del popolo algerino) di Messali El Hadj, ne approfitta per ricordare all’amministrazione coloniale le promesse fatte per facilitare l’arruolamento dei giovani algerini nell’esercito: la vittoria alleata avrebbe portato uguaglianza e giustizia per tutti. Bisogna sapere che in Algeria all’epoca c’erano due categorie di persone: i cittadini, tutti quelli di origine europea, e i sudditi, cioè tutti gli indigeni (meno gli algerini di religione ebraica che furono ammessi come cittadini dopo il decreto Crémieux del 1870). Davanti alle leggi, ai tribunali e alle urne elettorali della Repubblica Francese, culla dello Stato di diritto, un cittadino valeva 10 sudditi. Gli striscioni e gli slogan per lo più inneggiano all’uguaglianza e alla giustizia ma in mano ad alcuni gruppi di militanti si leggono anche alcune rivendicazioni di autonomia. A Setif, in testa allo spezzone degli scout algerini svolazza addirittura la bandiera algerina, il simbolo degli indipendentisti. Il commissario della città, un certo Olivieri, figlio di migranti italiani, interviene di persona per confiscare il simbolo. Ma gli scout rifiutano di consegnarlo. Un giovane militante del Ppa, Bouzid Saad, difende la bandiera con il proprio corpo ed è abbattuto a freddo da un poliziotto. Altri spari partono contro la folla che si raduna minacciosa. I manifestanti corrono in tutte le direzioni. In tutta la città scoppiano scontri fra coloni e indigeni, cadono decine di morti da entrambe le parti. La popolazione indigena è più numerosa ma i coloni sono ben armati.
In tutto il dipartimento di Costantina (Nord Est) la notizia dei morti di Setif si sparge come una scia di fuoco e scoppiano scontri in molte città. In modo particolare a Guelma e a Kherata. Nelle campagne molte proprietà di coloni isolati sono prese d’assalto. Le più piccole vengono espugnate ed è un massacro. Le più grosse e quelle che riescono a radunarsi sono assediate ma resistono. Centinaia di morti. La situazione rischia di degenerare in tutto il Paese.
L’11 maggio, De Gaulle chiede l’intervento militare. Gli statunitensi lo appoggiano e offrono i loro mezzi aerei per trasportare truppe provenienti da tutto il nord Africa verso l’est algerino.
Il giorno dopo comincia il massacro vero e proprio. Interi villaggi sono fatti fuori. Esecuzioni sistematiche, bombardamenti con l’artiglieria pesante, due corazzate in stanza nella baia di Bejaia sparano centinaia di missili sui paesi dell’entroterra: è un vero e proprio scempio commesso da un esercito in assetto di guerra contro civili disarmati.
Le stime ufficiali francesi parlano di un migliaio di morti. Un rapporto dei servizi segreti Usa parla di circa 17mila-20mila morti. La versione del movimento nazionalista algerino porterà questo numero a 45.000.
Non si avrà mai una certezza sui numeri di morti. Anche perché se l’amministrazione coloniale ha stabilito un elenco preciso del centinaio di morti europei, non fece nessun censimento degli indigeni sepolti nelle fosse comuni o gettati nei fiumi, nei burroni e nel mare.
Quel che si sa è che quando i combattenti algerini tornano dalla guerra trovano villaggi vuoti e famiglie devastate.

