A 15 anni dall’insurrezione che bloccò l’inizio dei lavori per la realizzazione della nuova linea ad alta velocità tra Torino e Lyon, Telt, il general contractor per la realizzazione del nuovo devastante progetto, ha allargato il perimetro del cantiere, arrivando a lambire il presidio No Tav dei Mulini.
Le ruspe sono entrate in azione di notte, mentre l’intera valle è stata serrata in un dispositivo militare impressionante. Tutti gli ingressi alle tante frazioni del paese di Giaglione erano presidiati. I pochi che, durante la notte, sono riusciti ad arrivare all’ingresso del paese sono stati bloccati e multati per violazione della disposizioni del DPCM sul Covid 19.
Nei giorni successivi si sono susseguite le iniziative per cercare di contrastare la militarizzazione della Valle. Giovedì 10 dicembre un corteo partito dal Bivio dei Passeggeri in direzione Giaglione, dopo un centinaio di metri è stato investito da lacrimogeni e sospinto indietro.
Domenica 13 dicembre, diverse centinaia di persone si sono date appuntamento a Giaglione per un presidio statico con assemblea. Dopo l’assemblea i manifestanti si sono diretti in corteo per la strada delle Gorge in direzione del presidio dei Mulini.
L’intera area era pesantemente militarizzata. A metà della sterrata, come ormai da anni, la via era sbarrata da un cancello presidiato dalle forze dell’ordine.
Una parte dei manifestanti si è fermata lì, tanti altri, più capaci di affrontare le asperità di un percorso nei boschi dove pullulavano gli uomini e le donne in divisa, hanno imboccato i sentieri. La polizia ha gasato i manifestanti, che hanno resistito per ore tentando, purtroppo invano, di raggiungere i Mulini.
La lotta non si ferma e si aprono più fronti.
Il Prefetto e presidente dell’Osservatorio sul Tav Palomba convoca i sindaci per discutere di compensazioni.
Giovedì 16 a a San Didero è stato inaugurato il nuovo presidio No Tav, che sarà punto di riferimento per la lotta contro lo spostamento dell’autoporto da Susa a San Didero. L’area dell’attuale autoporto, posta prima della salita verso l’alta valle ed il confine, deve essere sgomberata per far posto al Tav. I lavori a San Didero dovrebbero cominciare entro il 31 dicembre.

Sin qui la cronaca.
L’apertura dei cantieri per realizzazione della nuova linea ad alta velocità ferroviaria, che consegnerà la Val Susa al destino di corridoio logistico per le merci, è ormai molto vicina.
Siamo prossimi al punto di non ritorno.
La vita degli abitanti cambierà per sempre. Camion carichi di smarino e polveri d’amianto percorreranno la valle a est come a ovest, mettendo a repentaglio la salute di tutti. Il dispositivo militare investirà poco a poco anche zone densamente abitate. La perdita di falde acquifere sarà inevitabile e irreversibile.
La lucida profezia fatta quasi 30 anni fa dal movimento No Tav rischia di trasformarsi in dura realtà.
Una realtà che appare in tutta la sua crudezza dopo la lunga sbornia a 5 Stelle.
I giochi elettorali hanno inghiottito enormi energie, senza alcun risultato, se non quello di allontanare ancora di più le persone dall’impegno diretto, dall’azione sul territorio, dal confronto sulle strategie per mettere in difficoltà l’avversario.
Nel maggio del 2018 5 Stelle e Lega stavano perfezionando il loro contratto di governo. Nel contratto si parlava di riesame della Torino Lyon. L’opzione zero non è mai stata sul tavolo.
Chi aveva puntato tutto sui 5Stelle si vantava che la favola della soluzione istituzionale a decenni di lotta No Tav avrebbe avuto un lieto fine.
Oggi sappiamo che la storia ha avuto un ben diverso epilogo. Dopo una lunghissima manfrina il sì alla realizzazione dell’opera è stato sancito dal governo giallo-verde. I 5 Stelle, sedotti e abbandonati dalla Lega, con rapida giravolta si sono alleati con il PD, un altro partito Si Tav, e la partita si è chiusa.
