Venerdì 4 giugno le strade di Torino sono state invase con gioiosa rabbia dalla slut walk lanciata dalla rete free(k) pride contro la violenza omolesbobitransfobica e il pinkwashing istituzionale.
Il sabato precedente Stefanessa, frocia attiva nelle lotte a Torino, era stata aggredita alla Vucciria, il quartiere della movida palermitana.
Le si sono avventati contro in quattro, armati di bottiglie
e decisi a sfregiarla, come le hanno gridato per disprezzo. La bottiglia non è arrivata a segno ma una gragnuola di pugni al volto le ha spaccato il naso, tumefatto un occhio, gonfiato il volto. Quando l’ultimo pugno del gruppo macista l’ha atterrata, è stata colpita a calci: in ospedale le hanno dato 25 giorni di prognosi.
Ieri, oltre a Torino, si sono svolte slut walk in
diverse altre città italiane in solidarietà a Stefanessa, aggredita per essere una frocia non conforme, una che non abbassa la testa, che non rinuncia ad essere se stessa, si mostra come vuole sempre e ovunque.
A Torino, il corteo è partito dai giardini (ir)reali ed ha attraversato le vie del centro, perché la vicenda di Stefanessa ci ricorda che ogni giorno è un pride, un modo per affermare se stess*, per gettare in faccia i nostri corpi e le nostre identità non conformi, indisponibili a sottomettersi al processo di normalizzazione istituzionale intrapreso da chi ci vorrebbe assimilare alle famiglie patriarcali, di chi crede che la violenza omolesbobitransfobica e misogina si combatta con tribunali e galere, con chi ci vorrebbe ingabbiare nel ruolo di vittime da tutelare, soggetti deboli.
Omobilesbotransfobici e misogini giocano la carta della paura, per rendere invisibili i corpi e le identità eccedenti, straordinarie, favolose. Vorrebbero che ci nascondessimo, ci adattassimo, ci normalizzassimo.
Occorre che la paura cambi di campo.

La pratica dell’autodifesa, della costruzione collettiva di ambienti più sicuri, va di pari passo con il rifiuto del ruolo di vittime.
Sui media la violenza patriarcale viene quasi sempre rappresentata con i
volti tumefatti ed esibiti degli uomini, con i corpi rannicchiati, il capo chino, il volto coperto delle donne. Gli uni con i segni della punizione, che subiscono perché non sono “veri” uomini, perché i “veri” uomini le botte le danno non le subiscono, le altre si nascondono, perché la violenza è e deve restare una vergogna per chi la subisce.
I media cancellano altresì l’alterità radicale di chi non ci sta a farsi ingabbiare in un genere,
di chi non vuole essere né “uomo” né “donna”, di chi rifiuta ogni gabbia, ogni confine tra le persone e tra i generi, di chi costruisce se stess nella propria irriducibile individualità al di là di tutti gli stereotipi. Stereotipi usati dai media che hanno imposto un falso nome maschile a Stefanessa, hanno parlato di “coppie gay”, perché la coppia, possibilmente monogama, è l’unica forma di relazione che concepiscono, perché rassicurante, incasellabile, “normale”.
Chi agisce violenza vorrebbe ridurci a cose, privarci del sembiante umano; chi rappresenta la violenza non di rado la perpetra, sia con le immagini che con le
cronache che distorcono i fatti, li piegano alla narrazione che iscrive la violenza sotto il cappello della follia o dell’eccezione, avallando così l’immagine di una società e di un apparato istituzionale “sani”.
La passeggiata delle puttane torinese ha rispedito al mettente la solidarietà pelosa delle istituzioni, il giustizialismo del DDL Zan, il pinkwashing di Appendino, la sindaca degli sgomberi e delle retate, del controllo militare delle periferie e della cacciata dei rom dalla baraccopoli di via Germagnano.
Per le strade di Torino, complice una travolgente samba band, hanno parlato, gridato, cantato, scosso il culo tantissime
mostruosità intransigenti con chi opprime, sfrutta, deporta, rinchiude, fa guerra.