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25 aprile in Barriera di Milano. La memoria dei partigiani vive nelle nostre lotte

Ogni anno gli anarchici della FAT si ritrovano alla lapide di Ilio Baroni, operaio delle Ferriere, partigiano a capo della settima brigata SAP, che morì combattendo il 26 aprile del 1945, nel secondo giorno dell’insurrezione di Torino contro i nazifascisti.
Anche quest’anno ci siamo ritrovati al muretto, che un tempo era la spalletta di un ponte su un canale, che venne prosciugato qualche decennio fa, perché le fabbriche avevano chiuso e quell’acqua non serviva più.
Nonostante qualche accenno di pioggia eravamo tanti, più del consueto. C’era anche una ragazza appena arrivata a Torino che era venuta lì con un fiore.
Ritrovarsi lì e ripercorrere la memoria di quei giorni d’aprile, quando in Barriera di Milano ci si batteva strada per strada, con le armi in pugno, è da sempre un modo per intrecciare i fili di una memoria che non muore, perché vive nelle nostre lotte.
Le strade di Barriera sono le stesse degli scioperi del 1917 contro la guerra, quando l’anarchico Ilario Margarita ebbe la buona idea di elettrificare le barricate per fermare le cariche a cavallo.
Qui il sogno che tanti avevano nel cuore e nelle mani divenne concreto nel 1920, quando
la Fiat venne occupata dai lavoratori ed i padroni se la videro brutta. Uno spavento che porto’ alla dittatura fascista.
Oggi la crisi incide nel profondo: sono tanti quelli che hanno perso il lavoro, ancora di più quelli che non ce l’hanno e non lo avranno mai. Torino è la capitale degli sfratti, della repressione, della militarizzazione dei quartieri.
Oggi in Barriera si lotta contro il razzismo, lo sfruttamento, i militari in strada. Si lotta contro il fascismo che torna ed è targato Lega Nord, si lotta contro contro un governo autoritario che agisce per ottenere il totale asservimento dei lavoratori.

La mattina del 25 aprile i giornali parlano dei fantocci appesi la notte del 24 in Barriera. Di fronte alla sede della Lega Nord di via Poggio Matteo Salvini è stato appeso a faccia in giù. Nella stessa via c’é la sede dell’ANPI che chiamò Giancarlo Caselli a parlare di terrorismo. Lì c’era la sagoma del sindaco di Torino Piero Fassino. Di fronte alla sede del PD, dedicata al partigiano Banfo, c’era Matteo Renzi. Ci sono anche delle scritte “Lega = fascismo. A piazzale Loreto c’é ancora posto”, “PD = fascismo”, “Ieri ebrei e rom, oggi immigrati e rom”.
I giornali urlano l’indignazione dei politici, parlano di violenza e di minacce. Chi vive in Barriera la violenza la vive ogni giorno sulla sua pelle: ha la faccia dell’alpino con il mitra a caccia di clandestini, delle pattuglie che lo percorrono, dell’ufficiale giudiziario che intima lo sfratto, dei padroni che lucrano sulle vite di tutti.

Intorno alla lapide di Ilio siamo in tanti a sorridere pensando che quei fantocci possano davvero impensierire razzisti e padroni.
La memoria si intreccia, la Resistenza, quella vera, quella che voleva farsi rivoluzione è un retaggio che portiamo tra le mani. Ogni giorno, per poter davvero impensierire che opprime e chi sfrutta, chi uccide e chi tortura. Alla Diaz, a Bolzaneto, nel Mediterraneo.

Poi si brinda, si chiacchiera, appoggiati alla spalletta del ponte. Nicola Bartolomeo, il più giovane di noi, sta imparando a camminare. E’ festa d’aprile.

Qui il testo del volantino e il resoconto della contestazione del PD alla fiaccolata istituzionale del 23 aprile. Qui le foto dei fantocci appesi alla Lega, all’ANPI, alla sede del PD.

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Tortura e potere

Dopo la condanna del governo italiano per i fatti della Diaz, che la CEDU ha definito tortura, si è acceso un vastissimo dibattito, che tuttavia spesso ha ignorato un fatto banale. Non ci sono poteri buoni e la tortura, e la copertura della stessa, fa parte della normalità. In una società gerarchica, statale, of course.
Abbiamo deciso di proporvi alcuni approfondimenti sul tema.
Di seguito l’articolo di Massimo Varengo comparso sul settimanale Umanità Nova.

