Torino, domenica 7 marzo. Piazza Carlo Alberto è stata attraversata da decine di corpi liberi, non conformi, autodeterminati, che hanno decorato pali grigi e monumenti militaristi di striscioni, manifesti, bandiere e un tocco di favolosità queer. La piazza, lanciata dal Collettino anarcofemminista Wild C.A.T. si è arricchita di interventi sul lavoro femminilizzato e sfruttato, le identità rigide e i ruoli di genere imposti, la gabbia familiare, la violenza patriarcale e la narrazione tossica dei giornali, l’attacco alla libertà di aborto, ecc. senza dimenticare le azioni performative, i gadget e i materiali informativi benefit spese legali per lu compagn* della magni*fica occupata colpit* dalla repressione, e le meravigliose cornici musicali anarco-femministe by Malormone Crew, che hanno ulteriormente animato la manifestazione antisessista alla vigilia dello sciopero transfemminista dell’8 marzo

In questo video una sintesi della giornata:
https://www.youtube.com/watch?v=DqRMmcgcPCU

Di seguito il volantino di Wild C.A.T.

Miele, mimose e buoni sentimenti?
Libere e ribelli!
É passato un anno da quando le nostre vite sono state rese più precarie e meno libere dal diffondersi di un nuovo virus mortale e dalla gestione governativa della pandemia.
Povertà, violenza, attacco all’aborto, gabbie familiari sono gli anelli di una catena che segna la vita delle donne. Questa catena è divenuta sempre più robusta e stringente. La pandemia ha messo il turbo a processi già in atto da tempo, ma che, sul piano della narrazione pubblica, restano sommersi, misconosciuti, messi in ombra perché il loro emergere nella dimensione politica sarebbe troppo dirompente per gli instabili equilibri che segnano il tempo sospeso che stiamo vivendo.

L’attacco all’aborto non è solo una delle infinite omissioni di soccorso verso chi soffre di gravi patologie ed ha subito blocchi ed interruzioni di prevenzione e cura. L’attacco all’aborto si concretizza nell’acuirsi della difficoltà ad effettuare l’IVG, dovuta ad obiettori e norme che, come in Piemonte, limitano l’accesso all’aborto farmacologico e impongono la presenza delle organizzazioni della destra clerico-fascista in ospedali e consultori. Nelle Marche un governo esplicitamente fascista ha vietato la pillola del giorno dopo.

La gabbia familiare, è il terreno dove ri-fondare l’ordine patriarcale, incrinato dai percorsi di libertà delle donne. Percorsi che, in ogni angolo del pianeta, hanno scatenato una guerra senza esclusione di colpi. Una guerra che si esplicita sia nelle leggi, sia nella crescente violenza misogina che attraversa le società.
La casa come luogo di elezione per la “lotta al virus”, è divenuta il detonatore per un’ulteriore impennata di violenze e femminicidi. Femminicidi la cui matrice politica non è quasi mai riconosciuta, perché vengono ridotti a questioni private, a raptus, follia, eccesso “d’amore”. Questo travestimento narrativo alimenta la violenza, perché fornisce un alibi a massacratori ed assassini, che uccidono le donne libere, come monito a tutte.

Le chiusure e restrizioni a singhiozzo imposte dai decreti governativi contro il Covid hanno riportato a casa tante donne. Se fai un lavoro meno pagato, magari part time, diventa “naturale” che tocchi a te restare a casa per occuparti dei figli o degli anziani malati. La precarietà del lavoro femminile, la minor retribuzione, rendono il salario delle donne meno importante di quello degli uomini e le ricacciano nella gabbia familiare, una gabbia che si stringe sempre più. Le politiche familiste che hanno segnato l’agire dei governi di questi anni, coniugate con la maggiore precarietà della condizione lavorativa femminile, ha aperto una voragine, che sta inghiottendo la libertà di tantissime donne.
Le cifre della disoccupazione femminile sono impressionanti: in dicembre il 99,9% dei nuovi disoccupat* erano donne.
Preti e fascisti sguazzano in questo pantano, che apre ulteriori voragini negli spazi di autonomia delle donne. Le destre razziste e misogine le vorrebbero fattrici di figli per la patria, come contrappeso alla presenza di bambini e bambine nati qui da genitori immigrati, all’insegna del binomio sangue e terra, che fonda ogni identità escludente.

