Nella notte del 25 novembre, giornata contro la violenza di genere contro le donne, il monumento al bersagliere in corso Galileo Ferraris a Torino è stato ridisegnato in chiave antimilitarista e antisessista da alcunə anarcofemministə di passaggio.
Le vergogne del militarismo sono state coperte, rivelando la natura gerarchica, prevaricatoria, intrinsecamente machista e patriarcale di tutti gli eserciti, che siano essi impegnati in imprese neocoloniali al di fuori dei confini nazionali oppure in operazioni di pattugliamento delle strade dei quartieri popolari.
“Stupratori assassini” è la scritta appesa a mezz’aria, campeggiante sullo sfondo, così come a restare sullo sfondo sono troppo spesso i corpi violati e/o senza vita di tante donne la cui libertà è perennemente sotto attacco.
Patriarcato e ideologia militare vanno a braccetto. Sta a noi tuttə metterci di traverso per scardinare l’ordine che poggia su queste odiose fondamenta.

Contro la violenza sessista, patriarcale, militarista
Né generi, né generali
Lo stupro è un’arma della guerra patriarcale contro la libertà delle donne, uno strumento con cui imporre la propria supremazia.
Nel 1992 i paracadutisti della Folgore, impegnati in Somalia, torturarono e stuprarono una ragazza di 23 anni con un razzo illuminante. La missione “umanitaria” cui parteciparono i parà si chiamava “Restore hope – Restituire la speranza”, un’atroce beffa.
Nel febbraio del 2012, una studentessa venne stuprata all’uscita di una discoteca a Pizzoli nei pressi di Perugia. Abbandonata nella neve in un lago di sangue rimase a lungo tra la vita e la morte. Il suo stupratore, Francesco Tuccia, era un militare in servizio nell’ambito dell’operazione “strade sicure”. Guerra esterna e guerra interna sono due facce della stessa medaglia.
Atrocità sessiste, nazionaliste e razziste sono normali in ogni dove.
L’ideologia militare si nutre di violenza patriarcale: il corpo delle donne è un oggetto di gioco, con cui divertirsi, su cui affermare, attraverso lo stupro di gruppo, lo spirito cameratesco. Un (S)oggetto da dominare e umiliare per mostrare e vedere riconosciuta la propria mascolinità, campo di guerra, terreno di conquista.
La partita sul corpo delle donne si gioca sempre come offensiva conquistatrice o in difesa di quanto è stato “conquistato”.
Annientare è far diventare nulla chi prima era qualcun*. Imporre se stessi sino alle estreme conseguenze: questo è il senso di ogni omicidio.
In guerra è un fatto evidente e, soprattutto, lecito. In guerra uccidere è un merito, un valore.
Quando sotto i colpi cade una donna, il senso, in tempi di “pace” muta. Il termine femminicidio descrive l’uccisione di una donna in quanto donna. L’uccisione di una donna in quanto donna ha un significato intrinsecamente politico. Per paradosso il femminicidio è un atto politico, proprio perché ne viene nascosta, dissimulata, negata la politicità.
La guerra rende più chiara una logica che in tempi di pace si preferisce dissimulare, coprendola con il velo della follia, dell’eccesso “d’amore”, della ferinità latente.
La politicità “normalmente” nascosta emerge: le uccisioni e gli stupri etnici nelle guerre dell’ex Jugoglavia, l’assassinio delle donne curde di religione Yezida che si ribellavano alla riduzione in schiavitù nel nord dell’Iraq ce lo mostrano in modo chiaro. I corpi delle donne violati, asserviti, torturati, obbligati a mettere al mondo i figli degli stupratori servono ad umiliare i maschi del gruppo, incapaci di mantenere il controllo sulle “loro” donne e sulla loro capacità riproduttiva.
In ex Jugoslavia le donne e le bambine violentate venivano obbligate a portare a termine le gravidanze loro imposte.
Sui corpi delle donne si giocano continue battaglie di civiltà. Sia che le si voglia “tutelare”, sia che le si voglia “asservire” la logica di fondo è la stessa. Resta al “tuo” posto. Torna al “tuo” posto. Penso io a te, penso io a proteggerti, a punirti, a disciplinarti.
Alle nostre latitudini la promessa protezione delle donne è sin troppo spesso alibi per politiche securitarie, che si servono dei nostri corpi per giustificare strette disciplinari sull’intera società. Le donne in lotta sanno che lo stereotipo della vittima serve solo a giustificare una perenne messa sotto tutela che nega la scommessa rivoluzionaria dei tanti percorsi della libertà femminile.
Agiamo in prima persona la sfida al patriarcato, con l’azione diretta e il mutuo appoggio. Questa sfida si concreta anche nella ferma opposizione nei confronti del militarismo.

Contro tutte le guerre, gli eserciti, le frontiere, gli stati, la produzione e il commercio di armi partecipiamo alla giornata di lotta lanciata dall* compagn* dell’Assemblea Antimilitarista per la giornata di apertura dell’Aerospace and defence meetings, mostra mercato dell’industria bellica aerospaziale.
Via i mercanti d’armi da Torino!
Presidio antimilitarista martedì 30 novembre ore 12,30
all’Oval Lingotto in via Mattè Trucco 70.

Wild C.A.T. – collettivo anarcofemminista torinese
riunioni ogni mercoledì alle 19 presso la FAT – corso Palermo 46
@Wild.C.A.T.anarcofem