Le procedure per l’avvio dei lavori vanno avanti. La discarica d’amianto sequestrata dalla Guardia di Finanza a Salbertrand, nel luogo destinato a fabbrica di conci per la realizzazione del tunnel mostro di 57 chilometri da Susa a San Jean de Maurienne, è solo un intoppo passeggero. Lo smarino andrà altrove e le gare d’appalto per le nicchie del tunnel di base sono state fatte.
Le ultime elezioni locali hanno indebolito, anche se non sradicato, il fronte istituzionale No Tav, mentre il movimento non ha saputo né voluto fare i conti con la scelta della delega istituzionale.
Pacifico Banchieri, presidente dell’unione dei Comuni, fa il gioco delle tre carte tra movimento, tecnici e governo. Nel 2005, quando le partite si giocavano in strada, il movimento assediava i sindaci circondando Villa Ferro, sede della Comunità Montana bassa val Susa, per far si che a nessuno venisse sedotto dalle sirene del denaro e del potere. Oggi i sindaci discutono con il governo ed il movimento non riesce più a metterli spalle al muro.
Presto partiranno appalti e lavori per il trasferimento dell’autoporto a San Didero e per il tunnel transfrontaliero.
Quest’estate c’è stato un primo allargamento dell’area del cantiere di Chiomonte ed è nato un presidio di lotta ai Mulini di Clarea. In questi giorni un ulteriore salto di due ettari. Uno stillicidio sinora inarrestabile.
La strada è in salita. Un fatto è però certo: la partita si giocherà ancora una volta per le strade. I santi sono tornati in paradiso e la notte è senza stelle.

Non sarà facile. Non lo è mai stato, ma oggi pesa il fardello di una scelta istituzionale, che, in questi ultimi sette anni, in maniera più forte e pervasiva del passato, ha coinvolto anche i settori di movimento, la cui narrazione pubblica era di di grande radicalità.
Una scelta per la quale, dalla “Valle che resiste”, nonostante le varie iniziative di solidarietà ai migranti, non si è mai levata una voce netta e chiara contro il ministro dei trasporti, il pentastellato Toninelli, che chiudeva i porti, rendendo sempre più aspra la guerra nel Mediterraneo. Il movimento non ha detto una parola contro il governo della polizia, della galera, della guerra ai poveri, dei morti in mare e sulle rotte di montagna.
Oggi Toninelli balbetta in tribunale, si trincera dietro ai no so, gioca allo scaricabarile, come se le firme che condannavano i migranti non fossero state le sue. Criminale e vigliacco.
Toninelli ha poi firmato per il Tav. Un’atroce beffa: il silenzio sulle politiche criminali del governo giallo verde è stato uno scivolamento nimby, tanto vergognoso quanto inutile.
I 5 Stelle si sono scordati di pagare la mancetta elettorale a chi aveva rinchiuso in un’urna il destino di un movimento, che tante volte era riuscito, con la propria sola forza, ad obbligare l’avversario a fermarsi.
Queste scelte pesano come macigni e rischiano di ipotecare il futuro, se i No Tav non abbandoneranno la metafora fallace dello sgabello a tre gambe che regge il movimento. Una gamba il movimento popolare, un’altra i tecnici, la terza quella istituzionale.
Le ultime offensive del governo hanno avuto risposte significative dagli attivisti di oggi e di ieri, senza tuttavia la forza impressa da un movimento popolare forte e radicato.
I No Tav sono di fronte ad un bivio: re-imparare a reggersi saldamente sulle proprie due gambe o ridursi a movimento di testimonianza, incapace di ribaltare ancora una volta il tavolo.
La responsabilità di questo movimento è andata ben al di là delle montagne valsusine.
In questi anni anni chi si batteva contro la Torino Lyon era divenuto un punto di riferimento per chi si opponeva a tante altre grandi opere inutili e dannose. Non solo. La lotta contro il treno super veloce è stata anche lotta contro la logica feroce del capitalismo, dello sfruttamento delle risorse e degli esseri umani. Ormai da tanto quella No Tav non era più una mera storia di treni. Era la storia di uomini e donne che avevano assaporato il piacere dell’azione diretta, della politica come luogo di confronto e scelta fuori da ambiti gerarchici, radicata tra le persone. Un’aria di libertà. Di solidarietà con gli immigrati, con gli oppressi, con le fabbriche in lotta, con gli sfrattati, gli antifascisti.