Le destre, ma non solo, sostengono il capitalismo e la divisione in classi, ma li vorrebbero mitigati da un forte stato etico, saldamente fondato sulla famiglia, sulla nazione, sulla religione. Dio, patria, famiglia, un assioma che non disturba gli affari ma rimette in ordine il mondo.
Questa formula funziona bene in un modello polemologico, dove la guerra è orizzonte perenne. Il nemico è lo straniero, l’estraneo, l’immigrato, ma soprattutto quello che si sottrae alla norma, alla legge del padre, alla gerarchia tra i sessi.
Le donne sono il nemico interno, il loro asservimento è indispensabile alla riaffermazione della famiglia, nucleo politico ed etico del patriarcato alle nostre latitudini.
Le identità erranti, fluide, in transito, eccedenti la rigidezza dei generi rompono il binarismo e dissolvono la gerarchia tra i sessi. L’emergere sulla scena pubblica di corpi costitutivamente o-sceni, fuori dallo spazio del rappresentabile e del rappresentato, aprendo uno spazio di sperimentazione nella lotta, spezza l’ordine del padre. L’intersezione con la molteplicità delle esclusioni e degli esclusi è sovversiva rispetto al mondo nel quale siamo forzat* a vivere.

La scommessa dello sciopero femminista transnazionale dell’8 marzo rappresenta un’occasione importante per chiudere i conti con un mixer velenoso di miele, mimose e buoni sentimenti e costruire un momento di lotta ampio, intersezionale, anticapitalista, libertario. Non può essere tuttavia un evento che si riproduce uguale anno dopo anno, ma punto di innesco di un conflitto diffuso e quotidiano, per estirpare le radici simboliche e materiali del patriarcato.

Torino, lunedì 8 marzo. La giornata è stata segnata di numerose azioni ed interventi in giro per la città.
In mattinata di fronte alla sede del movimento per la vita di Torino in corso Trento 13 con lo striscione “Ma quale stato, ma quale dio, sul mio corpo decido io” abbiamo inaugurato la giornata di lotta dell’8 Marzo. Si sono susseguiti interventi e azioni. Abbiamo consegnato grucce di ferro e prezzemolo: oggetti simbolo della terribile materialità dell’aborto clandestino per cui molte donne sono morte.
La giunta Cirio è partita all’attacco della libertà delle donne con una delibera emanata il 2 ottobre. Ai primi di marzo l’assessore fascista Marrone ha rilanciato con la proposta di finanziare la presenza delle associazioni antiabortiste nei consultori.
Nella circolare de 2 ottobre sono state decise misure che limitano ulteriormente la libertà delle donne di scegliere se e quando avere figli. Viene fatto esplicito divieto di somministrare la pillola abortiva RU 486 nei consultori, in opposizione a quanto stabilito in agosto dal ministero della sanità. In Piemonte l’aborto farmacologico p essere effettuato soltanto nelle strutture ospedaliere.
Non solo. Nella stessa circolare viene permesso alle associazioni antiabortiste di fare propaganda negli ospedali.
La legge 194 del 1978, che stabiliva le procedure legali per l’aborto, viene usata come un grimaldello per rendere difficile quando non impossibile la libera scelta delle donne.
In Piemonte la 194 viene utilizzata per limitare l’aborto farmacologico e per dare spazio ai catto-fascisti. Nella circolare emanata dalla giunta Cirio, le misure restrittive adottate sono giustificate come attuazione della 194.
Le leggi sono la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società. Tante leggi, a posteriori definite “conquiste”, sono state limitate concessioni a movimenti che miravano a ben di più.
Oggi i percorsi della libertà femminile sono sotto il costante attacco di chi vorrebbe riproporre una visione patriarcale dei generi e individua nella maternità un destino da cui le donne non dovrebbero sottrarsi, tornando docili nella gabbia familiare. La negazione delle identità non conformi, l’asservimento delle donne libere è indispensabile alla riaffermazione della famiglia, nucleo politico ed etico del patriarcato alle nostre latitudini. La famiglia è la fortezza intorno alla quale i raggruppamenti identitari e sovranisti pretendono di ri-fondare un ordine politico e sociale gerarchico ed escludente.
La giunta Cirio mira a cancellare i percorsi della libertà femminile, ponendo le donne sotto tutela, soggetti deboli, incapaci di decidere, bisognosi di un sostegno.
Il sostegno, nel caso della Regione Piemonte, arriverebbe da associazioni pro-vita, che agiscono da decenni come soggetti privati, ma oggi entrano nelle strutture sanitarie con il finanziamento della Regione e in osservanza alla legge 194.
“Il presidente della Regione e gli assessori alla Sanità e agli Affari legali precisano che tali indirizzi rispondono alla volontà, unanimemente condivisa dalla Giunta regionale e dai presidenti dei gruppi consiliari di maggioranza, di garantire il pieno rispetto delle disposizioni della legge 194 poste a garanzia della piena libertà di scelta della donna se interrompere volontariamente la gravidanza o se proseguirla”.
Nella neolingua del governo regionale piemontese, per difendere “la libertà di scelta della donna”, si finanziano gli sportelli delle associazioni antiabortiste.
Il vero nodo è la legge 194, la legge che, dopo la depenalizzazione dell’aborto, pose seri limiti alla libertà di scelta delle donne.
La 194 è una gabbia normativa, che i nemici della libertà femminile hanno imparato a usare.
Due anni fa l’Avvenire indicava nell’obiezione la strada maestra per rendere impossibile scegliere di abortire. In Piemonte oltre il 60% dei medici si dichiara obiettore. In molte zone d’Italia si arriva al 100%.
La questione non è la libertà dei medici di rifiutare di agire contro la propria coscienza, ma che si diano le condizioni perché nessuno limiti la libertà di scelta delle donne, perché nessuno ne metta repentaglio le vite, perché nessuno possa ricattarci, umiliarci, piegarci. Eravamo fuorilegge, siamo state messe sotto l’ombrello della legge, è tempo che si lotti per essere davvero libere, senza legge.
Cacciamo i catto-fascisti dagli ospedali!”