Questa volta dobbiamo proprio ringraziare Renzi per avere chiarito, senza ombra di dubbio, quali siano i supremi valori dello Stato; a fronte di una condanna per tortura emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per violazione dell’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani per i fatti della Diaz, Genova 2001, Renzi ha riconfermato piena fiducia al capo della polizia di allora, Gianni De Gennaro arrivato, dopo una carriera in ascesa, a ricoprire il ruolo di presidente di Finmeccanica, nonostante che l’operato delle forze di polizia che lui comandava “deve essere qualificato come tortura”.
Ora, da che mondo è mondo, il capo di una qualsivoglia struttura è il responsabile della stessa; l’assolverlo da ogni schifezza che tale struttura possa aver compiuto, vuol dire che è lo Stato, in toto, a farsi carico della schifezza in questione. In aggiunta c’è da dire che De Gennaro è sempre stato uomo gradito alle amministrazioni USA, oltrechè ai partiti di centrodestra e di centrosinistra, e non è certo un caso che si ritrovi oggi a capo di Finmeccanica che è il primo gruppo industriale italiano nel settore dell’alta tecnologia e tra i primi gruppi mondiali nei sistemi di difesa/offesa, nell’aerospazio e nella sicurezza.
Non avevamo bisogno dei giudici di Strasburgo per sapere quella che è la scoperta dell’acqua calda: lo Stato non condanna mai se stesso e se oggi siamo di fronte ad un pronunciamento giuridico sovranazionale esso è dovuto al semplice fatto che lo Stato italiano, pur avendo aderito alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, non si è mai preoccupato di dare una veste legislativa a tale adesione, adeguando i suoi codici a quello che l’integrazione a livello europeo richiede.
D’altronde lo Stato ha il monopolio esclusivo della violenza, e lo ha esercitato e lo esercita nei modi che ben sappiamo. Come sappiamo che anche la sentenza di Strasburgo, emessa dopo ben 14 anni dai fatti, rappresenta, né più né meno, che uno specchietto per le allodole per le anime belle sempre alla ricerca di motivi per aver fiducia nel sistema democratico.
A Genova nel 2001 l’attacco contro il movimento fu pianificato e realizzato dalle forze di polizia italiane in concorso con i servizi segreti degli Otto ‘grandi’ (e probabilmente non solo). Le botte, le torture, i trattamenti umilianti e degradanti, in piazza, come alla Diaz e a Bolzaneto, finanche la morte di Carlo Giuliani, non furono ‘eccezioni’, dovute ai nervi tesi dei militi, provocati – come fu ampiamente contrabbandato dai media di regime – dai danni a banche e negozi da parte di settori di manifestanti; ma furono il frutto di una strategia di annichilimento e di terrore, tesa a mettere la parola fine ad un movimento che da Seattle (1999), Washington (aprile 2000), Praga (settembre 2000), Montreal (ottobre 2000), Nizza (dicembre 2000), Davos (gennaio 2001), Napoli (marzo 2001), Quebec (aprile 2001), Gotenborg (giugno 2001), era in un progressivo crescendo di lotta, di contestazione radicale e di proposta.
A Genova nel luglio del 2001 si verificò quella che anche organizzazioni riformiste come Amnesty International definirono “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dalla Seconda guerra mondiale”; oggi la Corte di Strasburgo ci dice che a corredo di tale sospensione, le forze di polizia operarono praticando di fatto la tortura e ogni altra procedura che, anche non solo attraverso le lesioni fisiche, si è tradotta comunque in trattamento degradante e umiliante.
Risultato cercato e voluto: il riflusso e la dispersione in mille rivoli di quel grande movimento anticapitalista che stava rappresentando una nuova e significativa offensiva contro il sistema di sfruttamento e di potere esistente. Riflusso e dispersione, favoriti anche dall’illusione, democraticista e riformista, che la battaglia si sarebbe potuta riprendere dopo avere avuto giustizia nelle aule dei tribunali.
L’indignarsi – in realtà blando, oltrechè tardivo – delle anime belle per quanto hanno fatto a Genova i solerti militi appare oggi assolutamente ipocrita perché non tiene conto di un fatto banale: qualsiasi forma di Potere, quando si sente minacciato, ricorre ad ogni forma di oppressione e di violenza per garantirsi la continuità. Da noi sono le storie degli anni ’60 e ’70 a confermarcelo con le stragi, le leggi eccezionali e le vicende di tortura che trapelano nei ricordi dei protagonisti; sono le morti in carcere, nelle camere di sicurezza o nei manicomi giudiziari. Negli USA è Obama ad aver riconosciuto che le truppe hanno praticato la tortura in Iraq e dintorni, per non parlare di Guantanamo, con i risultati che ben conosciamo. E si potrebbe continuare passando in rassegna le pratiche in vigore nei paesi della UE, dotati sì di legislazioni che prevedono il reato di tortura, ma anche di escamotage in grado di bypassarle.
Nei giorni scorsi la Camera italiana, sull’onda della sentenza di Strasburgo, ha approvato il disegno di legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano; ma quale legge e quale tortura?
Verrebbe infatti considerata tortura ogni atto umiliante e degradante compiuto da chi esercita genericamente un rapporto di autorità, come può essere quello della relazione padre-figlio o insegnante-scolaro. Pur di non toccare la condizione di monopolio dell’uso della violenza, proprio delle forze di polizia, si è allargato il tema della tortura a tutti i rapporti umani, rendendo la legge difficilmente applicabile. Insomma si è cercata una pezza per soddisfare il richiamo di facciata della Corte di Strasburgo e per lasciare inalterato l’arbitrio di polizia.
E di questo un partito come il PD, discendente in gran parte da quel PCI che chiedeva il disarmo delle forze di polizia, ne va oggi fiero. Quando si dice che il potere corrompe…