Le derive elettoraliste c’erano sempre state, come anche la capacità di capire e correggere gli errori, nella consapevolezza che solo il movimento popolare, solo i nostri corpi, solo le nostre barricate potevano fermare l’opera e dare, insieme, una bella botta ad un immaginario sociale dove tutto è merce.
Non solo. L’illusione pentastellata è stata ben più forte ed insidiosa di quella per i partiti di sinistra, che, per mantenere le poltrone, avevano fatto repentini dietro front.
La pratica della delega ha negato la storia di chi ha bloccato per decenni il Tav con l’azione diretta, quando un’intera valle è divenuta ingovernabile.
Il sostegno al governo gialloverde è stato un errore molto grave. Il movimento ha rischiato di ridursi a mero gruppo di pressione nell’abbraccio mortale con i 5Stelle, che, pur dichiarandosi No Tav, si erano sempre caratterizzati per posizioni razziste, xenofobe e giustizialiste.
Oggi la strada del movimento è ingombra di macerie.
La lunga illusione pentastellata ha finito con il rendere residuale la pratica dell’azione diretta. Un lungo inverno durato sette anni.
Quest’epilogo ha tuttavia radici che vanno ben al di là della scelta istituzionale, che anzi, è stata l’ultima sponda di un movimento che era stato messo alle corde da una durissima repressione e da un’altra, ancor più potente illusione: quella della lotta di lunga durata, il sogno folle di logorare un nemico tanto più forte. Un nemico deciso a spezzare le ossa a chi era stato in grado di infilare un macigno nell’ingranaggio che rendeva possibile il drenaggio di risorse pubbliche per fini privati. L’enorme bancomat della politica, ma non solo.
Facciamo ancora un passo indietro.
Nel 2005 un’insurrezione popolare fermò un progetto ormai entrato nella fase esecutiva.
Il governo usò la forza, occupò militarmente il territorio, sgomberò con la violenza le barricate della Libera Repubblica di Venaus.
Fu obbligato a fare marcia indietro. Il governo capì che la valle era ormai divenuta ingovernabile, che la gente avrebbe moltiplicato blocchi e barricate. In quel dicembre nessuno era disposto a tornare indietro, tutti erano protagonisti. L’eco di quanto avveniva in valle attraversò la penisola, suscitando indignazione e simpatia. Le olimpiadi invernali erano ormai alle porte.
Nel 2011, dopo anni di melina, consapevole di aver riportato all’ovile solo qualche politico a caccia di poltrone, il governo decise di usare nuovamente la forza.
Non si fece prendere alla sprovvista: l’avanzata delle truppe di occupazione fu lentissima ma inesorabile, in un continuo crescendo di violenza e repressione.
La danza dei manganelli e dei lacrimogeni e il tintinnare di manette sono stati la cifra di quegli anni. E non è ancora finita. In questi mesi i procedimenti arrivano all’ultimo grado di giudizio e le porte del carcere si sono aperte per i condannati in modo definitivo.
La grande favola della democrazia si è sciolta come neve al sole. Ogni volta che libertà, solidarietà, uguaglianza vengono intese e praticate nella loro costitutiva, radicale alterità con un assetto sociale basato sul dominio, la diseguaglianza, lo sfruttamento, la competizione più feroce, la democrazia mostra il suo vero volto.
La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti opinione ineffettuale, mero esercizio di eloquenza, semplice gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia si fa discorso del potere che nega legittimità ad ogni parola altra. Ad ogni ordine che spezzi quello attuale.
Il governi hanno giocato la carta del logoramento, puntando sulla rassegnazione, sulla difficoltà a fermare cantieri difesi da esercito, polizia, carabinieri, blindati.
I sabotaggi, le marce notturne, i sassi e i fuochi d’artificio non hanno mai messo in difficoltà il dispositivo militare intorno al cantiere.