Ci siamo po spostate al mercato di Corso Valdocco e all’Unione Industriale, dove abbiamo aperto lo striscione: “Contro il lavoro femminilizzato e sfruttato: sciopero femminista”, volantinato e fatto interventi. Ci siamo poi spostat* all’Unione Industriali dove abbiamo appeso cartelli con queste scritte “Cercasi commessa giovane, bella presenza”, “Ti aspetto domani mattina, ben truccata con gonna e tacchi”, “Cercasi Hostess alta slanciata, pattini a rotelle”, “MI raccomando, sorridi ai clienti e sii gentile”, “Non arrivare in ritardo”, “Non restare incinta, non voglio pagarti la maternità”.

Oggi l’epidemia rende più evidente il valore dello sciopero femminista dell’8 marzo.
La lotta femminista contro la violenza maschile sulle donne e le violenze di genere, si
articola come diserzione dal lavoro retribuito fuori casa, ma anche dal lavoro dentro casa, dai lavori di cura, dai lavori domestici e dai ruoli di genere imposti. La donna lavoratrice si porta dietro la zavorra di moglie-mamma-nuora-figlia-badante anche quando è al lavoro. Il suo ruolo familiare non decade mai. Lo dimostra il fatto che dei 101 mila licenziamenti che ci sono stati a dicembre, 99 mila hanno colpito le donne. Nell’arco di tutto il 2020, di 444 mila nuovi disoccupati le donne costituiscono il 70%. Il divario retributivo tra uomini e donne che svolgono la stessa mansione è ancora forte in molti settori lavorativi e aumenta man mano che il lavoro diventa più qualificato. In Italia la differenza media è del 23,7%, mentre in Europa è del 29,6% e a livello globale del 20%. Le donne hanno un tasso di partecipazione al mercato del lavoro del 18,9% più basso rispetto agli uomini.
Non solo. Alle donne viene imposto di essere accoglienti, protettive, multitasking, disponibili, di mettere a disposizione del padrone le qualità che ci si aspetta da loro come dalle altre soggettività che sfuggono alla norma eteropatriarcale. Alle donne viene chiesto di mettere al lavoro i loro corpi al di là del compito per cui vengono assunte: bella presenza, trucco, tacchi, sorrisi e gonne sono imposti per far rendere di più un esercizio commerciale, per presentare meglio un’azienda, per attrarre clienti. L’agio del cliente passa dalla perpetuazione di un’immagine femminile che si adegui a modelli di seduttività, maternità, efficienza, servilità che riproducono stereotipi, che riprendono forza dentro i corpi messi al lavoro solo a condizione che vi si adattino. La riaffermazione di logiche patriarcali offre un puntello al capitale nella guerra a chi lavora. La lotta femminista scardina questo puntello, riaffermando l’autonomia delle donne. Un’autonomia che viene attaccata dalla gestione governativa dell’epidemia di Covid 19.
Sul lavoro femminile e femminilizzato si è riversata tanta parte del peso imposto dal diffondersi del virus e delle misure imposte dal governo. Oggi tocca a tutti fare i conti con un sistema sanitario che è stato demolito, tagliando la spesa sanitaria mentre risorse sempre più ingenti venivano impiegate per armi e missioni militari, per le grandi opere inutili come il TAV. La cura dei bambini che restano a casa perché le scuole sono chiuse, gli anziani a rischio, i disabili ricadono sulle spalle delle donne, già investite in modo pesante dalla precarietà del lavoro. Una precarietà avvertita come “normale”, perché il reddito non è concepito come forma di autonomo sostentamento, ma come reddito accessorio, di mero supporto all’economia familiare.
Il riproporsi, a destra come a sinistra, di politiche che hanno il fulcro nella famiglia, nucleo etico dell’intera società, passa dalla riproposizione simbolica e materiale della divisione sessuale dei ruoli. In questi anni il disciplinamento delle donne, specie quelle povere, è parte del processo di asservimento e messa in scacco delle classi subalterne. La rinnovata sessualizzazione del lavoro di cura non pagato riduce la conflittualità sociale conseguente all’erosione del welfare, è fondamentale per garantire una secca riduzione dei costi della riproduzione sociale. Disertare da questa gabbia non è facile, ma è necessario. Padroni, preti e fascisti non hanno fatto i conti con le tante donne che non ci stanno a recitare il canovaccio scritto per loro. Tante donne che, in questi ultimi decenni, hanno imparato a cogliere le radici soggettive e oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi. Percorsi possibili solo fuori e contro il reticolo normativo stabilito dallo Stato, dal capitalismo e dalla religione.
La solidarietà e il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie. Una scommessa che spezza l’ordine morale, sociale ed economico.