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Un democristiano del secondo millennio

In molti hanno evocato la rinascita della Balena Bianca, il riemergere in superficie del grosso mammifero che ha governato l’Italia dal dopoguerra al crollo del muro di Berlino. Sergio Mattarella, ministro nei governi del pentapartito, sopravvive alla bufera che travolge la DC e diventa ministro nel governo D’Alema all’epoca della guerra per il Kosovo, per poi approdare alla corte costituzionale. E’ anche l’uomo che firma la prima legge elettorale di stampo maggioritario, che tuttavia mantiene una quota proporzionale. E’ l’uomo della transizione nell’epoca in cui tutto mutò perché molto rimanesse come prima. Lo sgonfiarsi delle clientele legate ad una pubblica amministrazione gonfiata all’eccesso, l’ondata neoliberale facilitata dal venir meno della necessità di mantenere sotto controllo un paese, dove la maggioranza atlantica doveva fare i conti con un il più grande partito comunista dell’Europa occidentale, hanno richiesto una rottura.
La transizione dalla politica ideologica alla politica post-ideologica, si è accompagnata ad un’ondata “nuovista” incarnata da un palazzinaro milanese diventato re nel settore della comunicazione televisiva. Berlusconi, cresciuto ombra di Craxi, raccoglie il testimone incarnando una rottura che si gioca sul piano dell’immagine più che nella sostanza.
Chi all’epoca sosteneva che – alla fine – non saremmo morti democristiani si sbagliava.
La Balena Bianca si è sparsa ovunque, sino a prendere il sopravvento nel PD, il partito nato dalla fusione tra parte dei post-comunisti e post-democristiani.
L’elezione alla presidenza della Repubblica di Sergio Mattarella, protagonista della nascita del Partito Popolare dalle ceneri della DC, del suo passaggio alla Margherita sino alla fusione con il PD, è l’emblema di questa storia.

L’info di Blackout ne ha parlato con Massimo, un compagno di Milano, che ci ha offerto numerosi spunti di analisi tra ieri ed oggi.

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