Dalla stagione delle stragi e delle minacce golpiste degli anni ‘60/’70, alla dura repressione dei movimenti (da quello antiglobalizzazione a quello contro la devastazione dei territori, contro il TAV e le discariche abusive), alla ripresa dell’attività nazifascista, alla sindrome securitaria con le sue legislazioni d’emergenza in seguito agli attentati del radicalismo islamista, all’attacco delle conquiste sociali, politiche, un filo si snoda ininterrottamente in questi 51 anni: il filo di una politica che, al di là di alcuni aggiustamenti di facciata, vuole mantenere inalterati prerogative e poteri dei ceti dominanti.

La repressione è ‘l’impedimento, per mezzo della forza, di ciò che tende a sconvolgere specialmente un assetto politico o sociale’: questa è la definizione del vocabolario. Questa è la pratica di ogni governo – quindi di ogni apparato statale – nei confronti di quanti si oppongono concretamente, per necessità o per idealità, al suo operare. Ecco quindi l’uso della polizia, dei carabinieri, delle altre forze militari e paramilitari, per mettere a tacere chi si impegna a trovare una soluzione alla questione sociale, che è sempre soluzione di eguaglianza e di libertà.

Sarebbe illusorio pensare che la repressione si sconfigge delimitando i confini della lotta allo scontro con le forze repressive dello Stato. La repressione si sconfigge prosciugando l’acqua stagnante della politica istituzionale, erodendo le basi della gerarchia sociale, dando fiato alla critica e al discredito nei confronti dei ceti dirigenti, facendo crescere la volontà autogestionaria di soluzione diretta dei propri problemi, sviluppando solidarietà nei confronti di chi lotta e resiste. La repressione in sostanza si batte sconfiggendo lo Stato, socialmente e culturalmente.

La repressione può essere diretta, come a Genova nel 2001, oppure indiretta, come per la strage di Piazza Fontana nel 1969, ove la strategia d’attacco si articolò con una bomba addossata ai componenti di un gruppo anarchico (Valpreda, Gargamelli, Borghese, Di Cola) per costringere sulla difensiva il movimento di contestazione allora in espansione.

La scelta dei tempi e dei modi è evidentemente relazionata alla forza e alla consistenza dell’opposizione. La mattanza di Genova ha avuto come effetto il ripiegare del movimento; la strage del 12 dicembre ha costretto il movimento operaio e studentesco a un salto di qualità, alla radicalizzazione dello scontro nello smascheramento delle responsabilità, in un confronto aperto con le forze repressive statali . Ci vorranno altre stragi di Stato: Brescia, l’Italicus, la stazione di Bologna,…fino a che il movimento non rifluirà e la repressione diretta si potrà dispiegare sui pochi che resistono.

La repressione è spesso preventiva per impedire, o almeno ostacolare, lo sviluppo di movimenti di contestazione. In tal caso si crea un pericolo, lo si enfatizza, lo si ingigantisce, per creare consenso e mobilitazione intorno a parole altisonanti (difesa dell’ordine repubblicano…dei valori democratici…dello Stato nato dalla resistenza…) e quindi isolare e annichilire gli embrioni di opposizione. La letteratura e l’esperienza sono ormai sufficientemente vaste a riguardo.

La fase attuale si caratterizza per un crescente attivismo militare funzionale alle politiche di spartizione mondiale delle aree di riferimento. Approfittando della ‘guerra alla pandemia’ le classi proprietarie e dirigenti mondiali sono impegnate a mettere ordine nei loro Stati – e nei relativi sistemi d’alleanze – cercando di comprimere le già ridotte libertà individuali e collettive, e di mettere all’angolo o di integrare, annullandoli, i principali strumenti di opposizione sociale autorganizzata (sindacati conflittuali, associazioni di base).

Il rischio di derive autoritarie attraverso l’uso di tecnologie digitali, introdotte per il contenimento del virus, si è fatto concreto: in almeno in 20 Paesi del mondo la pandemia è stata pretesto per introdurre nuove e radicali restrizioni nella repressione del dissenso. Lo stesso Consiglio della UE sta lavorando su come aggirare il sistema crittografico e rafforzare gli strumenti a disposizione delle polizie. La Francia, con la sua proposta di legge a protezione delle violenze poliziesche fa da battistrada.

Aumentano ovunque significativamente le spese militari, nel contempo si criminalizzano e si condannano pesantemente nei tribunali gli oppositori (come recentemente a Torino le attiviste NoTav e i militanti coinvolti nell’operazione Scripta manent), si uccidono nelle carceri i detenuti come nel marzo di quest’anno, si lascia affogare nel Mediterraneo chi fugge dai campi di concentramento libici e non solo (669 solo nel 2019), si permette l’intensificazione dello sfruttamento con le conseguenti morti sul lavoro (950 solo nel 2019). Anche i 60mila deceduti in Italia a causa dell’epidemia – un dato purtroppo non definitivo – devono ringraziare un sistema che ha fatto del profitto e della sua difesa il proprio elemento distintivo.

La ‘guerra alla pandemia’ – che si nutre di speculazioni, di cattiva informazione e che non fa le cose essenziali come quella di finanziare la sanità magari dirottando, in primis, le spese militari – ha preso oggi il posto della ‘guerra permanente’, la parola d’ordine di qualche anno fa ribattezzata a sua volta, in stile giacobino, ‘guerra per la democrazia’ per giustificare l’aggressione ad altri paesi e assicurarsi il controllo delle reti energetiche. I mezzi per vincerla sono sempre gli stessi: una gigantesca campagna mediatica (moderna forma della repressione preventiva) per estorcere consenso, la riduzione dei governati a un livello di docilità tale da rendere insignificante la critica e la dissidenza.

Ogni guerra è, per sua natura, guerra civile che ha come risultato di colpire non solo chi la subisce, ma la stessa società che la partorisce. Nemico esterno e nemico interno per lo Stato si equivalgono.

E poiché la democrazia si configura sempre più come forma di governo autoritario dei ceti dominanti e dei ceti medi a essi legati, ove il consenso viene estorto e manipolato grazie ai sistemi di controllo mediatico e alla ragnatela delle mafie e delle clientele, l’imposizione avviene usando contemporaneamente le armi della repressione sia diretta sia preventiva.

Ancora una volta vi è la necessità di riprendere il filo della memoria, almeno in alcuni dei suoi punti salienti. Infatti è proprio nelle fasi dinamiche del potere che è importante non solo ricordare alcuni fatti e alcune figure che hanno segnato il nostro tempo, ma anche delineare una cornice di riferimento dalla quale far ripartire una critica radicale sempre più condivisa in un contesto dominato dalla sindrome securitaria frutto oggi della grande manipolazione che le sta a monte, funzionale al travisamento dei fatti (le reali responsabilità del governo nell’epidemia in corso trasformate in responsabilità dei singoli) e all’annichilimento delle coscienze.

Per questo in questi giorni ricordiamo – accusando – la strage di piazza Fontana con i suoi 17 morti e 88 feriti e gli assassinii del nostro Giuseppe Pinelli nella questura di Milano e dell’internazionalista Saverio Saltarelli, colpito al petto da un lacrimogeno mentre manifestava il 12 dicembre 1970: una strage di Stato e due delitti di Stato.

Massimo Varengo (quest’articolo è uscito sull’ultimo numero del settimanale anarchico Umanità Nova  www.umanitanova.org