La tappa successiva è stata al consolato cileno per ricordare Emilia “Bau” Herrera compagna trans, anarchica, antispecista, uccisa da guardie padronali la mattina del 16 febbraio di quest’anno.
Abbiamo attaccato lo striscione “Emilia vive nelle lotte” e fatto alcuni interventi.
Emilia faceva parte di Lof Llazcawe, una delle terre ancestrali mapuche, liberata dal dominio coloniale.
Le hanno sparato in fronte le guardie private del condominio Riñimapu: sicari ingaggiati da Manuel Garcìa incaricato dai proprietari della zona residenziale di sgomberare un accampamento spontaneo.
Se una cade altre dieci si alzano.

Ci siamo poi ritrovat* al monumento dei bersaglieri in corso Galileo Ferraris, dove abbiamo frocizzato le sagome in acciaio con spolverini arcobaleno. Sul basamento abbiamo lasciato il cartello: “Nè generi né generali”.
Lo stupro si è storicamente affermato come un vero e proprio strumento di guerra, un’arma di cui si sono serviti gruppi di uomini per imporre la propria supremazia. Negli anni ’90 i militari Italiani paracadutisti della Folgore, coinvolti in una missione in Somalia, torturarono e stuprarono una ragazza di 23 anni con un razzo illuminante, un esempio tra i tanti delle atrocità sessiste, nazionaliste e razziste perpetrate in scenari bellici in ogni parte del mondo. L’ideologia militare si nutre di violenza patriarcale, relega il corpo delle donne a un oggetto di gioco, con cui divertirsi, su cui affermare, attraverso lo stupro di gruppo, lo spirito cameratesco. Un (S)oggetto da dominare e umiliare per mostrare e vedere riconosciuta la propria mascolinità, campo di guerra, terreno di conquista.
La partita sul corpo delle donne si gioca sempre nei termini dell’offensiva conquistatrice o della difesa di quanto è stato “conquistato”. «Stai al tuo posto», è l’invariata cantilena intonata di sottofondo. Alle nostre latitudini la promessa protezione delle donne è sin troppo spesso alibi per politiche securitarie, che si servono dei nostri corpi per giustificare strette disciplinari sull’intera società. Le donne in lotta sanno che lo stereotipo della vittima serve solo a giustificare una perenne messa sotto tutela che nega la scommessa rivoluzionaria dei tanti percorsi della libertà femminile.
Noi siamo consapevoli che la nostra sfida al patriarcato possiamo agirla soltanto in prima persona, praticando l’azione diretta e il mutuo appoggio, e non può non passare da una ferma opposizione nei confronti del militarismo
.