Il governo ha scelto con cura il terreno dove sfidare i No Tav, lo stesso dove stanno aprendo il nuovo cantiere. Un luogo disabitato, dove è stato facile prendere il controllo delle vie d’accesso e costruire un fortino chiuso e ben difeso. Se i militari e gli addetti delle ditte controllavano le strade ai No Tav restavano solo i sentieri. Lo stato ha messo in campo truppe da montagna, gente abituata a stare nei boschi. Così anche i sentieri sono diventati difficili da raggiungere e percorrere. Continuare a “salutare” le truppe di occupazione con fuochi d’artificio ricambiati con lacrimogeni è diventato un esercizio tanto pericoloso quanto inutile. Un esercizio che ha moltiplicato nell’immaginario mediatizzato dei movimenti il mito dei partigiani di valle, ma non ha mai messo in difficoltà l’avversario.
I tentativi di spostare il terreno di lotta, di provare ad allargare il conflitto nell’intera valle e a Torino sono stati duramente contrastati da chi puntava sulla delega e da chi perseguiva i propri progetti egemonici. Altri, pur estranei a queste logiche, sono rimasti a guardare.
La sconfitta che ne è derivata ha riaperto le strade alla delega istituzionale.
È importante che la memoria non vacilli: i No Tav hanno sostenuto ed appoggiato la pratica dell’azione diretta contro il cantiere e le ditte collaborazioniste, i blocchi delle strade e delle ferrovie, lo sciopero generale, le grandi marce e i sabotaggi.
Fermare il Tav è la ragion d’essere del movimento. Ma la strada per arrivarci è importante quanto la meta. In questa storia non ci sono scorciatoie. In ballo c’è molto di più di un treno: la libertà e la dignità di chi non tollera l’imposizione con la forza di una scelta non condivisa.
Il 2005 nessuno lo pianificò ma accadde. I primi a stupirci fummo noi. Le barricate, i tronchi in mezzo alla strada, il blocco delle strade furono la risposta all’occupazione militare. La gente smise di delegare e divenne protagonista della propria storia. Tutti insieme, per le strade e i sentieri. Con il grido degli indiani di valle si scese nella neve, finché l’inverno dei poliziotti e dei manganelli su costretto ad andarsene. Loro erano i più forti, ma sapevano che il seme della rivolta che cresceva all’ombra del Rocciamelone rischiava di attecchire in ogni dove. E per un po’ quell’aria di libertà si diffuse per la penisola.
La partita non si giocò e non si vinse nel pratone sotto i piloni dell’autostrada che incombe su Venaus. Lì l’8 dicembre 2005 andò in scena solo l’ultimo atto. La partita la vinse la gente che poche ore dopo lo sgombero a Venaus bloccò strade, autostrade, ferrovie, paesi. Era il culmine di una storia cominciata molti anni prima. Una storia che si è nutrita del sapere condiviso che tanta gente ha saputo far proprio, impastandolo con l’acqua viva delle proprie aspirazioni ad un mondo di liber* ed eguali. Un mondo dove non sia normale che le merci contino più delle persone. Viviamo un tempo dove solo chi consuma è cittadino, mentre gli altri sono poco meno che scarti da seppellire.
L’insurrezione di 15 anni fa fu importante perché accelerò una rottura dell’immaginario sociale, che già stava maturando nelle esperienze e nei vissuti di quel territorio. Fu il culmine di un processo non un’esplosione anomica priva di prospettive.
Nel 2005 si vinse rendendo ingovernabile la valle. Si vinse perché la partecipazione diretta andò ben al di là delle soggettività politiche più radicali: trattare da nemici anche tanti semplici cittadini in quel momento non era facile.
La scommessa è rendere ancora ingovernabile la valle. Ma non è facile: non c’è un’alchimia che garantisca il risultato. Il passato rielaborato collettivamente come tavolino a tre gambe, ha ormai dimenticato che la gamba istituzionale in quel frangente era variabile dipendente del movimento, non il contrario.
Se saranno i No Tav a scegliere i tempi e i luoghi, a spiazzare l’avversario a mettere al centro strade, piazze e paesi, il movimento popolare può ancora essere protagonista, obbligando il governo a fare marcia indietro. Si può chiudere in gabbia un cantiere, non un’intera valle.
I nuovi lavori in bassa valle offrono occasioni nuove per mettere in difficoltà i nostri avversari, dipende solo da noi coglierle.
Il futuro non si delega: oggi come allora solo l’azione diretta, senza mediazioni, può creare le condizioni per fermare ancora una volta la corsa folle, di chi antepone il profitto alla vita e alla libertà di tutti.
M. M.