Perché, ostinatamente, anno dopo anno, ricordiamo la strage di Torino? Quel 18 dicembre del 1922, quando le squadracce fasciste calarono sulla nostra città? Che senso ha ricordare un tempo che non somiglia al nostro?
La storia della Torino operaia, che attraversa le due guerre ed approda sino agli anni Ottanta del secolo scorso, è una storia che ci emoziona ma pare ormai remota.
Oggi, l’imprenditoria subalpina e il governo della città, dopo il tramonto dell’era Fiat, puntano su grandi eventi e industria bellica.
Il lavoro non si concentra più nelle grandi fabbriche e nelle imprese di servizi controllate dallo Stato ed è divenuto sempre più precario, parcellizzato, esternalizzato, mal pagato, pericoloso, senza reali ammortizzatori per chi lo perde.
Negli ultimi 50 anni, pezzo a pezzo, i padroni hanno presentato il conto a chi, tra gli anni Sessanta e Settanta, aveva osato tentare di trasformare radicalmente l’assetto politico e sociale, a chi aveva immaginato e provato a costruire una società di liber* ed eguali.
Oggi un governo che si ispira direttamente al fascismo, sta mettendo le basi per una svolta autoritaria, declinata all’interno dell’apparato democratico. La partecipazione a picchetti, occupazioni, blocchi stradali, la difesa dalle violenze di polizia potranno costare lunghi anni di galera. Ma. Attenzione. Il governo di destra semina in solchi aperti da tutti i governi precedenti. L’accelerazione repressiva dell’ultimo anno è stata possibile perché certa “sinistra” si era da tempo schierata a favore dei padroni, sia sul piano securitario, che nel disciplinamento dei lavoratori e lavoratrici.

Quel 18 dicembre del 1922 le squadracce capitanate dal federale della milizia Brandimarte presentarono i conto a chi aveva osato prendere nelle proprie mani il sogno di un mondo di liberi ed eguali, occupando le fabbriche, cacciando i padroni.
Quegli operai, mollati dalla sinistra riformista, finirono con l’uscire dalle fabbriche, che tornarono ai padroni, decisi a fargliela pagare. A far pagare la grande paura che il loro tempo fosse finito.
La vendetta dei padroni, come aveva previsto Errico Malatesta, fu terribile e senza pietà.
Quel 18 dicembre del 1922, quasi due mesi dopo la marcia su Roma, per i fascisti era giunto il momento di regolare i conti con la classe operaia torinese, che era riuscita, sia pure per poco, a far tremare i padroni.
Il fascismo aveva vinto ma Torino, nonostante i continui attacchi a compagn* e sedi, non era ancora sotto controllo fascista.
I fascisti pestano a morte, seviziano, uccidono a colpi d’arma fuoco decine di sindacalisti, anarchici, comunisti e socialisti. Alcuni vengono trascinati fuori dalle loro abitazioni, altri massacrati al lavoro o in strada.
La Camera del lavoro, con l’annessa sede dell’Unione anarchica piemontese, di quella Torinese e dei gruppi anarchici “Centro” e “Volontà”, violata dalla coorte “Randaccio” e dalle squadre “Battisti”, “Pini” e “Toti”, è per l’ennesima volta, l’ultima, assaltata e incendiata. Qui Pietro Ferrero, operaio, anarchico, segretario della Fiom, viene riconosciuto e pestato a sangue, quindi legato ad uno dei camion dei sicari della borghesia e così trascinato lungo tutto corso Galileo Ferraris.
Il suo corpo straziato è abbandonato in Largo Vittorio Emanuele II, ai piedi del monumento al Gran Re, omaggio del fascismo trionfante alla ben grata monarchia.

Quindi?
Certo. La storia di quella Torino è finita: al posto delle grandi fabbriche ci sono supermercati e strutture/contenitore per grandi eventi.
Di quella comunità che lottò, venne sconfitta, riemerse nella clandestinità e nella resistenza, per approdare alle lotte degli anni Settanta, nell’unione con gli operai immigrati dal meridione e dal nord est, non resta quasi più nulla.

Ma, a saperla leggere, quella vecchia storia parla anche di noi. Adesso.
Ci ricorda che fascisti e padroni non molleranno la presa, che spetta a noi costruire nuove comunità di lotta, plurali, includenti, radicali, radicate, capaci di stringere forte nelle mani, il sogno di un mondo di liber* ed uguali, di far tremare e fuggire, ancora una volta i padroni.

Per approfondimenti vi riproponiamo lo scritto dello scorso anno in occasione delle iniziative per il centenario