Il nostro giro si è concluso di fronte alla sede della RAI. “Il femminicidio non è amore né follia ma dominio!”. Questo striscione è stato aperto davanti alla sede della RAI per denunciare la narrazione tossica della violenze di genere da parte dei principali media nazionali.
I numeri della violenza patriarcale contro le donne disegnano un vero bollettino di guerra. La guerra contro la libertà femminile, la guerra contro le donne libere. Una guerra che i media nascondono e minimizzano, contribuendo a moltiplicarla, offrendo attenuanti a chi uccide, picchia e stupra.
Queste donne sono ammazzate due volte. Uccise dall’uomo che ha tolto loro la vita, uccise da chi nega loro la dignità, raccontando la violenza con la lente dell’amore, dell’eccesso, della passione e della follia.
L’amore romantico, la passione coprono e mutano di segno alla violenza. Le donne sono uccise, ferite, stuprate per eccesso d’amore, per frenesia passionale. Un alibi preconfezionato, che ritroviamo negli articoli sui giornali, nelle interviste a parenti e vicini, nelle arringhe di avvocati e pubblici ministeri. Questa narrazione falsa mira a nascondere la guerra contro le donne, in quando donne, che viene combattuta ma non riconosciuta come tale.
I media sono responsabili del perpetuarsi di un immaginario, che giustifica ed alimenta la violenza contro le donne e tutt coloro che non si adeguano alla norma eterosessuale.
I media colpevolizzano chi subisce violenza, scandagliandone le vite, i comportamenti, le scelte di libertà, per giustificare la violenza maschile, per annullare la libertà delle donne, colpevoli di non essere prudenti, di non accettare come “normale” il rischio della violenza che le colpisce in quanto donne.
Lo stereotipo di “quelle che se la cercano”, che si tratti di sex worker o di donne che non vestono abiti simili a gabbie di stoffa, è una costante del racconto dei media.
La violenza di genere è confinata nelle pagine della cronaca nera, per negarne la valenza politica, trasformando pestaggi, stupri, omicidi, molestie in episodi di delinquenza comune, in questioni private.
I media, di fronte al dispiegarsi violento della reazione patriarcale tentano di privatizzare, familizzare, domesticare lo scontro. Le donne sono vittime indifese, gli uomini sono violenti perché folli. La follia sottrae alla responsabilità, nasconde l’intenzione disciplinante e punitiva, diventa l’eccezione che spezza la normalità, ma non ne mette in discussione la narrazione condivisa.
La violenza maschile sulle donne è un fatto quotidiano, che però i media ci raccontano come rottura momentanea della normalità. Raptus di follia, eccessi di sentimento nascondono sotto l’ombrello della patologia una violenza che esprime a pieno la tensione a riaffermare l’ordine patriarcale.
Se la violenza domestica cade sotto il segno della malattia, la violenza operata da sconosciuti si inscrive nella metafora della giungla, del branco, della bestialità. I violenti, specie se stranieri, lontani, diversi è il perno di una narrazione mediatica, dove il nemico delle donne è posto costitutivamente fuori dal consesso sociale. Qui la violenza maschile esce dallo stereotipo del folle, per assumere quello della bestia. La società è sana: chi uccide le donne o è un pazzo o è una bestia. Non umano, fuori dall’umano.
L’ordine è salvo. Il lutto è privato.
La violenza sulle donne diventa strumento per rinforzare il razzismo verso i migranti: lo straniero è descritto come “bestia”, per poter invocare la chiusura delle frontiere ed espulsioni di massa.
Noi non ci stiamo. Non accettiamo che la libertà e la sicurezza delle donne possano divenire alibi per moltiplicare la pressione disciplinare, i dispositivi securitari e repressivi, il crescere del controllo poliziesco sul territorio.
La violenza patriarcale attraversa i generi, le frontiere, le classi, le culture.
La libertà che le donne si sono conquistate ha incrinato e, a volte, spezzato le relazioni gerarchiche tra i sessi, rompendo l’ordine simbolico e materiale, che le voleva sottomesse ed ubbidienti. Il moltiplicarsi su scala mondiale dei femminicidi dimostra che la strada della libertà e dell’autonomia femminile è ancora molto lunga. E in salita.
La narrazione della violenza proposta da tanti media rende questa salita più ripida.
A ciascun* di noi il compito di scrivere una storia diversa, che non è storia di vittime, ma storia di una lotta per la libertà che fa paura perché sta spezzando l’ordine simbolico e materiale del patriarcato.”
Wild C.A.T. – Collettivo Anarco-femminista Torino
#8MarzoAnarcofemminista

Di seguito alcune immagini delle due giornate di lotta anarcofemminista. Video ed altre immagini sulla pagina fb @Wild.C.A.T.anarcofem